sabato 28 settembre 2013

Storia della guerra - 7: L'alto Medioevo

  Quando, nel 732 dopo Cristo, l’espansione araba verso l’Europa occidentale raggiunse la Francia e venne fermata a Poitiers dai Franchi, guidati da Carlo Martello, il Vecchio Continente era già da tempo in preda ad una trasformazione di carattere politico-militare, oltre che economico-sociale, destinata a durare per parecchi secoli, ben oltre l’anno Mille.

   È impossibile tracciare un quadro unitario, specie nei ridotti spazio qui disponibili, di un fenomeno complesso e multiforme come il Medioevo. Si può solo accennarne, molto a grandi linee, le caratteristiche essenziali, che sono comunque di grande importanza per la storia della guerra.

   Tutto il sistema feudale, a ben guardare, è dominato da esigenze di carattere militare e di sicurezza. Nella parte occidentale dell’Europa, infatti, la caduta dell’impero romano ha determinato una frammentazione di poteri alla quale non è facile porre rimedio. Gli Stati che nascono in quel periodo sono strutture fragili, alquanto frammentate, dove il potere centrale ha difficoltà a fare sentire la propria presenza sulle periferie e dove la rudimentale struttura amministrativa, se e quando è presente, non riesce ad organizzare un sistema che consenta ai vari monarchi di reclutare eserciti anche solo per periodi relativamente brevi e a dotarli di un armamento adeguato. La più efficace soluzione che viene trovata per risolvere questo problema consiste nella concessione a un certo numero di signorotti locali, da parte del potere centrale, di appezzamenti terrieri, denominati “feudi”, all’interno dei quali i feudatari instaurano la loro autorità. In cambio, essi si impegnano a servire il loro sovrano per un limitato periodo di tempo (in genere non più di 40 giorni), mettendosi a sua disposizione a livello personale come cavalieri e aggiungendovi una porzione più o meno vasta di milizie a piedi (le quali devono tenere conto, nella loro composizione, del fatto che, per ogni uomo che va in guerra, ne devono rimanere almeno altri due o tre nei campi a coltivare la terra al posto di costui). In conseguenza di questo fenomeno, molti Stati europei cominciano a caratterizzarsi per la nutrita presenza di feudi, in genere contraddistinti da un insediamento fortificato – dapprima rudimentale e in legno, poi sempre più raffinato e in pietra o in muratura.

   Acquisire il diritto a diventare titolari di un feudo è un’operazione alquanto onerosa. Gli storici hanno infatti calcolato che un proprietario terriero dovesse poter disporre di almeno 160-180 ettari di terra per riuscire a fornire al proprio signore un singolo cavaliere (in genere sé medesimo). Con queste premesse, non è certo sorprendente che il potere e la ricchezza si fondino sulla proprietà terriera e sui castelli che ne testimoniano la presenza.

   Le conseguenze di questo fenomeno sull’arte della guerra sono notevoli e tutt’altro che positive: se quello che conta è riuscire a mettere a disposizione del sovrano una forza di cavalleria e dei contingenti di fanteria, e se la cavalleria è l’arma di cui fanno parte, per scelta di prestigio sociale e valenza militare, tutti i feudatari, è naturale che essa diventi l’arma più diffusa, relegando la fanteria in un ruolo subalterno. Si tratta di una cavalleria che viene impiegata, nella logica che si era affermata dopo le invasioni barbariche, essenzialmente come cavalleria corazzata, ma il suo numero è in genere talmente modesto da non consentire di parlare di un suo impiego a massa. Più semplicemente, siamo di fronte alla “regina della battaglia” medievale, nei cui confronti la fanteria svolge nulla più che un ruolo di supporto.

   Non si tratta di un’evoluzione casuale, ma è frutto del fatto che, nell’VIII secolo, con l’introduzione della staffa, muta radicalmente la tecnica del combattimento a cavallo: fino a quella data, infatti, il cavaliere aveva avuto non pochi problemi nel controllo dell’animale; con la staffa, per contro, egli non è più costretto a stringere con forza le proprie cosce al costato del cavallo, può ergersi sulle staffe e – soprattutto – può maneggiare con molta maggiore libertà armi decisamente più pesanti, flettendo anche il corpo in varie direzioni, ciò che gli permette altresì di accrescere la forza che conferisce ai fendenti che mena.

   L’invenzione della staffa conferisce alla cavalleria, che già godeva di un superiore prestigio sociale, anche una superiorità tecnica sulla fanteria, destinata a durare, pur con qualche incidente di percorso su cui ritorneremo, fino al 1300. Questa convergenza socio-tecnica si rivela irresistibile ai fini della supremazia tattica e strategica della cavalleria, anche se si tratta di una supremazia monocorde, che nell’impiego sul campo si traduce in soluzioni assolutamente primitive e prevedibili, come l’impiego a massa contro cavallerie di composizione e condotta analoga, o contro fanterie che si sentono socialmente inferiori, prima ancora che militarmente, ai loro avversari. Non è un caso che, quando questa condizione di subalternità non è percepita – come a Legnano nel 1176 – e quando i fanti sono liberi cittadini decisi a combattere per la difesa delle loro terre e delle libere istituzioni che si sono date, la fanteria si dimostra un difficile ostacolo per la cavalleria, dal momento che è praticamente impossibile indurre i cavalli ad attaccare i quadrati di fanti, irti di lance, spade e picche.

   Tuttavia, la strenua difesa del Carroccio a Legnano, da parte dei fanti della Lega lombarda, è un’eccezione che conferma la regola, e la regola è che, per buona parte del Medioevo, la guerra è soprattutto una guerra di cavalleria e, in subordine, di assedio, poiché i numerosissimi centri fortificati che costellano la geografia di ogni territorio di buona parte dell’Europa devono essere conquistati per non vedersi bloccato lo svolgimento di qualsiasi tipo di operazione a largo raggio. Non sorprende, dunque, che quello medievale sia il periodo per eccellenza della guerra d’assedio e delle macchine che ne costituiscono l’essenza.

   Sotto il profilo culturale, come ha egregiamente dimostrato Franco Cardini in un’opera magistrale quale Quell’antica festa crudele (Firenze, 1982), l’interazione fra il ruolo politico, sociale e militare della cavalleria, e quello religioso del cristianesimo (e la sua concezione della “guerra giusta”), ha contribuito in larga misura alla nascita di quel codice d’onore che è passato alla storia con la denominazione di “cavalleresco”. Come ha fatto notare il grande storico fiorentino, con l’affermazione del concetto di “cavalleria” si sviluppa una dimensione della guerra che presuppone una drastica limitazione del ricorso alla violenza e una forma di autolimitazione nel comportamento bellico. Tutto questo non è ovviamente frutto del caso, ma di un’omogeneità socioculturale che è generata dal riconoscimento, su versanti geografici e politici diversi, del medesimo status di “cavaliere”, figura da identificare con quella di un guerriero di professione che combatte con onore, rispetto del nemico e rifiuto della crudeltà. Come ha riconosciuto lo stesso Cardini, non sempre i comportamenti sul campo risultavano in linea con i solenni principi del codice d’onore, ma è molto importante sottolineare, proprio trattando di storia della guerra, che il codice cavalleresco continuerà a vivere (e in una certa misura vive tuttora) nel mondo militare.

   Altro aspetto che dimostra l’importanza della Chiesa in quei secoli sono le Crociate, cioè le varie spedizioni militari con cui i guerrieri cristiani tentarono di salvaguardare la Terrasanta dall’occupazione musulmana. Nel corso di esse, si poté assistere all’applicazione, da parte cristiana, del concetto di “guerra giusta”, cioè di conflitto sostenuto da motivazioni che erano talmente elevate da essere per ciò stesso giustificabili agli occhi di chi, come la dottrina cristiana, si è sempre dimostrata assai poco comprensiva nei riguardi del fenomeno bellico latamente inteso. Naturalmente, proprio per la loro natura intrinsecamente religiosa, le Crociate si distinsero per un elevato contenuto di violenza, dal momento che il nemico non era un avversario in qualche modo riconosciuto, ma un “altro da sé” nei confronti del quale, in quanto “infedele”, ogni violenza era legittima. Sul piano militare, tuttavia, esse dimostrarono che l’arte della guerra medievale, pur se primitiva rispetto ai vertici toccati ad esempio in epoca romana, era pur sempre sufficiente ad affrontare con buone prospettive di successo, per di più in un terreno relativamente poco noto, gli eserciti musulmani. Sicuramente non ci fu, da parte dei Crociati, una dimostrazione di superiore capacità tattico/strategica rispetto agli Arabi, ma ci furono grande esibizione di coraggio e valore personali, e il manifestarsi di un sistema di guerra che, per quanto imperfetto, quasi sempre si dimostrò superiore a quello dei loro avversari.

   Per concludere, nel corso del Medioevo la storia della guerra andò avanti, anche se talvolta l’arte della guerra parve andare indietro, ma si deve sottolineare che si tratta di un giudizio – quello sull’arretramento dell’arte militare – che un sempre maggior numero di storici non riconosce come fondato, preferendo evidenziare il fatto che la pratica bellica, confermando una volta di più gli stretti rapporti che la legano all’evoluzione politica, economica, sociale e culturale, assunse forme che erano quelle peculiari del suo tempo. Grandi mutamenti, del resto, erano alle porte.

                                                                 Piero Visani




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