sabato 23 febbraio 2013

Une photo, vieille photo, de ma jeunesse

       Primavera 1969. Foto di classe della III E, Liceo classico statale "Massimo d'Azeglio", Torino. Emerge da un mucchio di vecchie carte, nel mio ufficio. Sono ritratto a fianco di una compagna di classe con cui ebbi un abbozzo di storiella.
       Sono io. Lo sguardo è il mio. L'abbigliamento curato è il mio. Il gilet è mio. Mi piacevano molto già allora. Mi sono piaciuti sempre. Trovo che vestano molto, con eleganza.
       Fuori dal cortile della scuola, in via Parini 8, a Torino, pulsavano i fermenti di un'età di transizione. A dicembre ci sarebbe stato l'attentato di Piazza Fontana, a Milano. L' "autunno caldo" c'era già stato. Ora stavano per cominciare gli "anni di piombo".
       Mi ricordo di un periodo di feste, di paura per l'imminente esame di maturità, poi temperata dal sollievo per il fatto che, per la prima volta a partire dalla riforma Gentile, non si sarebbero più portate all'esame tutte le materie, ma solo due scritte e quattro orali.
       Non amavo per niente il "d'Azeglio", ma ero lieto di esserne allievo, perché dopo tutto era la scuola più prestigiosa della mia città. Mi piaceva abbastanza la mia classe, dove avevo buoni amici. Mi piacevano le ragazze.
       Non sapevo che cosa avrei voluto dalla vita. Avevo dentro di me, allora come ora, un sogno di grandezza. Avrei voluto fare il politico, ma avevo scelto la parte sbagliata in un Paese che non ha mai perdonato chi sta con coloro che perdono. E io sono sempre stato dalla parte di chi perde.
       "Il cuoco di Salò" di Francesco De Gregori era una canzone che non era ancora stata scritta, ma io, a modo mio, ne anticipavo i versi. Per me, per il mio animo intriso - allora come ora - del più totale, assoluto e mai denegato romanticismo, schierarmi dalla parte dei vinti significava interpretare sulla mia pelle un verso bellissimo, il verso più bello che sia mai stato scritto sull'esperienza della Repubblica di Salò, che suona così: "E qui si fa l'Italia e si muore". Attenzione, badate bene, non il garibaldino, di Calatafimi (1860), "Qui si fa l'Italia o si muore", un detto che esprime un'alternativa, un esito possibile, tra vittoria "O" morte. Ma il dolente, dolentissimo spirito repubblicano (o "repubblichino", se preferite) che emerge da "E qui si fa l'Italia 'E' si muore", che non è alternativo, ma conseguenziale, nel senso che, per fare l'Italia così come la mia parte politica di allora l'aveva intesa, non restava altro da fare che morire. Una morte testimoniale, da classici "marturoi", dunque etimologicamente testimoni. I testimoni del sacrificio a un'idea e a un immarcescibile senso dell'onore, perché è lecito, direi addirittura che è normale, per un "soldato politico", perdere la vita, ma non lo è, non lo è stato e non lo sarà mai, perdere l'onore e la dignità. E a noi l'Italia dell'8 settembre davvero non piaceva, era una ferita che lacerava le nostre giovani carni.
        Vivevamo in un mito. Io sono sempre vissuto in vari miti. Di recente, una mia amica psicologa me lo ha rimproverato come se stessi perennemente conducendo un'esistenza parallela. Credo volesse scuotermi, più che ferirmi, ma credo che, molto involontariamente, mi abbia fatto un bellissimo complimento. Lei riconduce tutto a un suo "piano di realtà" che io non so davvero che cosa sia. Io vivo nella mia dimensione, e solo quella mi interessa. Sarà un "piano dell'irrealtà"? Se così fosse, ne sarei lieto e onorato.
        All'epoca, ipotizzavo di fare il docente universitario, capitalizzando sulla mia vasta conoscenza della storia in generale e della storia militare in particolare. Ma sapevo poco o nulla del mondo. I miei occhi, in quella foto, esprimono intensità, e forse anche una passioncella per la ragazza che mi sta a fianco. Non fu nemmeno una vera e propria storia, ma la ricordo con tenerezza, così come si è soliti ricordare il passato. Di una cosa sono comunque orgogliosissimo: già allora avevo in mente una certa idea di me e ancora oggi posso dire di averla sempre messa in pratica e averla sempre rispettata. Quel Piero Visani, non ancora diciannovenne, è qui seduto a scrivere queste righe. E' sempre lui. Era così dieci anni prima, nel 1959; è così adesso. C'è chi mi rimprovera questo mio modo di essere, scambiandolo per una perenne forma di immaturità. Io mi permetto di ritenerlo una fantastica forma di fedeltà a me stesso e alla mia idea di me. E sono attaccatissimo a questa mia visione del mondo. Ho traversato "turbini e tempeste" e, per rimanere nell'immagine "giannananniniana", continuo a ritenermi - con perfetta, assoluta e plastica immodestia - una "meravigliosa creatura". Ho preso tanti sputi, per questo, e sono qua a sorriderne. Prima o poi mi spezzerò, com'è ovvio e giusto che sia, ma non mi sono mai piegato. Ne sono orgogliosissimo.

                                              Piero Visani

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