martedì 12 novembre 2013

Conosci il tuo nemico


   Il primo luglio 1988, visitando il National War College di Fort McNair, alla periferia di Washington, ebbi modo di conoscere molti docenti di quella che all’epoca era la massima istituzione culturale militare degli Stati Uniti. Riscontrai in loro grande preparazione teorica e mi colpì la frase con cui uno di essi mi illustrò quella che considerava l’attività prioritaria del College: «qui insegniamo ai militari a dubitare». Mi parve una dichiarazione programmatica di estremo interesse, nella sua sostanziale iconoclastia, in un ambiente assai più proclive all’obbedienza cieca e assoluta. E mi piacque molto l’atteggiamento positivamente dubitativo di un intero staff destinato a perfezionare la preparazione dottrinale dei più alti gradi delle Forze Armate Usa. Ricordo che mi sembrò il modo migliore per iniziare un viaggio che mi avrebbe portato in dieci Stati, attraverso le più diverse componenti dell’istituzione militare americana.

   La favorevole impressione iniziale, tuttavia, fu subito smenti-a dal contatto con la realtà di Esercito, Marina, Aeronautica e Marines, dove non trovai proprio nulla che potesse somigliare ad un dubbio, ma una rigida organizzazione gerarchica, basata fin troppo spesso sulla stanca iterazione di formule vuote. L’unico militare che riprese sul serio l’invito a dubitare fu – alla celebre scuola dei “Berretti verdi”, la John F. Kennedy Special Warfare School di Fort Bragg (North Carolina) – una figura quasi mitica come il colonnello (in pensione) Bob Mountel, l’uomo che, insieme ad un pari grado ancora più famoso, Charles Beckwith, aveva radicalmente trasformato natura e caratteristiche delle forze speciali Usa.

   Quell’esperienza mi è tornata in mente, qualche anno fa, leggendo sulle pagine de “la Repubblica” il resoconto della visita dell' (allora) inviato Mario Calabresi al Combating Terrorism Center (CTC) della celebre accademia di West Point. Sotto il profilo teorico, infatti, le testimonianze da lui raccolte sono sostanzialmente le stesse da me messe insieme vent’anni prima, alla fine dell’epoca reaganiana, quando ancora la guerra al terrorismo non era cominciata. E sono testimonianze che, sotto il profilo teorico, non fanno una grinza: non c’è dubbio che la guerra al terrorismo sia una battaglia di idee e di percezioni (ma tutti i conflitti, non solo questo, lo sono), così come è indubbio che sia indispensabile studiare approfonditamente il nemico per comprenderne natura e caratteristiche, e per individuarne le vulnerabilità. Ma questo va fatto sempre e comunque, sarebbe sorprendente il contrario.

   Emerge dal tutto la sensazione – sempre forte quando si partecipa a lezioni o seminari del mondo di cultura anglosassone – che la teorizzazione dell’ovvio non sia un aspetto secondario di questo universo, che spesso lascia perplessi molti europei. La stessa contrapposizione tra grandi teorici della guerra come Sun Tzu e Carl von Clausewitz fa rimanere interdetti per la sua natura palesemente strumentale, visto che naturalmente quello bellico è un campo dove non è possibile applicare ricette preconfezionate, sicuri che funzioneranno.

   A mio parere, quello che viene condotto è soprattutto un lavoro di sensibilizzazione, che investe non solo i gradi più alti ma anche più bassi della gerarchia militare, cercando di diffondere il convincimento che l’approccio fin qui adottato è stato sostanzialmente errato. L’unilateralismo della cultura militare statunitense è un dato storicamente accertato e ha un unico riferimento concettuale: la guerra totale. Tanto per fare un esempio eloquente, incontrando Helmuth von Moltke in occasione della guerra franco-prussiana del 1870-71, il generale Philip Sheridan, il più brillante comandante di cavalleria unionista della Guerra Civile, suggerì al suo attonito interlocutore che «la strategia adeguata consiste nel […] causare agli abitanti tante sofferenze da far sì che essi desiderino la pace e costringano il governo a chiederla. Al popolo non devono rimanere che gli occhi per piangere». La constatazione che questo suggerimento veniva da un generale americano a uno prussiano, e non viceversa, potrebbe far mutare tante idee preconfezionate esistenti in materia...

   La dottrina della guerra totale si è sempre posta al centro – in forma esplicita o meno – del pensiero militare americano e i suoi irrinunciabili corollari sono stati la filosofia della potenza del fuoco, il “firepower” destinato ad avere ragione di qualsiasi nemico con le risorse dell’industria prima e della tecnologia poi, e i corollari dell’overkilling e dei “danni collaterali”. Ancora oggi, se si leggono i verbali dei frequenti processi intentati a militari statunitensi resisi responsabili di spiacevoli incidenti di “fuoco amico”, non si può fare a meno di notare che il desiderio di sparare, in loro, è nettamente superiore (e prevalente) rispetto a qualsiasi altra implicazione, compresa quella di colpire connazionali o alleati.

   Il CTC di West Point svolge dunque un lavoro altamente meritorio, perché si prefigge appunto di insegnare a dubitare, di sgombrare la mente dei militari da troppo facili certezze, di liberarli da una cultura unilaterale e sostanzialmente brutale per farne dei combattenti più flessibili, meno ottusi, capaci di discriminare i loro obiettivi a fini di conquista delle “menti e dei cuori” delle popolazioni locali. Sono decine, riferiti alla sola guerra del Vietnam, i casi di uomini delle forze speciali pazzi di rabbia contro quelli dell’Esercito regolare perché, dando fuoco senza troppo pensarci su ad un qualche villaggio nell’intento di “salvarlo dal comunismo” (sic), vanificavano mesi o anni di paziente lavoro dei “Berretti verdi” con gli elementi locali e gettavano centinaia di persone nelle braccia dei vietcong. È evidente l’intento della dirigenza militare attuale di non ripetere quella distruttiva esperienza, ma il vero problema è più di carattere pratico che teorico: come riuscire a far filtrare questi insegnamenti di modo che gli ufficiali li abbiano bene in mente quando sono sotto il fuoco nemico, gli uomini cominciano a cadere, le tensioni e le emozioni salgono all’eccesso, e occorre avere il massimo controllo di sé per non compiere atti che si dimostrino tragicamente controproducenti? Non pare che finora siano stati compiuti grandi progressi, al riguardo...

                                                                                Piero Visani

 

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