lunedì 18 novembre 2013

Una vecchia recensione


   Fa sempre piacere leggere libri, specie se pubblicati di recente (quanto meno in lingua italiana), dove le vicende storiche sono affrontate senza retropensieri politici di alcun genere e dove tutte le ipotesi vengono vagliate, senza escluderne alcuna, per ricomporre un quadro da cui – trattandosi di storia militare – emerga unicamente la valentia tecnica dei protagonisti. È quanto accade immergendosi nelle pagine de Il principe nero. Junio Valerio Borghese e la X Mas (Mondadori 2007), scritto da due esperti di guerra navale come Jack Greene e Alessandro Massignani.

   Certo, per noi italiani, passati attraverso una dilacerante guerra civile, il solo accenno a certi nomi fa ancora scattare reazioni pavloviane che peraltro, ad oltre un sessantennio di distanza, appaiono sempre meno motivabili. E queste reazioni, intrise di passione politica, fanno dimenticare il dato che oggi dovrebbe invece emergere con forza: la nostra tradizione militare, per quanto criticatissima, non è priva di figure di altissimo livello (non solo il comandante Borghese, ma uomini come Teseo Tesei, Luigi Durand de la Penne, Gino Birindelli, Elios Toschi, per non citarne che alcuni), capaci di illuminare, con le loro imprese, anche un’esperienza militarmente funesta come la partecipazione al secondo conflitto mondiale.

   Dalle pagine del libro emergono verità già note, ma mai adeguatamente pubblicizzate: siamo un popolo privo di una reale tradizione militare, ma non certo privo di fulgide figure di combattenti. L’istituzione militare, al pari di un po’ tutte quelle dello Stato unitario, è stata spesso molto più un simulacro che una realtà, dando ricorrenti prove di incompetenza, misoneismo, scarso professionismo e autentica incapacità tecnica. Di conseguenza, le nostre virtù guerriere – che non mancano – hanno dovuto venire a galla superando l’azione di filtro esercitata da una casta professionale dove - come ha giustamente notato Domenico Quirico in Generali – la crescita esponenziale delle fasce addominali pareva rappresentare il requisito primo da soddisfare per gli ufficiai desiderosi di giungere ai vertici della gerarchia militare.

   Così, è normale che siamo un popolo adatto soprattutto alle forze speciali: le Forze Armate regolari sono state sempre paralizzate dal burocratismo tipico di ogni istituzione nazionale, mentre nei corpi d’élite ha potuto rifulgere l’individualismo di un popolo dove un pugno di singoli spesso cerca di sopperire da solo alle macroscopiche carenze delle istituzioni tradizionali, e talvolta ci riesce. Come tali, siamo di fatto gli inventori di una forma peculiare di guerra asimmetrica, quella in cui i combattenti non sono soltanto obbligati a sopperire alle carenze nei riguardi del nemico, spesso frutto di una marcata disparità di forze, ma anche e soprattutto a quelle derivanti dalle incredibili deficienze di strutture votate al vuoto formalismo e non alla sostanza che, quando messe alla prova, combattono di fatto dalla parte dell’avversario.

   Questo è il grande merito del libro di Greene e Massignani, non a caso concepito e scritto per un pubblico di lingua inglese: sottolineare ciò che in realtà in Italia tutti dovrebbero sapere, ma che invece è sempre stato tenuto accuratamente nascosto per evitare che venissero fuori le non esaltanti verità che vi stanno dietro: pur possedendo una flotta tra le prime al mondo, il ruolo della Marina italiana nel secondo conflitto mondiale fu assai inferiore al suo reale potenziale. Il suo prestigio – e quello della Nazione – venne tenuto in piedi dalle capacità e dallo spirito di sacrificio dei singoli e di alcune unità di eccellenza come la Decima Flottiglia Mas. È sufficiente, per dare corpo a questa affermazione, leggere i commenti ammirati di parte britannica di fronte alla magistrale incursione del 19 dicembre 1941 nel porto di Alessandria d’Egitto, che portò all’affondamento delle corazzate inglesi Queen Elisabeth e Valiant: «Tutti noi pensavamo che la marina italiana fosse incapace, inefficiente, perfino vigliacca» - ebbe a scrivere il guardiamarina Frank Wade, in servizio sulla prima delle due corazzate - «tuttavia, ben presto dovremmo ricrederci e riconoscere l’eroismo e l’ingegnosità dei suoi uomini». Lo stesso Winston Churchill dovette ammettere, sia pure a denti stretti, che gli inglesi non sembravano al momento capaci di condurre un’azione di quel livello.

   La soluzione utilizzata dalla X Mas, in realtà, era quella classica del moltiplicatore di forza affidato al valore di pochi: essendo evidente l’inferiorità italiana sul mare di fronte alla potenza della Royal Navy, alla sua superiore tecnologia, alle sue portaerei, alla sua professionalità e alle sue capacità di intelligence, alle carenze strutturali si poteva comunque tentare di sopperire – con successo – spostando la conflittualità ad altri livelli, creando asimmetrie di natura diversa da quelle tradizionalmente esistenti e sfruttandole a proprio vantaggio. In questa logica, era addirittura formidabile per modernità e intuito l’idea di Borghese di condurre un attacco contro New York, nel corretto convincimento che un’operazione del genere avrebbe rappresentato una grande vittoria morale, in quanto avrebbe scosso la fiducia degli Stati Uniti nella propria invulnerabilità.

   È un peccato e anche un’autentica iattura che fattori di grande rilievo come quelli testé citati abbiano dovuto cedere il passo di fronte a considerazioni di carattere politico, per quanto non incomprensibili nella storia italiana successiva. Tuttavia, se mai questo Paese vorrà affacciarsi all’edificazione di una memoria condivisa, difficilmente nella costruzione della medesima potranno mancare tutti coloro che hanno tenuto alto il nome dell’Italia in uno dei momenti più difficili della sua storia e hanno saputo meritarsi il rispetto dei nemici di un tempo. Si tratta di un’autentica boccata di ossigeno di fronte al compiaciuto autolesionismo dell’apologia del “tutti a casa!”, che è quanto di più negativo possa esistere per una Nazione che non voglia votarsi in eterno ad una condizione servile ed all’esaltazione del peggio e non del meglio di sé. La società italiana ha un disperato bisogno di valori ed esempi positivi, e anche se molti – paralizzati dal pregiudizio ideologico - non sono tuttora disposti ad ammettere che i valori militari possano essere considerati di tipo positivo, è sufficiente riflettere su ciò che ebbe a scrivere una figura di straordinaria intensità come Teseo Tesei, anch’egli incursore della Marina, prima della sua ultima missione: «L’esito della missione non ha molta importanza… e neanche l’esito della guerra. Quello che veramente conta è che vi siano uomini disposti a morire nel tentativo e che realmente muoiano: perché è dal sacrificio nostro che le successive generazioni trarranno l’esempio e la forza per vincere». Se la si estrapola dal suo contesto inevitabilmente bellico, questa frase esprime un sentimento di continuità commovente, che ci fa ricordare che beati sono solo i popoli che hanno bisogno di eroi, non gli altri. I cialtroni ed i vigliacchi, infatti, li hanno tutti.

                                                       Piero Visani

 

Nessun commento:

Posta un commento