sabato 23 marzo 2013

Siamo sempre all'8 settembre

       La storia italiana ha un'unica data veramente significativa, ultimativa, pregnante: l'8 settembre 1943. Il giorno della "morte della Patria". E' la data che dovrebbe essere assurta a festa nazionale di uno Stato che è sempre in festa, di una Nazione che forse non è mai esistita.
       Perché proprio l'8 settembre? Non solo e non tanto per l'ennesimo cambiamento di campo, per il modo vergognoso e vigliacco con cui fu operato, lasciando i soldati di turno senza ordini, a morire in nome e soprattutto per conto di una classe dirigente che intanto se la svignava vigliaccamente a Brindisi, con in testa un Savoia che, da bravo Savoia, sapeva solo saltabeccare da uno schieramento all'altro, senza capire niente di niente (ma - si sa - i piemontesi non brillano per capacità intellettuali...; colgo l'occasione per precisare che sono di origini romagnole, abito a Torino per puro accidente della Storia. Non amo la città né i suoi abitanti), quanto perché l'8 settembre è una data paradigmatica di una fuga, la più classica e ripetuta fuga tipica della storia nazionale: la fuga dalle responsabilità.
      Nel nostro Paese, da sempre, si diventa classe dirigente per cooptazione e la cooptazione si basa, da sempre, sull'inversione dei valori, nel senso che più sei deficiente, incolto, testa di cavolo e autoreferenziale, più piaci ai potenti nazionali, perché sei perfettamente identico a loro. In una parola, devi "legare l'asino dove vuole il padrone". Nessuno ti precisa un dato supplementare ma essenziale: anche il padrone è un asino, oppure - perché no? - è proprio l'asino...
       Quando accadde l'incidente in cui furono coinvolti i due marò del "San Marco", qualche testa di cavolo italica, insediata alla Farnesina o al Ministero della Difesa tanto per rubare uno stipendio, disse al comandante della nave di attraccare in un porto indiano: in pratica, gli fece fare l'unica cosa che non avrebbe dovuto fare. In tutti i Paesi normali, un soggetto del genere sarebbe stato costretto a rapide dimissioni. Qui da noi l'avranno di certo promosso.
        Dopo di che, è stato un unico scaricabarile. Due poveri fucilieri di Marina trasformati, come sempre, in vittime sacrificali e soprattutto sacrificabili e una classe dirigente che, selezionata con i metodi di cui sopra, se la canta e se la suona da sola e non sa assolutamente mai de qua agitur.
         Sprezzante del ridicolo (no, non del pericolo, a quello è particolarmente sensibile...), il carrozzone degli idioti al potere dà il meglio di sé e, con le premesse testé delineate, ve lo potete facilmente immaginare: ordini, contrordini, machiavellismi da portineria, esibizionismi di quart'ordine, e via evacuando... (la scelta del termine non è casuale, ma indica da dove promanano le decisioni di costoro).
          L'8 settembre, per noi, è un dato consustanziale. Siamo sempre lì, e da lì mai ci muoveremo, anche perché la Repubblica, molto colpevolmente, ha sempre cercato di spacciare quella data come il giorno di inizio del nostro riscatto antitedesco, mentre fu solo la data di un ennesimo, vergognoso tradimento.
          I conti, nella Storia, si fanno nei tempi lunghi, ma i conti tornano sempre. Lo zio di mia moglie, capitano degli Alpini nei Balcani, era andato in guerra come volontario. La sera dell'8 settembre 1943, lasciato senza ordini, si fece uccidere dai tedeschi - per i quali, sia detto tra parentesi, simpatizzava - per difendere gli apparati radio di cui era responsabile dai tedeschi che volevano sequestrarglieli. Morì in nome del re (scrivo rigorosamente minuscolo, ho senso dello stile e della Storia, io...) e della dignità militare. Di un re che teneva i suoi soldi nelle banche londinesi mentre eravamo im guerra con la Gran Bretagna e che stava illustrando l'Italia con la fuga a Brindisi. Nei giorni successivi, a un altro mio zio, caporalmaggiore della "Folgore" e prigioniero negli USA, venne chiesto se stava con il Re e con Badoglio, o se preferiva rimanere fedele alla parola data. Non ci fu neanche bisogno di chiederglielo, visto che i soldati veri di parola ne hanno una sola. Tornò nel dicembre 1946, da prigioniero non cooperatore, ma con la schiena diritta, sebbene avessero tentato in vari modi, anche rudi, di piegargliela ed ebbe tempo di insegnarmi, ad abundantiam, dche cosa pensare della classe dirigente italiana. Lui che aveva dovuto affrontare i carri armati inglesi, ad El Alamein, con le bottiglie Molotov e poco altro...
       Avendo sempre occultato chi sono i cialtroni, i ladri, i traditori, non per prendersi rivincite impossibili, ma per fare chiarezza e migliorare il nostro carattere nazionale e il nostro sistema di selezione delle élites saremo sempre al punto di partenza, cioè all'8 settembre. Ecco perché, da qualche anno a questa parte, mi sento fieramente apolide e, se e quando potrò, restituirò con analoga fierezza il mio passaporto. Io non voglio più essere italiano.

                               Piero Visani


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