lunedì 14 ottobre 2013

Storia della guerra - 12: La guerra a cavallo fra Seicento e Settecento


Il lunghissimo regno di Luigi XIV in Francia (1643-1715) segnò l’avvento in Europa del primo esempio di esercito moderno, così come lo si intende ancora oggi. Questo sviluppo rappresentò la più importante conseguenza del grande rafforzamento del potere statale, frutto dell’amministrazione centralizzata instaurata da Richelieu e potenziata da Colbert. Grazie alla solidità del potere statale, infatti, fu possibile mettere a disposizione del sovrano un vero e proprio ministero della Guerra: sotto l’abile direzione di Michel Le Tellier e successivamente di suo figlio, il marchese di Louvois, la Francia fu la prima potenza europea a dotarsi di un’organizzazione militare moderna, a tutti i livelli, in cui lo Stato si preoccupava non solo di reclutare grandi eserciti, ma di organizzarli, vestirli, sfamarli e armarli. Nel 1695, ad esempio, l’esercito del “Re Sole” aveva alle armi poco meno di 400.000 uomini, una cifra pari al 2% della popolazione francese dell’epoca. La spesa militare assorbiva addirittura il 76% dell’intero bilancio dello Stato e, nell’ambito di quest’ultima, il 17% era dedicato alla realizzazione di un complesso sistema di piazzeforti e fortificazioni permanenti che doveva costituire un solido baluardo a protezione dei confini della Francia.

   Fu soprattutto il Louvois a integrare le unità dell’esercito in reggimenti e brigate permanenti, a rendere standard l’uniforme bianca tipica delle armate francesi pre-rivoluzionarie, a creare un’amministrazione responsabile del funzionamento della complessa macchina militare (l’“intendance”), a sviluppare la cooperazione tra funzionari civili e militari, orientando questi ultimi essenzialmente sugli aspetti tecnico-operativi, e ad allestire strutture assolutamente nuove come un sofisticato servizio cartografico e un embrionale ma già efficiente servizio di informazioni.

   Basato su reggimenti permanenti, alcuni dei quali intesi alla diretta protezione del sovrano (come i “moschettieri” resi celebri da Alexandre Dumas) e gli altri – i più – organizzati in forma reggimentale su base territoriale, il nuovo esercito francese è una realtà profondamente moderna, animata da un’assoluta devozione al sovrano (il quale, a sua volta, è molto attento a dimostrare la propria attenzione e il proprio favore nei riguardi dell’esercito, che, in ultima analisi, costituisce il più solido fondamento del suo potere). Come in tutte le monarchie, l’esercito resta il più tradizionale sbocco professionale della nobiltà, che in tal modo può dare concretamente prova della propria fedeltà al monarca, ma si fa sempre più forte, in questo periodo, l’afflusso sotto le armi di figli della borghesia, specialmente nelle armi tecniche, cioè l’artiglieria e il genio, anche se resta loro preclusa la possibilità di andare oltre il grado di colonnello, visto che gli alti gradi sono riservati ai nobili.

   La natura stessa dell’esercito, tuttavia, sta cambiando e, insieme ad essa, si sta modificando profondamente il ruolo sociale del soldato: dopo un lungo periodo in cui quest’ultimo era un soggetto socialmente marginale, una figura a cavallo tra il predatore e il delinquente (neppure sempre nobilitato dal fatto di agire in nome di un interesse superiore), la fusione tra la nuova organizzazione della macchina militare e i residui dello spirito cavalleresco porta alla nascita di una nuova etica militare, in base alla quale si serve il sovrano in virtù della fedeltà al giuramento a questi prestato, della solidarietà con i propri commilitoni, dell’esigenza – intimamente condivisa – di compiere sempre e comunque il proprio dovere. È proprio questo profondo mutamento sul piano etico a cambiare il ruolo del militare nella società, a trasformarlo da soggetto marginale ed emarginato a fulcro dei valori etici di uno Stato, a persona che è in grado di incarnare in sé forme di attaccamento al dovere che possono spesso e facilmente arrivare fino al sacrificio supremo: la morte. Dunque un esempio positivo per tutta la popolazione.

   Come si è in precedenza accennato, questo è il periodo della nascita, in Francia, di un massiccio sistema di fortificazioni, realizzato da Sébastien Le Prestre de Vauban, forse il più grande architetto militare della storia. Egli convinse infatti Luigi XIV della possibilità di costruire una “Fortezza Francia”, edificando una complessa catena di fortificazioni lungo i confini orientali del Paese, modificando 83 città e creando 8 nuovi centri strategici. Tale sistema avrebbe costituito un baluardo insormontabile per qualsiasi nemico. La soluzione ideata da Vauban non era casuale, bensì conforme alla natura assunta dall’arte della guerra in quel periodo. Le piazzeforti, infatti, oltre a coprire le frontiere, servivano ad incanalare lungo direttrici precise potenziali armate di invasori, offrivano rifugio in caso di sconfitta, disturbavano le comunicazioni e le linee di rifornimento del nemico, e consentivano di mantenere basso il ritmo degli eventi bellici, ciò che offriva molto spazio all’attività diplomatica e ai rovesciamenti di alleanze. In una parola, la grande intuizione di Vauban fu quella di comprendere che le fortificazioni non erano fini a se stesse, ma potevano essere agevolmente utilizzate come fattore strategico e anche politico.

   Questo sviluppo non era casuale ma frutto del fatto che, dopo il crescendo di fanatismi, violenze e distruzioni della Guerra dei Trent’Anni, tutti gli Stati europei erano interessati a moderare gli eccessi dei conflitti: emendata dei suoi contenuti religiosi e ideologici, la guerra poteva più facilmente rientrare all’interno della politica se veniva universalmente riconosciuta e accettata la sua funzione di prosecuzione della politica stessa “con altri mezzi” e con alcune finalità ben precise, come dirimere le controversie tra gli Stati e far conseguire all’uno o all’altro una serie di vantaggi – in genere territoriali – assolutamente tangibili. Appare perciò abbastanza paradossale che questo tipo di guerra, dal limitato carico di violenza e dai costi contenuti, sia passata allo storia con la denominazione (invero non priva di una valutazione spregiativa neppure troppo larvata) di “guerra in merletti” (“guerre en dentelles”), senza tenere conto che la sua natura regolamentata e quasi rituale era frutto del fatto che i contendenti erano pienamente consapevoli che un conflitto del genere avrebbe dovuto concludersi con vantaggi concreti per il vincitore, rifiutando programmaticamente qualsiasi eccesso di violenza e distruzioni, che non sarebbe stato utile per alcuno.

   Sul piano tattico, infine, per quanto possa sembrare sorprendente la seconda metà del XVI secolo fu caratterizzata da una certa nostalgia per il ritorno dell’arma bianca. Non si trattava, tuttavia, di una scelta dettata da misoneismo, ma da precise esigenze tattiche. Troppo spesso, infatti, i moschetti erano soliti creare problemi sul campo di battaglia, specie quando la pioggia o l’umidità ne rendevano realmente complicato l’impiego. In circostanze del genere, il fatto che la fanteria disponesse soltanto di moschetti poteva rendere molti reparti inermi di fronte a un nemico che non fosse afflitto in egual misura dagli stessi problemi o adottasse soluzioni tattiche diverse (il ricorso all’arma bianca, appunto). Fu così che verso il 1670 si ebbe (pare in Gran Bretagna, ma la paternità è incerta) un’intuizione geniale in termini di principio, anche se non subito funzionale sotto il profilo dell’utilizzazione pratica: la trasformazione del moschetto in arma bianca mediante l’inserimento a forza, all’interno della sua canna, di un pugnale speciale, la cui impugnatura, progettata in modo da fornire prestazioni modulari, si adattasse alla luce dell’arma da fuoco. Grazie a tale intuizione, l’arma da fuoco si poteva trasformare, al momento opportuno, in arma bianca e il moschettiere poteva a sua volta diventare un picchiere e sfruttare la potenza dell’urto invece che quella del fuoco. Poiché i primi esemplari sperimentali di questa nuova arma furono prodotti a Bayonne, in Francia, essa prese il nome di “baionetta”, destinato a ritagliarsi un posto di primo piano nella storia militare.

   Una volta risolto il problema dell’interscambiabilità tra arma da fuoco e arma bianca, il che consentiva ai comandanti sul campo di alternare a piacimento l’azione distruttiva fornita dalla potenza del fuoco con quella risolutiva affidata all’arma bianca, restava da risolvere quello dello schieramento della fanteria. Poiché, per quest’ultima, la chiave di tutto restava la celerità del tiro, era chiaro che, quanto più l’addestramento la rendeva veloce, tanto minori erano le linee su cui i suoi reparti si potevano schierare. Non a caso, già all’inizio del Settecento le “giacche rosse” della fanteria inglese, molto ben addestrate al tiro, avevano necessità di schierarsi su non più di tre righe, perché tale profondità era più che sufficiente per mantenere una cadenza di fuoco molto rapida.

   Tra la seconda metà del Seicento e i primi decenni del Settecento, dunque, gli eserciti di alcune tra le principali potenze europee assunsero caratteri standardizzati e molto moderni, assai simili a quelli che avrebbero conservato per almeno due secoli. I conflitti a livello continentale erano sempre alquanto numerosi, ma si stava avvicinando a grandi passi un’epoca nuova, che avrebbe ampliato a dismisura le dimensioni geografiche e anche quelle politico-culturali della guerra.

                Piero Visani