venerdì 30 maggio 2014

Incomunicabilità

       Leggere i miei diari è sempre un esercizio a cavallo tra l'amarezza e il divertimento. Emerge chiaramente, infatti, quante volte io abbia tentato di parlare, di intavolare dialoghi, di conoscere e farmi conoscere. Ed emerge altresì quante volte tale mio sforzo sia stato respinto, ridimensionato, ristretto, condizionato.
       Da questi resoconti quotidiani emergono ire, collere, frustrazioni, che sul momento mi sono costate sofferenze notevoli, ma che ora, rileggendo un po' alla volta e anche andando indietro nel tempo, mi fanno (moderatamente) divertire e portano alla luce un dato che mi fa riflettere: la mia capacità comunicativa non deve essere eccelsa, e meno ancora deve esserlo la mia capacità di farmi capire, perché una parte non indifferente della mia vita è una storia di difficoltà di dialogo, relazionali e di comprensione reciproca.
       La cosa un po' mi fa male, perché il mio impegno è sempre diretto in senso esattamente contrario, ma gli esiti parlano chiaro: non mi faccio capire e non mi capiscono. Ne ho preso atto da tempo, ma è sempre brutto dover fare i conti con determinate constatazioni, poiché insinuano in me qualche vago senso di colpa.
       In realtà, malgrado questo, io mi sento parecchio a posto con la coscienza, poiché ho sempre cercato di fare e dire tutto quello che pensavo potesse essere utile fare e dire, ma forse con alcune persone non sono mai stato sulla stessa lunghezza d'onda.
       Anche in questo caso, come in tanti altri aspetti della mia vita, si nota una netta polarizzazione, quasi una contrapposizione frontale tra chi mi apprezza a prescindere e chi, sempre a prescindere, mi detesta.
       Forse tutto nasce dalla mia scarsa propensione alla mediazione, ma in fondo, se sono rimasto tale fino alla mia non più verde età, una solida motivazione di fondo ci deve essere: ho sempre voluto, direi preteso, essere me stesso e, tutte le volte che ho deciso di comunicare me stesso, non mi sono presentato a spizzichi e bocconi, ma con un palese invito a prendere o lasciare. Mi è capitato di essere molto più lasciato che preso, ma a gioco lungo posso vantare di aver salvaguardato la mia identità e di avere poche relazioni o amicizie, ma solide e profonde, e fantasticamente olistiche.
       I "passanti" o "le passanti" ci sono state, ma volevano qualcosa che io non potevo e volevo dare loro: una parte di me, più o meno grande (ma forse sarebbe più corretto dire più o meno piccola...).
       Così, rileggo questi diari, queste cronache minute di ciò che è stato, e ritrovo qualcosa che mi inorgoglisce assai, un costante impegno di coerenza con la mia visione del mondo e un grande impegno al dialogo; un dialogo che spesso si è fermato perché presto si è trasformato in un monologo mio, privo di qualcuno che mi ascoltasse o in un rifiuto dialettico altrui, dato che mi venivano proposte solo soluzioni preconfezionate.
       E allora leggo, ricordo, e penso che molto spesso io ho tentato di vivere, ma non sempre ho incontrato chi nutrisse il mio stesso amore per la vita. Con tali soggetti, per quanto pochi, il dialogo è sempre aperto, con reciproca - credo - soddisfazione. Quanto agli altri, tanti ma non spiacevoli brief encounters, di cui mi restano recriminazioni (mie), rimproveri (altrui) e tonnellate di incomunicabilità e incomprensioni. I diari mi danno grande conforto, in questo senso, perché mi ricordano (e mi attestano) che quanto meno a dialogare ci ho provato, talvolta anche al di là del limite della ragionevolezza.

                                 Piero Visani

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