venerdì 4 ottobre 2013

Storia della guerra - 8: Dal Medioevo all'età moderna


   La costrizione più grande che ci si trova ad affrontare quando si deve operare una sintesi storica consiste nel dover riassumere, in poche righe, fenomeni che sono durati secoli e si sono sviluppati per evoluzione progressiva, più che per drastici salti qualitativi. Tuttavia, dovendo farlo, è possibile affermare che, nel campo della storia della guerra, il passaggio dal medioevo all’età moderna avvenne sulla base di una complessa serie di fenomeni politici, economici, sociali e naturalmente anche tecnici.

   Sul piano politico, il progressivo rafforzamento di alcuni Stati nazionali portò ad un forte incremento del potere centrale e delle sue risorse, grazie alle quali esso poté tornare a permettersi di mantenere – come non era invece riuscito a fare per tutto l’Alto Medioevo – un nucleo consistente di truppe regolari, prevalentemente – com’è logico – di fanteria. Al tempo stesso, l’assetto feudale del potere locale assunse caratteristiche sempre più stabili, che tuttavia, per poter durare nel tempo, esigevano che il singolo feudatario non perdesse – se possibile – la vita in guerra e cercasse di rafforzare la posizione sua e della sua famiglia, trasmettendo la sua dignità e il suo patrimonio ai figli. Di conseguenza, il modello militare del cavalierato cominciò ad entrare in crisi sul piano concreto non molto tempo dopo che si era pienamente affermato sul piano culturale. Molti cavalieri, infatti, preferivano rimanere al sicuro nei loro castelli piuttosto che morire in battaglia.

   Fu la Guerra dei Cento Anni (1337-1453) a fungere in un certo senso da compendio dei mutamenti rivoluzionari che stavano avendo luogo nella struttura della società e, al tempo stesso, nell’arte della guerra: nell’arco di poco più di un secolo, la forma di guerra feudale venne sostituita da pratiche militari più moderne; il ruolo centrale della cavalleria corazzata cedettero il posto ad una più equilibrata composizione degli eserciti; l’inesistenza di soluzioni tattiche, a parte quella dell’urto frontale di piccole schiere di cavalieri dotati di pesanti armature, prese lentamente a dissolversi, lasciando il posto ad eserciti che ritornavano ad essere il frutto della combinazione di armi diverse (dunque non solo cavalleria, ma anche fanteria e artiglieria).

   Sul piano della tecnica militare (e delle soluzioni tattiche che sempre derivano da innovazioni significative nel campo degli armamenti), tre furono i grandi protagonisti di questa trasformazione: l’arco (il long bow) della fanteria inglese, l’alabarda degli svizzeri e – in misura minore, ma destinata ad avere effetti decisamente più duraturi e permanenti – l’introduzione delle armi da fuoco, dapprima nel campo delle artiglierie e successivamente in quello delle armi portatili.

   Il long bow divenne l’arma tradizionale della fanteria inglese intorno alla fine del Duecento. Questo tipo di arco, che era lungo fino a 180 centimetri, veniva teso fino alle orecchie ed era molto più lungo di tutti gli archi che lo avevano preceduto. Era superiore anche alla balestra, a causa della maggiore frequenza di tiro e della superiore gittata. La sua forza di penetrazione era molto elevata, anche se forse i successi che colse sui campi di battaglia contribuirono a consolidare intorno a questo tipo di arco qualche comprensibile esagerazione. La sua freccia, lunga circa 90 cm, non poteva forare le migliori armature di piastre dell’epoca, ma penetrava nelle cotte di maglia o negli interstizi inevitabilmente presenti in qualsiasi armatura, mentre risultava devastante contro i cavalli. A ciò si deve aggiungere il fatto che l’impiego di questi archi aveva luogo invariabilmente a massa, il che stava a significare che il tradizionale cavaliere corazzato medioevale si vedeva precipitare addosso un’autentica pioggia di frecce, visto che la cadenza di tiro poteva arrivare fino alle 10-12 frecce al minuto. Com’è ovvio, la forza necessaria per tendere un arco di quelle dimensioni fino all’orecchio (una tecnica che fino a quel momento era stata scarsamente usata) comportava un lungo periodo di addestramento, dal momento che occorreva che un arciere esercitasse una trazione di poco meno di 70 kg, il che richiedeva una notevole forza fisica. Inoltre, anche la precisione di tiro era molto curata, e non poteva che essere il frutto di una diuturna applicazione. La portata teorica di un’arma del genere era di circa 360 metri, ma, nella realtà, la portata pratica era di poco superiore alla metà di tale distanza e quella davvero utile in combattimento non superava i 50 metri, il che costringeva gli arcieri a proteggersi dalla minaccia della cavalleria coprendo il loro fronte con pali appuntiti alti circa 1,80 metri.

   La battaglia di Agincourt (1415) segnò il momento culminante della crescente importanza del long bow. In quello scontro, la cavalleria francese, le cui armature erano diventate sempre più pesanti a causa della necessità di proteggere i cavalieri (e anche i cavalli) dall’insidia delle frecce, risultò praticamente immobilizzata di fronte alla potenza e alla cadenza di tiro degli archi, e subì una rovinosa disfatta.

   In quegli stessi anni, in un’altra parte d’Europa, la Svizzera, i montanari elvetici, pur impiegando tattiche molto diverse da quelle degli inglesi, determinarono uno sconvolgimento analogo nell’arte della guerra: in sostanza, essi dimostrarono la consistenza dell’ipotesi, da tempo caduta nel più completo oblio, che una fanteria bene armata e ben addestrata poteva passare all’offensiva contro la cavalleria e batterla senza particolari problemi.

   L’arma che consentì questa seconda rivoluzione tattica fu l’alabarda. Quest’ultima – insieme ad un altro strumento bellico ad essa molto simile, l’angone – racchiudeva in sé tre armi e altrettante funzioni su un’asta della lunghezza di due metri e mezzo: essa aveva infatti una punta di lancia, una lama d’ascia che poteva penetrare di taglio l’armatura di un cavaliere e, infine, un uncino che poteva essere utilizzato per disarcionare un uomo a cavallo.

   L’alabarda, tuttavia, era un’arma essenzialmente offensiva, per cui, prima che gli svizzeri potessero misurarsi con la cavalleria nemica in territori meno tatticamente favorevoli delle montagne che caratterizzavano il loro Paese, dovettero risolvere due problemi: in primo luogo, come opporsi all’effetto distruttivo di una carica della cavalleria corazzata e, secondariamente, come impedire il formarsi, nei propri ranghi, di vuoti utilizzabili dalla cavalleria avversaria per rompere il loro schieramento. La soluzione escogitata dagli svizzeri per sormontare tale difficoltà combinava i metodi utilizzati dalle due maggiori potenze di fanteria del mondo antico: la formazione standard, infatti, era la falange, come quella macedone, dotata di un’arma difensiva tipica, la picca, un’asta lunga 5,5 metri, la cui punta era collegata al fusto da un collo di ferro lungo quasi un metro, destinato a impedire che la punta della picca potesse essere mozzata da un colpo di spada. Di fronte alle cariche di cavalleria del nemico, i reparti svizzeri presentavano, di conseguenza, lo stesso aspetto massiccio e irto di lame della falange macedone, ma – altra innovazione cruciale – il loro schieramento non era rigido, bensì altamente flessibile, proprio come era stato quello della legione romana, con possibilità di suddividersi, se necessario, in varie formazioni minori e ricompattarle, sempre sul campo di battaglia, se le esigenze tattiche lo richiedevano.

   La terza e ultima innovazione tattica decisiva, nel passaggio dal Basso Medioevo all’età moderna, fu rappresentata dalla progressiva introduzione in servizio delle armi da fuoco, dapprima come artiglierie ingombranti e molto difficili da muovere, poi con cannoni sempre più leggeri e maneggevoli, ciò che inevitabilmente allargò i compiti dell’artiglieria dalla sola guerra d’assedio all’intervento, sempre più costante e massiccio, negli scontri campali. Fu necessario invece attendere più tempo, cioè almeno fino al 1520 circa, perché le armi da fuoco portatili facessero la loro comparsa sui campi di battaglia e bisogna riconoscere che, quanto meno in una fase iniziale, il loro apporto non fu così tatticamente sconvolgente da introdurre particolari innovazioni: i primi archibugi, infatti, erano complicati da maneggiare, lunghi da caricare e non sviluppavano inizialmente una potenza di fuoco che potesse essere paragonabile ad un fitto lancio di frecce.

   Era chiaro tuttavia che la guerra, insieme – come sempre - alla società, stava cambiando: i piccoli nuclei di combattenti dell’epoca feudale avevano fatto il loro tempo e le crescenti risorse a disposizione dei nascenti Stati nazionali stavano riportando in auge gli eserciti permanenti, formati da masse ben più consistenti di uomini. Alcuni significativi cambiamenti tattici avevano radicalmente modificato l’arte della guerra, mentre ancora latitavano le innovazioni sul versante strategico. Sotto quest’ultimo profilo, il Medioevo aveva non solo imposto un arresto all’evoluzione della strategia, ma ne aveva addirittura determinato una regressione, dal momento che le manovre ad ampio respiro dell’antichità greca, romana o bizantina si erano praticamente eclissate per secoli, lasciando il posto a pratiche di guerra ripetitive e su scala assai ridotta. Tuttavia, la ricomparsa della flessibilità sul campo di battaglia e il ritorno sul terreno di eserciti non formati soltanto da cavalieri, ma anche da fanti (divisi per di più in diverse specialità) e artiglieri, stavano segnando l’avvento dell’età moderna anche sul versante bellico.

                                        Piero Visani