mercoledì 25 settembre 2013

Storia della guerra - 6: Gli Arabi




6. Gli arabi

   Tra le varie minacce che l’impero bizantino dovette affrontare nel corso della sua millenaria esistenza, l’Islam – come si è accennato nella puntata precedente – fu quella che più spostò verso nuove direzioni l’evoluzione della guerra. Fino a quella data, infatti, anche se il nemico era spesso stato percepito dai combattenti come un “altro da sé”, nei confronti del quale nessuna pietà era auspicabile (prima ancora che possibile), non era in pratica mai accaduto che questo nemico fosse mosso da motivazioni diverse da quelle tradizionali di conquista: ricerca di nuove terre, espansione del proprio impero, abbattimento dei propri avversari.

   L’affermazione dell’Islam, a partire dal VII secolo dopo Cristo, apre una fase e una dimensione nuove nella storia del conflitto. Purtroppo, nella realtà odierna, è difficile parlare sine ira nec studio dell’Islam, che da qualche tempo è diventato, per ragioni ben note e per nulla condivisibili, una delle tante reincarnazioni del “Male assoluto” che i padroni del mondo, quando fa loro comodo, sono soliti evocare ogni volta che vedono seriamente messa in crisi la loro indiscussa (e indiscutibile) posizione di primato. Tale atteggiamento, tuttavia, è inaccettabile dal punto di vista scientifico e si nutre di esigenze di propaganda che in questa sede non possono ovviamente trovare ospitalità. Tenendosi lontani da queste ultime, è innegabile che, a partire dal 600 d. C., l’Islam appare come una forza nuova, spinta da una motivazione potentissima, quella religiosa. Dalla penisola arabica, i seguaci di Maometto, pur non disponendo di una dottrina militare propria e potendo contare su forze numericamente modeste, cominciano ad espandere rapidamente i loro territori per la gloria di Allah e la propagazione dell’Islam. Un’ardente fede religiosa costituisce il loro principale motore e li spinge ad affrontare rischi notevolissimi, nella serena coscienza – come è scritto sulla spada stessa del Profeta – che “La viltà non salva dal destino” (un’affermazione, sia detto per inciso, sulla quale anche molti europei di oggi farebbero bene a riflettere, perché riassume in poche parole il loro, anzi il nostro, triste futuro).

   La vulgata corrente vuole che, ogni volta che si parla di espansione islamica, sia di prammatica il riferimento alla jihad, cioè alla “guerra santa”, vale a dire a un tipo di guerra che, per come viene rappresentata, sembrerebbe un esercizio di follia isterica condotto da bande di assatanati. In realtà, nella sua accezione originale, il termine sta piuttosto ad indicare la lotta che ogni musulmano autentico deve condurre, tanto all’interno del suo animo quanto nel mondo, per rendere più forte l’Islam. Nulla di trascendentale o di particolarmente innovativo, dunque, ma probabilmente nessuno, in passato, aveva trovato nella motivazione religiosa un così poderoso fattore di espansione e conquista.

   Stretti tra l’impero bizantino, da una parte, e quello persiano, dall’altra, i musulmani d’Arabia non disponevano di forze organizzate lontanamente paragonabili, in termini qualitativi e quantitativi, a quelle dei loro avversari, ma seppero presto fare tesoro degli insegnamenti dedotti dalla pratica del conflitto. In una fase iniziale, il tradizionale metodo di guerra arabo consisteva essenzialmente nell’effettuazione di incursioni, anche a lunga e lunghissima distanza, che avevano lo scopo di indebolire la capacità del nemico di sopravvivere in un clima assai difficile. Sotto questo punto di vista, fondamentale per le forze arabe fu la loro capacità di sfruttamento del deserto, grazie alla superiore conoscenza delle scarse sorgenti d’acqua disponibili e degli altrettanto scarsi pascoli; per non parlare del fatto che il loro consumo medio di acqua era assai inferiore a quello degli eserciti nemici. Grazie a tale conoscenza, infatti, era consentita ai loro reparti una mobilità strategica che le condizioni geografiche e climatiche avrebbero indotto ad escludere (e che troppo spesso i comandanti degli eserciti avversari furono erroneamente indotti ad escludere). Tale mobilità era resa possibile dalla disponibilità di cammelli e dromedari per gli spostamenti di tutto l’esercito, fanteria compresa, mentre i cavalli dei reparti equestri erano risparmiati con grande cura e utilizzati solo nell’imminenza dei combattimenti.

   A livello tattico, costanti erano l’estrema mobilità, la ricerca della sorpresa (la soluzione tattica più diffusa era il cosiddetto karr wa farr, una sorta di anticipazione di un espediente moderno come il ben noto hit and run della tradizione militare anglosassone, vale a dire colpire di sorpresa e sottrarsi rapidamente alla reazione dell’avversario), l’impiego della cavalleria a massa e il ricorso al condizionamento psicologico del nemico mediante l’utilizzo costante e ossessivo del suono dei tamburi. Molta attenzione era prestata pure all’armamento: l’arma per eccellenza era la spada, leggera e piuttosto corta, ma molto usati erano anche le lance e gli archi. La protezione del corpo dei combattenti era relativamente leggera, in quanto le condizioni climatiche non consentivano soluzioni diverse. Tuttavia, con il passare del tempo e con il perfezionamento dell’organizzazione militare e della struttura logistica, la cavalleria – la cui importanza sul campo di battaglia stava diventando costantemente crescente – venne organizzata in modo da poter fare ricorso, al momento del combattimento, su armature decisamente più pesanti.

   In battaglia, gli eserciti arabi erano soliti sfruttare alla perfezione le caratteristiche del terreno. Inoltre, consapevoli della loro superiore adattabilità climatica, erano soliti attaccare il nemico nelle ore più torride della giornata, al fine di sfiancarlo più facilmente. La tradizione occidentale ha attribuito loro una reputazione di grande ferocia, che in realtà non è pienamente riscontrabile nelle fonti e che potrebbe in una certa misura dipendere dalla sensazione di paura diffusa dalla straordinaria espansione dell’Islam. Di sicuro, come è tipico di quell’epoca storica (e purtroppo anche di quelle successive), è probabile che i comportamenti più estremi siano stati superiori a quelli di autolimitazione.

   Un aspetto che è importante sottolineare è il ruolo attivo riservato dai primi eserciti musulmani alle donne in battaglia, un comportamento che in una certa misura le avvicina alle Amazzoni della mitologia greca. A questo proposito, val la pena di raccontare un gustoso episodio: durante la fondamentale battaglia di Yarmuk (636), che sancì la conquista islamica della Siria, un contrattacco bizantino riuscì inaspettatamente ad irrompere nell’accampamento delle forze musulmane, dove però si trovò di fronte ad un’orda di donne, armate di tutto punto e ben decise a tradurre in pratica l’ordine dell’anziana signora che le guidava, che nelle fonti viene eufemisticamente (e pudicamente) tradotto con le parole “Accorciate la terza gamba del nemico!”. Di fronte a tanta determinazione, ed ai rischi conseguenti per la loro virilità, non sorprende che i Bizantini preferissero battere rapidamente in ritirata...

   Al di là dei tocchi di colore, resta il fatto che la grande espansione geografica dei popoli arabi (dall’Indo ai Pirenei, passando per il Medio Oriente e l’Africa del Nord), dopo la loro conversione alla fede musulmana nel VII secolo, rimane uno degli eventi più straordinari della storia mondiale. Naturalmente non si trattò di un impero unitario, ma di una realtà alquanto frazionata, spesso divisa da rivalità interne, nella quale i soli veri legami erano rappresentati dalla religione musulmana e dalla lingua e dalla scrittura arabe. Come tutti gli imperi destinati ad un’esistenza non effimera, anche quello musulmano si preoccupò di consolidare la propria struttura, dotandosi di un sistema politico-amministrativo e di un’organizzazione militare permanente, ma soprattutto badò a fare opera di proselitismo religioso e culturale, spesso operando con mano tutt’altro che leggera.  

   L’evoluzione del fenomeno bellico non risultò particolarmente condizionata, nei suoi aspetti fondamentali, durante l’espansione islamica, anche se la mobilità strategica evidenziata dagli eserciti musulmani, la loro flessibilità operativa, il ricorso a soluzioni tattiche in grado di sopperire agli elementi di debolezza e a valorizzare i fattori di forza, devono essere tutte considerate novità di notevole rilievo. La discriminante fondamentale, tuttavia, fu rappresentata dalla sovrarappresentazione della componente religiosa, in termini che fino a quel momento nessun esercito aveva praticato. I guerrieri dell’Islam erano spinti da una fede profonda, da convincimenti apparentemente incrollabili, e stavano spostando il conflitto da una dimensione essenzialmente politica, nella quale era rimasto circoscritto fino a quella data, ad una dimensione “altra”, nella quale nuovi e diversi fattori diventavano cruciali, e dove l’ostilità reciproca si allargava a territori nuovi, in buona parte inesplorati. La guerra tra avversari che si riconoscevano, per quanto talvolta a fatica, una legittimità reciproca, tendeva a mutare natura, a configurarsi come un gioco al massacro tra nemici implacabili, dove l’altro era sempre un “altro da sé”, con il quale nessuna reale mediazione era possibile. Si delineavano i contorni di una dinamica che aveva ancora molta strada da fare e che, purtroppo per noi, l’avrebbe percorsa fino in fondo.
 
                                              Piero Visani

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