martedì 29 marzo 2016

Slideshow

       Ci sono quelle notti in cui frammenti interi di vita ti corrono intorno come uno slideshow. Lo studio è immerso nel silenzio; la casa e quanti la abitano sono immersi nel sonno, e l'unica luce ancora accesa è quella del tuo studio.
       L'emergere dei ricordi è frammentato e frammentario, come luci stroboscopiche, da discoteca, sempre più accelerate. Il tuo desiderio sarebbe improntato alla riflessione e all'analisi, ma la frequenza di quelle luci, molto più che la loro intensità, non ti dà tregua.
       Si illuminano volti, ma si accendono altresì sensazioni, risuonano frasi, spesso sgradevoli. Ti guardano sogni, spesso infranti e, dopo un po', alla tristezza e al nervosismo subentra una strana calma.
        Una voce interiore, chiaramente riconoscibile, quasi ironizza su di te: "Ma come, non la riconosci? E' la tua vita!". Per riconoscerla l'ho riconosciuta, ma non sarei così sicuro che avrei voluto vederla, magari non proprio stasera.
       Un tempo, situazioni del genere potevano costituire lo spunto per un'autentica "fiera dei rimpianti", ma ora non è più così. Ho capito, ho imparato, sono stato anche edotto e sono diventato molto più assertivo. Non che non lo fossi già, ma ora lo sono diventato molto di più. Sono stato aiutato a forgiarmi interiormente, e ne sono uscito rinvigorito. Non che difettassi di autostima, ma avevo addosso qualche sensazione di sconfitta individuale. Mi è passata completamente. Sono stato aiutato a comprendere che non avevo fatto tutto sbagliato o avevo commesso errori più o meno gravi o che non ero riuscito a farmi capire, ma - molto più semplicemente - che non ero stato apprezzato per quel che sono.
       Tutte cose che in fondo già sapevo, ma che, quando ti vengono spiegate dall'esterno, valgono infinitamente di più, specie se si tratta di una spiegazione totalmente disinteressata e non autoreferenziale. E così, mentre il buio scende intorno a me, io sono sorridente e molto più fiducioso che in passato, perché sono stato aiutato a valorizzare una luce sola: la mia. Sono esperienze che non si dimenticano.

                                   Piero Visani




Pertiniana


       Qualche amico perbenista ogni tanto si scandalizza per i miei cialtronismi. Fa bene, ma io seguo le direttive di un "partigiano come presidente", Sandro Pertini. Quest'ultimo era solito dire: "A brigante, brigante e mezzo", e tutti lo osannavano. Io, avendo molto più modestamente a che fare non con briganti, ma con emeriti cialtroni, mi attengo però al suo insegnamento, e dico: "A cialtroni, cialtrone e mezzo". E' una conseguenza, non una scelta...

                             Piero Visani



Censure


       Ero lì, che sogghignavo sulle censurette di cui sono stato oggetto stamane e improvvisamente, visto il livello complessivo dell'azione, mi sono venuti in mente i Lunapop ["si magna licet componere parvis"]:

"Cos'è successo,
sei scappata da una vita che hai vissuto,
da una storia che hai bruciato e ora fingi che non c'è... ["stai riflettendo sulla tua triste storia, Democracy?"]
Cos'è successo sei cambiata,
non sei più la stessa cosa [insomma...],
o sei ancora quella che,
è cresciuta insieme a me? [Fortunatamente, NON siamo cresciuti insieme, mi stavi sull'anima già da ragazzina...]
Cos'è successo sei scappata,
e con te anche la mia vita: l'ho cercata,
l'ho cercata,
e l'ho trovata [NON] in te! [Capita, specie se uno cerca parecchio...]
Ma c'è qualcosa di grande tra di noi [L'ODIO],
che non potrai cambiare mai,
nemmeno se lo vuoi! [Puoi giurarci!]
Ma c'è qualcosa di grande tra di noi che non puoi scordare mai,
nemmeno se lo vuoi! [Come sopra...]
Cos'è successo sei caduta,
sei caduta troppo in basso e ora provi a risalire,
ma è la fatica che non vuoi! [Caduta non in basso, direi semmai a livelli assai infimi e certo non ti preoccupi di risalire, lo schifo ti è consustanziale]
Cos'è successo la fortuna non ti ha mai abbandonata,
ma ricordati il destino non ti guarda in faccia mai! [La fortuna va e viene, il destino prima o poi si appunterà sulle tue gote di mendace e ci sarà da divertirsi. Nella Storia, come nelle storie, occorre saper aspettare...]
E c'è qualcosa di grande tra di noi,
che non potrai cambiare mai,
nemmeno se lo vuoi! [L'odio]
Ma c'è qualcosa di grande tra di noi che non puoi scordare mai nemmeno se lo vuoi! [Come sopra]
Adesso cosa fai?
Che cosa inventerai,
per toglierti dai guai... dove andrai? [Inventerai di tutto, come al solito; dove andrai: se mi permetti, ho molti suggerimenti specifici, ma sono alquanto educato...]
Adesso cosa fai?
Che cosa inventerai?
Puoi fingere di più,
di come fai...! [L'inventiva non ti manca; la capacità di fingere è enorme].
Cos'è successo la tua luce,
la tua luce si è oscurata,
con qualcuno che conosco e ti ha portata via da me [ma che bravo, questo sant'uomo, che ti porti il più lontano possibile!].
Cos'è successo,
la tua stella,
la tua stella si è eclissata e ora provaci dal buio a brillare senza me! [Quello difficilmente riuscirai a farlo, ma un aiuto da me lo riceverai solo post mortem, mia (più facilmente) o tua che sia...]
Ma c'è qualcosa di grande tra di noi,
che non potrai cambiare mai,
nemmeno se lo vuoi! [L'odio. Ripetitelo pure ad infinito e buon pro ti faccia!].
Ma c'è qualcosa di grande tra di noi,
che non puoi scordare mai nemmeno se lo vuoi!
Ma c'è qualcosa di grande tra di noi che non puoi scordare mai nemmeno se lo vuoi!
E c'è qualcosa di grande tra di noi,
che non potrai cambiare mai,
nemmeno se lo vuoi!
...se lo vuoi
... se lo vuoi.

                                                       Piero Visani (su noto testo di Cesare Cremonini)

domenica 27 marzo 2016

Una donna non alla finestra: Constance Markievicz

       Constance Georgine Gore-Booth nacque a Londra nel 1868, figlia maggiore dell'esploratore artico Sir Henry Gore-Booth, proprietario terriero anglo-irlandese, con una tenuta di oltre 100 kmq nella parte settentrionale della Contea di Sligo, in Irlanda. Durante la grave carestia del 1879-80, Sir Henry si prodigò in favore dei suoi contadini e l'esempio paterno ebbe certamente una forte influenza sulla formazione di Constance e della sorella Eva, entrambe assai interessate alle condizioni dei ceti più deboli.
       In giovanissima età, le due ragazze furono amiche di William Butler Yeats, che di frequente era ospite presso la loro dimora di Lissadell House, e furono influenzate tanto dalle sue idee artistiche quanto da quelle politiche.
       Dedicatasi agli studi artistici, nel 1892 Constance si trasferì a Londra, divenne politicamente attiva e si impegnò in favore della concessione del voto alle donne. Successivamente si spostò a Parigi, sempre frequentando prestigiose scuole d'arte, e proprio nella capitale francese conobbe il conte polacco Casimir Markievicz, rampollo di una nobile famiglia. Tra i due nacque una relazione, che venne inaspettatamente accelerata dalla morte, avvenuta nel 1899, della moglie del conte. Dopo circa un anno, Constance e Casimir si sposarono e, nel novembre 1901, la nuova contessa Markievicz diede alla luce una bambina, Maeve.
       La nuova coppia si trasferì a Dublino nel 1903 e Constance si fece conoscere nei circoli artistici della città, dove ebbe un ruolo di primo piano nella creazione dello United Arts Club, un club culturale che ben presto - impegnato com'era nella difesa della lingua e dell'identità irlandesi - divenne un centro di propaganda nazionalista.
       Influenzata dalle idee politiche dei suoi interlocutori, nel 1908 Constance aderì al Sinn Féin e alla "Figlie d'Irlanda", un movimento rivoluzionario femminile fondato dall'attrice e attivista Maud Gonne, musa di Yeats.
       Con il crescere del suo impegno politico, Constance ebbe i suoi primi problemi con la dominazione britannica e, nel 1911, a seguito di una dimostrazione di massa organizzata contro una visita in Irlanda di Re Giorgio V, venne arrestata e incarcerata per la prima volta.
       Nel 1913, il conte Markievicz decise di fare ritorno nei possedimenti di famiglia, siti in quella che è oggi l'Ucraina e fece ritorno in Irlanda solo molti anni più tardi, quando Constance era ormai in punto di morte. Molte speculazioni sono state fatte in merito a questa separazione di fatto, ma nessuna appare pienamente convincente, se non quella per cui Casimir sarebbe stato stanco dell'impegno politico della moglie e il matrimonio ormai in crisi.
       Quando scoppio la Rivolta di Pasqua dell'aprile 1916, Constance si ritrovò letteralmente in prima linea, uccidendo un membro della polizia di Dublino e ferendo un tiratore scelto dell'esercito britannico. Dopo sei giorni di combattimenti, tuttavia, ella dovette arrendersi insieme agli altri rivoltosi. Imprigionata e sottoposta a corte marziale, venne condannata a morte, come molti altri suoi compagni di avventura, ma le autorità inglesi preferirono commutare la condanna in ergastolo, "a causa del sesso della prigioniera". Tale motivazione scatenò in Constance una vera furia, in quanto non aver condiviso la triste sorte dei suoi compagni le parve una inaccettabile forma di discriminazione contro una donna e per questo protestò violentemente, ma invano.
      Trasferita in un carcere inglese, venne amnistiata circa un anno dopo, insieme ad altre persone che avevano partecipato alla Rivolta. Alle elezioni politiche generali del 1918, venne eletta deputato in una circoscrizione di Dublino e così fu la prima donna ad essere eletta alla Camera dei Comuni inglese. Tuttavia, in omaggio alla politica astensionistica voluta dal suo partito, lo Sinn Féin, ella non occupò mai il suo seggio.
       Eletta al Parlamento irlandese nelle elezioni del 1921, divenne ministro del Lavoro dall'aprile 1919 al gennaio 1922. Come tale, fu la prima donna irlandese ad assurgere al rango di ministro e la seconda in Europa, dopo un'esponente bolscevica.
       Nel corso della Guerra Civile irlandese, Constance si schierò in favore della fazione più accanitamente repubblicana e ostile alla composizione con la Gran Bretagna, ciò che le valse un nuovo imprigionamento. Nel 1926, quando venne fondato un nuovo partito, il Fianna Fail, ella aderì prontamente e venne rieletta al parlamento l'anno dopo, ma morì solo poche settimane più tardi, a causa di complicazioni connesse a un'operazione di appendicite. Aveva 59 anni.

       Figura controversa, da alcuni considerata come uno degli artefici della libertà d'Irlanda e da altri come un'aristocratica dalle singolari idee socialiste, Costance Markievicz è certamente una personalità di estremo interesse, che segna un indubbio passo in avanti sulla strada dell'emancipazione femminile in Europa. Di ottima cultura, la sua fu una femminilità a tutto tondo, che tendeva a non stabilire particolari distinzioni tra i salotti, la lotta politica nelle piazze e addirittura gli scontri armati, dove le venne riconosciuto un coraggio individuale assolutamente fuori dalla norma e del tutto anomalo per le donne del suo tempo. E' probabile che avesse desunto il suo amore per l'elevazione dei ceti sociali più bassi dal padre, mentre la singolarità del suo carattere, destinata ad accentuarsi con il passare del tempo, ne favorì la collocazione in quella "zona grigia" dove la storia ufficiale è solita relegare tutti coloro che, in un modo o nell'altro, non sono suscettibili di classificazioni precise. Resta l'immagine, riprodotta da molte fotografie, di una donna dai tratti e dai comportamenti mascolini, aggressiva e talvolta irridente, comunque decisa ad abbattere qualsiasi tipo di discriminazione potesse ancora esistere, nell'Europa a cavallo tra la fine dell'Ottocento e gli ultimi decenni del Novecento, a carico del suo sesso.

                        Piero Visani






sabato 26 marzo 2016

Lotta dura, senza paura

     In una fabbrica nei dintorni di Torino, operante nel settore della logistica e dei trasporti, e con manodopera esclusivamente extracomunitaria, i lavoratori hanno rifiutato l'accordo da sindacato "giallo" stipulato dalla Cisl con la direzione aziendale, hanno aderito a un Cobas e hanno cominciato a boicottare duramente l'attività dell'azienda, dichiarando di essere stati seriamente danneggiati sotto il profilo economico.
      Che dire? Prospettiva interessante, vediamo perché:

- Le aziende italiane, dalla Confindustria in giù, hanno costantemente calato le brache di fronte alla Sinistra e al sindacato. Al massimo, hanno appoggiato Silvio Berlusconi, di cui sono noti il coraggio leonino e la mancanza di vocazione compromissoria...

- tutto ciò ha portato a crisi reiterate, a fiscalismo assurdo, al progressivo licenziamento dei lavoratori italiani, prontamente sostituiti da lavoratori extracomunitari, disposti ad accontentarsi di molto meno dei loro colleghi italiani.

- Le pentole, però, non sempre riescono con i coperchi ed ecco che, al posto dei lavoratori italiani, spaventati, invecchiati, privi di qualunque forma di tutela vera, politica o sindacale, sono arrivati lavoratori stranieri, figli di culture dove il conflitto ha ancora un significato e rappresenta una componente ineliminabile dell'esistenza.

- Ed ecco che quello che avrebbe dovuto essere - marxianamente - "l'esercito industriale di riserva" comincia a non dimostrarsi tanto "di riserva", ma sicuramente "esercito" e pure parecchio aggressivo, rivendicando con modalità alquanto vigorose ciò che i colleghi italiani hanno smesso da tempo di rivendicare, invecchiati e impauriti

       Questa dinamica mi interessa molto, è sintomatica di fenomeni che stanno avvenendo anche in altri Paesi, ed è qualcosa che può far entrare in crisi i calcoli e i calcoletti della grande finanza, delle classi politiche e sindacali ad essa asservite, e di quanti avevano sognato di sostituire nuovi schiavi ai vecchi schiavi. La principali peculiarità dei vecchi schiavi, in effetti, è che erano vecchi. I nuovi sono ancora schiavi, ma sono giovani, spesso molto giovani, e non hanno paura del conflitto, di tutte le forme di conflitto. Ecco perché resto profondamente convinto che, man mano che matura l'odio, il problema non sarà ciò che accadrà "al di là del muro", ammesso e non concesso che venga costruito, ma cosa succederà al di qua del medesimo e le dinamiche - così simpaticamente energetiche - che riuscirà a mettere in atto. Gli europei sono stati resi imbelli dal 1945 ad oggi grazie alla costante diffusione di falsi problemi e metapolitiche ireniche, e non è stato un trattamento "breve", ma ha avuto pieno successo. Vedremo che cosa accadrà a carico di coloro che europei non sono. Non prevedo situazioni troppo statiche e, avendo io nulla da perdere, mi paiono di notevole interesse.

                                 Piero Visani







      

venerdì 25 marzo 2016

Il cammino di ogni speranza

       Da tempo mi sento in sintonia con la tesi del professor Oliver Roy, seconda la quale non saremmo in presenza di una radicalizzazione dell'Islam ma, al contrario, di una islamizzazione del radicalismo.
       In passato, le gioventù europee ebbero la possibilità di manifestare il loro radicalismo politico in vari modi, giusti o sbagliati che fossero, di scatenare le loro pulsioni giovanili e di vedere quasi sempre i loro sogni fallire, traditi non dall'imborghesimento, ma dal manifesto "entrismo" dei loro capi e capetti, ansiosi non di realizzare un qualche programma, bensì solo di trovare un "posto al sole" che li rendesse membri riconosciuti e stimati della classe dirigente. Può essere questa triste deriva che ha fatto sì - insieme alla crescente depoliticizzazione e debellicizzazione di tutto, in omaggio a un vuoto pacifismo - che i giovani della generazione successiva, tipo quella di mio figlio, nato nel 1983, abbiano una naturale repulsione per la politica, di cui constatano - nelle totaldemocrazie che hanno visto sorgere e prosperare mentre crescevano - la più assoluta inutilità, votata semplicemente all'ossequio dei grandi potentati finanziari e dei loro voleri.
        Tuttavia, gli europei sono destinati ad estinguersi, anche in fretta, mentre i "nuovi europei" di colore appartengono a culture diverse, non rispettano gli stessi codici culturali e comportamentali, non inseguono gli stessi miti. Hanno culture che gli europei imbelli definiscono "primordiali" e quelle culture sono la loro benedizione, perché li spingono all'anticonformismo, alla presa di distanze, alla rivolta.
       Ci sono, tra loro, molti piccoli delinquenti comuni, molti soggetti che, per pochi euro, possono diventare preda delle più scaltrite "centrali d'acquisto" dei servizi segreti, e poi c'è una massa piuttosto grande di soggetti che vorrebbero magari anche trovare un lavoro e integrarsi, ma dove, ma come?
      La trascuratezza delle attuali oligarchie europee nei loro riguardi può essere spiegata solo pensando che, al momento, queste ultime abbiano come obiettivo prioritario il completo e definitivo assorbimento della popolazione bianca, prima di rivolgere le loro "cure" a quella di colore e di immigrazione più o meno recente. Il tempismo di questo snodo sarà fondamentale, in quanto asservire prima e sopprimere poi la gioventù europea è un obiettivo relativamente facile da conseguire: dopo tutto, è una gioventù che si diletta con gessetti, fiori e orsacchiotti di pelouche: quale resistenza potrà mai opporre e quali danni potrà fare?
       Molto più difficile è la questione successiva: come gestire l'asservimento dei giovani "nuovi europei", che non condividono le scempiaggini sull'universalismo pacifista e hanno ancora voglia, fierezza e coraggio per ribellarsi? Questo sarà un passaggio molto meno agevole e gli europei, se non volessero essere una semplice voix d'outretombe, in quella direzione dovrebbero guardare, per cercare alleanze certamente momentanee, ma per nuocere al nemico principale, che è e resta uno solo: l'oligarchia finanziaria di cui siamo ormai diventati i nuovi schiavi. Strano che pochi lo capiscano e che si vogliano solo ergere muri. Ma a che servono i muri, se il cavallo di Troia è già ben dentro le Porte Scee e tutti quelli che dovevano uscirne (dal cavallo, non dalle Porte...) lo hanno già fatto e stanno decidendo ogni singolo momento delle nostre vite, evento facilmente constatabile dal fatto che ogni singolo momento delle nostre vite consiste in corvées prestate a costoro, non solo a titolo gratuito, ma addirittura pagando - e molto! - di tasca nostra, fino a spogliarci di tutto?

                                                             Piero Visani







     

Difensori d'ufficio

       Uno degli aspetti più divertenti di queste giornate eccitate e convulse è vedere quanti difensori d'ufficio abbia la Vecchia Europa. Le agenzie di intelligence belghe non avevano dato alcuna importanza a "sole" 40 ore di filmati dedicati al direttore della centrale nucleare di Liegi, trovate in un covo terroristico (forse era stato ripreso perché era un bell'uomo...). In compenso, sono spuntati da ogni dove "esperti" di terrorismo che hanno cominciato a discettare su come sconfiggerlo manu militari, non risparmiandoci a volte particolari anche parecchio cruenti.
       Dobbiamo capirli: gli esperti militari europei, a meno che non siano in qualche modo connessi alle forze aeree o a quelle speciali, sono in genere soggetti afflitti da una terribile impotentia coeundi. Arrivano fino ai limiti della scopata liberatoria, ma poi qualcuno dalla sfera politica li blocca e quell'intercourse con il "nemico" che essi sognavano ad occhi aperti (non solo gli islamici hanno "il paradiso delle Urì...) si risolve, il più delle volte, in un coitus interruptus, e in taluni casi non gli è neppure possibile iniziarlo (una specie di "matrimonio rato ma non consumato").
       Come tutti i maschi sanno, dalla prima adolescenza in su, il semen retentum perniciosum est, ed ecco che, in mancanza di sfoghi veri, parte la pratica onanistica. E, in effetti, tutti i media europei sono saturi, in questi giorni, delle pratiche liberatorie dei "seguaci di Onan".
       La natura vagamente animale di molti di costoro, tuttavia, li rende estremamente simili ai cani di Pavlov, per cui, ogni volta che suona la relativa campanella, essi partono immediatamente con il loro riflesso condizionato. Mai due righe di riflessione su chi l'ha fatta scattare, la campanella. Mai un po' di attenzione su chi sia davvero il nemico principale. La campanella ha suonato e si profila il miraggio di un coito non interrotto: e chi li tiene?
       Naturalmente, come spesso (ma non sempre, ovviamente) capita con tutti coloro che operano nell'area della sicurezza, non uno straccio di riflessione è dedicato a valutare la legittimità dei governi per i quali sono così ansiosi di menar le mani, al punto che, proprio come con quelli che "esercitano" poco, il dubbio che legittimamente ci assale è che in realtà la loro vera e unica priorità sia il "coire", "coire" comunque, non importa con chi (dai 14 agli 80 anni, si sarebbe tentati di dire...). Viene in mente una vecchia canzone di Patrick Samson, del 1969, Soli si muore, dal testo altamente evocativo...:

Oh la voglia di amare
mi scoppia nel cuore [delicata metafora...]
soli si muore...

Tu o un'altra è lo stesso [passo di autentica vocazione femminista...]
aspettare non posso
soli si muore
senza un'amore
   
    Personalmente, essere guidati da costoro mi fa un po' paura: nessuna riflessione sui mandanti (e sui mandatari...), solo grande desiderio di "menare le mani". A quel punto, meglio menarle tributando un dovuto ossequio ad Onan... Si fa molto, molto meno danno.
                                                                  Piero Visani




giovedì 24 marzo 2016

Business as usual


       Ridotto ai minimi termini e sfrondato degli inevitabili orpelli comunicativi di circostanza (le famose "lacrime di coccodrillo"), il messaggio delle classi dirigenti UE è chiarissimo: "tutto continuerà come prima", nelle politiche di accoglienza, ergo (questo non è stato detto, ma non occorre una laurea ad Harvard per capirlo) "voi continuerete a morire come prima". Perché - forse non ve ne siete resi conto - non è accaduto niente, ergo "non cambieremo le nostre abitudini".
       Una domanda sorge a questo punto legittima: visto che voi cittadini comuni non avete depredato Monte dei Paschi, Banca Etruria aut similia, etc. etc., e non avete nutrite scorte, siete sicuri che vi converrà davvero, non cambiare le vostre abitudini? Già date un poderoso aiuto a queste classi "dirigenti" (?) con i vostri suicidi e le vostre omissioni di massa, volete anche lasciarvi ammazzare a titolo gratuito?

                   Piero Visani

mercoledì 23 marzo 2016

Esperti militari

       Ho sempre provato un grande divertimento quando, fin dai tempi della prima Guerra del Golfo, mi toccava seguire gli interventi giornalistici e mediatici dei cosiddetti esperti militari. Sparuta squadretta, sulla carta stampata ancora se la cavavano decentemente, ma il meglio lo raggiungevano quando erano chiamati in televisione. Lì il divertimento raggiungeva il suo climax: occhi spalancati, pupille dilatate, parevano quei bambini appassionati di soldatini che, per una volta, erano tirati fuori dal loro ghetto e chiamati a discettare di cose di cui nessuno sapeva niente, tra i giornalisti e il grande pubblico.
       Di norma, questi esperti erano abbastanza competenti, talvolta anche piuttosto competenti, sotto il profilo strettamente tecnico, ma la loro competenza professionale era di norma esattamente inversa alla loro sapienza politica, anzi - detto meglio - era direttamente proporzionale alla loro insipienza politica, metapolitica e comunicativa.
      Ricordo una volta, in una delle tante trasmissioni di Santoro, un esperto militare (non ne farò il nome per correttezza) letteralmente portato a fare la figura del guerrafondaio à la "Dottor Stranamore" solo grazie alla superiore capacità giornalistica e soprattutto politica e comunicativa del noto conduttore, che lo manipolò alla grande e a proprio piacimento, senza che il malcapitato (peraltro non propriamente noto per essere un "fulmine di guerra", ma solo un esperto militare...) praticamente se ne accorgesse.
      Del resto - e ai nostri esperti di sicurezza non è per nulla chiaro (e già questo è stupefacente) - essi vengono chiamati nei vari talk show televisivi soprattutto per dimostrare che la soluzione militare, se e quando esista, è la peggiore possibile. Pochissimi, di superiore cultura e intelligenza, se ne accorgono e reagiscono di conseguenza. Gli altri "si illuminano" di immenso e cominciano per l'appunto "a giocare ai soldatini in tv", facendo ovviamente la figura dei dementi, o degli stolti o degli esaltati, o degli infantili. A tutti sfugge incredibilmente la dimensione politico-comunicativa del loro essere in uno studio televisivo e, così facendo, le loro reazioni sono quelle tipiche di un provinciale invitato in un ristorante sciccoso e pluristellato: sono terribilmente fuori posto, ma manco se ne accorgono.
       Di norma, poi, gli esperti militari nostrani - forse anche non proprio per disinteresse personale... - sono favorevoli a ogni forma di intervento e di bellicismo, il che li rende spesso ancora più macchiettistici. Feci delle considerazioni e delle lezioni in tal senso, quando stavo dall'altra parte della barricata, ma nessuno parve comprendere che attraversare indenni una trasmissione televisiva è forse più difficile, militarmente parlando, che attraversare un campo minato. Si tratta, in genere, di persone piene di certezze, ansiose di comunicarle, e appassionate di ciò che parlano, ma appassionate in forma tecnica, non empatica, per cui non riescono a trasmettere nulla di ciò che vorrebbero, salvo una vaga sensazione di fastidio, abbinata a una di terribile insipienza politica e metapolitica.
      Quando guardo i talk show, in queste serate, mi pare che nulla sia cambiato, al riguardo, e che l'incapacità di collocarsi - metapoliticamente e culturalmente - non sia per nulla diminuita, anzi.

                                Piero Visani



Il fronte interno


       Mia nipotina (quasi 8 anni) arriva a casa da scuola con una panoplia (è proprio il caso di usare un termine così culto...) di gessetti multicolorati.
       Le chiedo la ragione di quella scelta e lei - che è molto razionale - mi dice con aria sicura: "se servono contro i terroristi, sicuramente serviranno anche in casa contro i ladri".
       Giusto, non ci avevo pensato. Così ci siamo messi in giardino a disegnare insieme. A farla ridere penserò poi, ora è presto. Intanto mi chiedo come giudicherà questa forma di reazione la giustizia italiana, non vorrei beccarmi una denuncia per "eccesso di difesa"...

                              Piero Visani

Dei delitti e delle pene

       Mi sono preso più di una critica per il mio costante impegno, nell'attuale situazione dell'Eurolager, a mettere costantemente in relazione il "fronte interno" con il "fronte esterno". Non intendo rivendicare meriti che non ho, ma vorrei far notare la strettissima connessione che esiste tra il non consentire quasi mai ai cittadini di esercitare il loro diritto alla legittima difesa, sul piano interno, e il rinunciare ad esercitarlo sul piano internazionale.
       Come ogni italiano sa, reagire oggi a un'aggressione è forse addirittura più pericoloso che subirla, nel mentre si moltiplicano i furti e le rapine nelle abitazioni. Se infatti un cittadino cerca di difendere a mano armata i propri cari e i propri beni (non tutti sono frutto di depredazioni varie, dopo tutto, molti anche di lavoro e legittimi guadagni), può rischiare moltissimo in termini di eccesso di difesa, comprese condanne varie e il pagamento di onerosi risarcimenti.
       Questa assurda visione, tuttavia, esiste anche sul piano esterno, perché chiunque può fare qualsiasi cosa a un Paese dell'UE senza che in pratica succeda niente, senza che ci sia alcuna reazione, a parte i gessetti, le canzoni furbette (stile Imagine), i fiorellini, i pelouches e le lacrime di coccodrillo.
       Tutto ciò dimostra che, se non si tratta di operazioni che nascono all'interno della stessa Unione (dubbio che nessuno mi toglierà mai dalla testa), certamente è la medesima che proietta all'esterno la cultura che fin dalla sua genesi ha coltivato al proprio interno, vale a dire quella cultura per cui le colpe non sono mai dell'aggressore, ma sempre dell'aggredito. La stessa cultura, dunque, che si ritrova sul piano interno. Poiché quello che a persone normali ovunque apparirebbe un delitto, mentre in questa Europa di pazzi non lo è, risulta perfettamente normale che anche un'aggressione terroristica non venga ritenuta tale e il mostro venga accolto, nutrito, pasciuto e coltivato al proprio interno (Molenbeek e Londonistan docent)
       Al di là di tutte le varie considerazioni che si possono fare in materia, si tratta di un comportamento tipico delle civiltà morenti o già morte: chi reagisce, infatti, attiva il proprio istinto di conservazione, e lo fa perché tiene alla sua vita e ad avere un futuro. Chi non reagisce, per contro, non tiene né all'una né all'altro e preferisce lasciarsi morire, quasi che la morte equivalesse (e nel caso dei sudditi dell'UE è proprio così) a una liberazione, la liberazione da un regime di fiscalità e illegalità folli.
       Ancora una volta, dunque, non è la minaccia esterna a preoccuparci, ma la crescente insostenibilità degli assetti interni che ci siamo dati. Nessuno può permettersi di aspettare i Tartari, quando i Tartari sono già dentro l'Europa e sono stati fatti entrare proprio da quelli che in teoria avrebbero dovuto difenderla. Non a caso, anche oggi, anche dopo quello che è successo, nessuno parla di difesa, perché farlo equivarrebbe a smantellare il sistema di potere che tiene in piedi l'UE e che proprio sull'immigrazione di massa finanziariamente e politicamente si regge. Un circolo virtuoso, che rende miliardi di euro e procura tanto potere.

                                             Piero Visani



Un indizio è un indizio...


       Naturalmente "la ripresa delle economie europee sarà necessariamente più lenta", a causa di questi devastanti attacchi e di quelli che già si annunciano. In pratica, proprio nel momento in cui la crisi cominciava a starci alle spalle, ecco che i "tagliagole" affossano la ripresa, con i loro attacchi criminali. E' straordinario, il tempismo di questi terroristi, davvero straordinario.

                               Piero Visani

Esperienze di docenza


       Da giovanissimo, ebbi qualche esperienza in corsi di formazione con disadattati metropolitani. Capii subito che l'unica cultura che rispettavano era la loro, intrisa di violenza e botte. E capii che disprezzavano TUTTI quelli che non erano così, giudicandoli paurosi e vili. Spiegai loro perché li amavo e perché condividevo il loro odio. Mi amarono, fui un ottimo formatore. Un'esperienza che non dimenticherò.
       Ah, ovviamente li formai a quello che volevo io, non i tenutari (e il termine non è scelto a caso...) dei corsi.

                         Piero Visani

martedì 22 marzo 2016

Profili del...la paura

       In giornate come queste, zampettando tra un telegiornale e l'altro, una maratona televisiva e l'altra, tutte lucidamente intese a diffondere disinformazione e confusione, la cosa più divertente è vedere come "la paura faccia novanta", e sollazzarsi sulla facce dei tranquilli, belli, pasciuti e rincoglioniti che credono alle favole de "l'ultima delle guerre", della "guerra per finire le guerre", del "terrorismo contro il genere umano" e altre amenità del genere.
       Non meno divertente è vedere i combattenti dell'"armiamoci e partite", molto diffusi, e la diffusa ebbrezza che pare cogliere gli esperti di sicurezza (o presunti tali...), i quali già vedono affluire finanziamenti imprevisti e imprevedibili verso i loro centri di studio, che naturalmente ci racconteranno quello che già sapevamo e parleranno di "difesa della nostra civiltà" (questa è proprio buonissima...)
       Passano i millenni e siamo sempre qui, a sognare, e vedere le facce di molti con lo sgomento disegnato in volto è cosa assolutamente piacevole: altro che "penzioni", vitalizi, e certezze panciafichiste. Qui arriva la morte, che è la stessa cosa che dire che arriva la vita... Perché - non dimentichiamolo mai - la morte arriva anche con i suicidi da "stretta fiscale", o no? O quello preferiamo dimenticarlo? Ah già, ma i morti da totaldemocrazie sono "meno morti". Chiedo scusa, l'avevo dimenticato.

                       Piero Visani



                                                             

Fase 2


       Dal terrorismo alla "guerra per interposta persona" ("war by proxy"). Sono duri i risvegli nella Storia, perché l'Europa ha sì deciso di scapparne via, ma la Storia ti insegue e ti raggiunge.
      "Il giorno del Giudizio non ti serviranno...gli economisti, i burocrati e i banchieri"...

                                 Piero Visani

Il vostro sistema di vita

       E' tutto un fiorire, in queste ore, di difensori - anche autorevoli - del "nostro sistema di vita". Nulla da dire, ognuno ha diritto a rivendicare a sé ciò che meglio crede.
       Proprio in tale logica assolutamente libertaria, mi permetto di chiamarmi fuori e di sottolineare che si tratta del "vostro sistema di vita", non del mio. Il mio "sistema di vita", da quasi un decennio ormai, consiste - dopo essere stato deprivato di tutto, in particolare del diritto al lavoro (e avrebbe potuto andarmi molto peggio, se non avessi preso per tempo le debite precauzioni) - nel guardare il mondo che mi passa davanti come fanno i bambini poveri davanti alle vetrine di Natale: schiaccio il mio naso gelato contro il vetro e assisto: la libera professione è soggetta a tassazione folle, il lavoro - se non si è collegati a fonti distributive del medesimo di matrice politico-partitica - quasi non esiste più; le giornate si somigliano tutte; le vacanze non si fanno da chissà quanti anni.
      Un minimo di capacità di sopravvivenza viene dall'abilità di muoversi all'estero, di intessere relazioni, di non darsi per vinti, ma è poco più di un'economia di autosufficienza.
       Su questo sfondo, il "vostro sistema di vita" è per me solo una fiscalità folle, l'impossibilità di esercitare il diritto di voto, di vedere riconosciuti i diritti e anche i comportamenti illegali di qualsiasi minoranza e, al contrario, di vedere totalmente conculcati i miei.
        Dovrei sentirmi minacciato da altri tipi di attacchi? Sì, lo so, sono più cruenti, più primitivi, meno sofisticati. Sembrano "stranamente" fatti per legittimare voi e il vostro ruolo. Uccidono subito, non costringono al suicidio o alla disperazione e alla miseria, come fate voi con "raffinata" abilità.
        Non starò qui a discutere. Non sono più vivo da tempo. Difendete pure il "vostro sistema di vita". Non è il mio. Auguri!

                                                   Piero Visani



lunedì 21 marzo 2016

La tentazione

       La tentazione di governare sulla base dell'iniquità, pensando solo a se stessi per mero egoismo e anche per carenza assoluta di fantasia, è vecchia quanto il mondo. Non si distribuisce nulla ad alcuno, salvo alle clientele più strette e agli scherani che devono garantire la protezione delle classi dominanti. Il resto è solo iniquità, furti e iniquità.
       Un sistema economico come quello attuale, basato solo sulla spoliazione predatoria dei cittadini, non ha ovviamente alcun futuro, non solo per ragioni politiche, ma anche e soprattutto per ragioni economiche, in quanto, divorando le popolazioni, di fatto divora se stesso. Esso ha scelto, come unica strategia possibile, quella di una morte differita, nel senso che non ha futuro, e lo sa, ma le classi dominanti si accontentano di avere un po' più futuro dei cittadini comuni, ai quali sperano di poter sopravvivere ancora per qualche tempo dopo averli depredati fino all'ultimo centesimo di euro.
       Siamo di fronte al "lato oscuro dell'accecamento" e non giova, alle classi dominanti, poter contare sulla attiva collaborazione dei "volonterosi carnefici" in campo fiscale e poliziesco. La natura del "volonteroso carnefice", infatti, dovunque esso operi è intrisa di servilismo e di totale mancanza di fantasia, per cui non sa fare altro che comportarsi da iena là dove già sono passati altri predatori. Dunque non attacca, ma si limita ad azzannare le spoglie di soggetti che sono già palesemente morti, perché non sa fare nulla di meglio e di diverso.
       In fondo a tutto questo si colloca, ovviamente, il più totale e assoluto dei disastri, perché la rovina provocata e il male diffuso chiameranno - molto prima di quanto comunemente si pensi - altre rovine e altro male. Come sempre, "sangue chiama sangue" ed è stranissimo che chi, con un minimo di impegno, potrebbe distribuire un po' di serenità, se non proprio di felicità, non si preoccupi che di seminare dolore, disperazione e morte, senza pensare che gli ricadranno prima o poi addosso, quasi certamente con gli interessi.
      La tentazione di acuire tutto questo nasce ovviamente dalla totale passività con cui le popolazioni europee attuali, composte per la maggior parte da anziani impauriti, passivi e resi imbecilli da decenni di politiche di pseudo-Welfare, accettano ogni sorta di sopruso a loro carico, ma il Vecchio Continente si sta riempiendo di migranti, giovani e assolutamente digiuni di culture e sodomie "buoniste". Saranno loro a distruggerci, giustamente, ma le classi dirigenti europee attuali non sperino di salvarsi: non basterà loro la più totale soumission. Saranno comunque spazzate via, nel sangue.

                                 Piero Visani


                  



Segnalazione di lettura


       Mi permetto di segnalare - sull'ultimo numero di "Aspenia", la rivista dell'Aspen Institute, dedicato nel caso di specie alle "Guerre d'Arabia" - l'articolo "Il prezzo geopolitico del petrolio" scritto da Giulio Sapelli, professore ordinario di Storia economica all'Università statale di Milano.
       La rivista è quanto di più lontano possa esistere dalla mia visione del mondo, ma l'articolo è brillante, tipico delle capacità di lettura sistemica di uno storico, le quali - come è noto - vanno ben al di là di quelle di un economista, che in genere si esauriscono in quattro formulette su una lavagna, possibilmente scritte con la massima degnazione...
       Di grande interesse, in particolare, la riflessione sulle cause del crollo dei prezzi del petrolio e sulla crisi europea. Una boccata di ossigeno rispetto alle pseudo-riflessioni di pennivendoli prezzolati e terrorizzati, nei loro comportamenti sulla stampa quotidiana, dal progressivo esaurimento della "forma giornale", che li rende ovviamente attenti soprattutto a profittare della condizione di restare "allineati e coperti" per portare a casa gli ultimi guadagni e le ultimissime pensioni...
Mi piace, in particolare, l'incipit dell'articolo, che suona così: "Che il pianeta sia scosso da una crisi quale mai si è manifestata prima d'ora credo che oggi possano dubitarne solo coloro che non hanno mai letto un libro di storia, ossia la stragrande maggioranza degli economisti neoclassici oggi imperanti"...

                        Piero Visani

Blog "Sympathy for the Devil": Classifica dei post più letti (21 Febbraio - 20 Marzo 2016)

       Il mese in esame ha rappresentato una fase di ripresa del blog, cui ho potuto tornare a dedicare maggiore attenzione. Ciò ha fatto sì che le visualizzazioni salissero a 70.500 circa, riprendendo un ritmo più serrato che negli ultimi due-tre mesi.
      Due sono stati gli eventi caratterizzanti del mese: in primo luogo - ed è un fatto davvero rilevante - il superamento delle 70.000 visualizzazioni; in secondo luogo, l'ascesa al vertice della classifica dei post più visti, dopo circa tre anni e tre mesi di esistenza del blog, del post Non sarà il canto delle sirene, salito a 608 visualizzazioni, con un tasso di crescita mensile sempre superiore alle 50 unità, il quale ha infine scalzato dalla testa della classifica - dove era rimasto ininterrottamente fin dal giorno della nascita del blog - It's just like starting over, vale a dire il post inaugurale.
       Per il resto, è continuata l'ascesa di Storia della guerra - 14: L'esercito di Federico il Grande, che però non è ancora riuscito a salire al terzo posto della classifica, anche se ormai insidia Non, je ne regrette rien da vicino.
       Da segnalare poi che anche il post Un'evidente discrasia (in margine ai fatti di Parigi) ha raggiunto le 200 visualizzazioni, per cui ora sono 6 i post che hanno tagliato tale importante traguardo.
      Le posizioni dalla settima alla undicesima della classifica generale non hanno invece subito mutamenti di sorta, mentre il post Le donne accoglienti ha visto incrementare un po' le sue visualizzazioni.
      Da segnalare infine un nuovo ingresso, quello del post Storia della guerra -19: L'ascesa dell'impero napoleonico, che con una bella progressione è salito al tredicesimo posto in classifica generale, scalando un certo numero di posizioni. 
  1. Non sarà il canto delle sirene, 608 (+55) - 06/08/2014
  2. It's just like starting over, 570 (=) - 11/12/2012
  3. Non, je ne regrette rien, 266 (+2) - 29/12/2012
  4. Storia della guerra - 14: L'esercito di Federico il Grande, 263 (+5) - 19/10/2013
  5. Carlo Fecia di Cossato, 230 (+1) - 25/08/2015
  6. Un'evidente discrasia (in margine ai fatti di Parigi), 200 (+4) - 8/1/2015
  7. Quantum mutatus ab illo!, 172 (=) - 20/05/2013
  8. Elogio funebre del generale August-Wilhelm von Lignitz, 150 (=) - 29/01/2014
  9. JFK e lo "zio Adolf", 141 (=) - 17.05.2013
  10. Isbuschenskij, 140 (=) - 23/08/2013
  11. Umberto Visani, "Ubique", 133 (=) - 19/04/2013
  12. Le donne accoglienti, 131 (+5) - 15/03/2013
  13. Storia della guerra - 19: L'ascesa dell'impero napoleonico 128 (+12) - 31/10/2013
  14. L'amore bugiardo - "Gone Girl", 126 (=) - 28/12/2014
  15. Tamburi lontani, 125 (=) - 9/1/2015.
N.B.: I titoli in colore blu indicano che il post è progredito nella classifica generale; i titoli in colore rosso che il post è una new entry ai vertici della classifica (prime 15 posizioni), dove prima non era presente.
     
        Per quanto concerne invece i post che sono emersi - per numero di visualizzazioni - nel corso del solo mese in esame, i primi tre sono risultati, nell'ordine: Il coprologo (con 65 visualizzazioni), Accanimento terapeutico (con 51 visualizzazioni) e - a pari merito - Modesta proposta per prevenire, Con quest'aria da porcata italiana è finita anche questa settimana e Game, (Media)set and Match (tutti e tre con 45 visualizzazioni)

       Per finire, le visualizzazioni sono salite in totale a circa 70.500 e i post a 2.290, il che ha fatto rimanere stabile a 30,8 il numero medio di visualizzazioni per post.

       Nel complesso, un mese caratterizzato da una novità fondamentale: l'ascesa al vertice della classifica generale de Non sarà il canto delle sirene, dopo 39 mesi di esistenza del blog.

                                                   Piero Visani






domenica 20 marzo 2016

Profili della Confederazione: Nathan Bedford Forrest

       Nathan Bedford Forrest fu una delle figure degli Stati confederati d'America meno compresa quando era ancora in vita e maggiormente celebrata post mortem. Vediamo di capire perché.
       Nacque a Chapel Hill, nel Tennessee, il 13 luglio 1821, da una povera famiglia di origine scoto-irlandese. Il padre era un fabbro e si era trasferito colà dalla Virginia dopo il 1850. A 17 anni, alla morte del genitore, egli divenne il capofamiglia (aveva infatti 10 tra fratelli e sorelle, sette maschi e tre femmine).
       A 20 anni, si mise in affari con lo zio, nello Stato del Mississippi, e qualche anno dopo, nel 1845, rimase coinvolto con quest'ultimo in una rissa in cui lo zio venne ucciso. Forrest, per contro, se la cavò egregiamente, uccidendo due avversari a colpi di pistola e ferendone altri due a colpi di pugnale. Ebbe così modo di palesarsi un aspetto del suo carattere che si manifesterà anche in seguito: quello di una natura estremamente aggressiva e facile allo scontro, nella quale si mescolavano un grande coraggio personale, una veemente energia, spesso incline a trascendere nella brutalità, e un gusto per l'avventura testimoniato - tra l'altro - anche dalla sua passione per il gioco e per tutti i tipi di pressione psicologica che si potessero esercitare sul prossimo, a fini palesemente di piegarlo ai propri voleri.
      Nella sua qualità di uomo d'affari, Forrest acquistò numerose piantagioni di cotone in Tennessee e si dimostrò assai attivo nella tratta degli schiavi. Nel 1861, al momento dello scoppio della Guerra Civile, egli era diventato uno degli uomini più ricchi del Sud, con un patrimonio personale che pare ammontasse a 1,5 milioni di dollari dell'epoca, vale a dire una cifra assolutamente enorme, per quei tempi.
       Nel 1845, Forrest sposò Mary Ann Montgomery, figlia di un pastore presbiteriano, e dalla loro unione nacquero due figli.



       Al momento dello scoppio della guerra civile (primavera 1861), Forrest ritornò nel suo Stato natio, il Tennessee, e si arruolò come semplice soldato, con suo fratello più giovane e il figlio quindicenne, in un'unità di cavalleria.
       Il governatore dello Stato e i comandi militari locali rimasero alquanto sorpresi che un uomo della notorietà e delle ricchezze di Forrest si fosse arruolato come semplice soldato, tanto più che i proprietari di piantagioni erano esentati dal servizio, per cui lo nominarono  tenente colonnello  e lo autorizzarono a reclutare e addestrare un reparto di ranger a cavallo, cosa che egli poté fare senza problemi, dato che - come si è detto - era estremamente ricco.
       Nell'ottobre di quello stesso anno, a Forrest venne assegnato il comando di un reggimento di cavalleria, il 3° Tennessee Cavalry, dove egli ebbe subito modo di distinguersi per le sue naturali qualità di leader, sebbene non avesse alcun addestramento od esperienza militari da poter vantare.
      Si trattava in effetti di un uomo che incuteva un naturale rispetto al prossimo, con il suo 1,88 metri di altezza, i 95 kg di peso e la marcata inclinazione ad ottenere, con le maniere forti, quello che non riusciva ad ottenere con le buone.
       Una volta iniziate le operazioni militari, Forrest si dimostrò un ottimo tattico e un combattente per nulla incline alla resa. In occasione della caduta di Forte Donelson per mano unionista (febbraio 1862), infatti, Forrest rifiutò di acconsentire alla resa voluta dal comando confederato, raccolse dietro a sé circa 4.000 uomini e si sottrasse all'accerchiamento unionista con una marcia di incredibile audacia e sprezzo del rischio, tipica del suo temperamento di giocatore. Tale marcia lo rese famoso in tutto il Sud e ne aumentò notevolmente il prestigio.
       Nei mesi successivi, egli si rese protagonista di un fatto incredibile alla battaglia di Fallen Timbers (8 aprile 1862), quando caricò da solo le forze unioniste, non essendosi accorto di non essere stato seguito dai suoi soldati al momento dell'attacco. Circondato dai "soldati in blu", non fece una piega e ritornò verso le sue linee dopo essersi sganciato a colpi di sciabola e pistola, ferito in maniera seria ma per nulla incline alla resa.
       Promosso brigadier generale nel luglio 1862, Forrest venne incaricato dai suoi superiori di condurre un raid oltre le linee unioniste, disturbandone comunicazioni e rifornimenti. Fu in tale occasione che cominciò a rifulgere la sua stella di grande comandante di cavalleria, dato che mosse brillantemente la sua brigata alle spalle delle forze unioniste, spostandosi di continuo e attirando su di sé una grande quantità di reparti nemici, i quali non poterono così dedicarsi ad altre attività. In tale veste, riuscì ad arrivare fino alle sponde del fiume Ohio e a ritornare poi con molto bottino alla sua base di partenza in Mississippi.
      Negli ultimi mesi del 1862, Forrest si confermò un grande leader di cavalleria, mentre, nel settembre del 1863 si distinse alla battaglia di Chickamauga ed ebbe un duro scontro con il comandante confederato, il generale Braxton Bragg, da lui accusato di incompetenza e scarsa combattività. La cosa tuttavia non danneggiò la sua carriera, dato che il successivo 4 dicembre venne promosso al grado di Maggior generale.
        Il 12 aprile 1864, Forrest attaccò e catturò Fort Pillow, in Tennessee. Nella circostanza, alcune decine di soldati afro-americani che combattevano nelle file unioniste vennero uccisi dai confederati. Dopo circa un mese, sorse una violenta polemica, tra nordisti e sudisti, riguardo al comportamento assunto da Forrest e dalle sue truppe nel corso di quel combattimento. Egli venne personalmente accusato di aver tollerato che avesse luogo un massacro deliberato di soldati unionisti neri, quantunque coperti dalla condizione di prigionieri che si erano formalmente arresi al nemico, ma il generale Sherman, incaricato di esaminare la questione e di riferirne al presidente Lincoln, formulò un giudizio sostanzialmente assolutorio del comportamento del suo collega confederato, accusato sì di aver tollerato le inaudite violenze cui si erano lasciati andare i suoi uomini, ma non di averle in qualche modo promosse e di averle duramente represse non appena venuto a conoscenza dei fatti.
       La più grande vittoria militare di Forrest ebbe luogo nella battaglia di Brice's Crossroads (10 giugno 1864), quando, al comando di soli 3.500 uomini, riuscì a sconfiggere completamente una forza di ben 8.500 unionisti, grazie alla mobilità della sua cavalleria - che egli, in omaggio all'evoluzione tattica di quell'arma, trattava sempre più come fanteria a cavallo - e al suo notevolissimo senso tattico. Come tale, egli fu un precursore, in quanto trasformò la cavalleria da arma di sfondamento tattico (ormai non più utilizzabile come tale a causa delle micidiale potenza e precisione delle nuove armi rigate) a strumento di mobilità strategica, in grado di compiere incursioni in profondità alle spalle delle linee nemiche e di muoversi come una sorta di moderna fanteria "motorizzata", la quale, arrivata sull'obiettivo, abbandonava i cavalli ed entrava in combattimento come normale fanteria, pur se molto più mobile di quest'ultima.
       Tale senso tattico Forrest riuscì ad esibire anche nel corso delle ultime campagne sul fronte occidentale dove egli, mai investito di un comando di rilievo nonostante la sua promozione a Tenente generale verso la fine del 1864, riuscì comunque a cogliere brillanti vittorie, anche se tutte caratterizzate dal fatto di essere successi di retroguardia, conseguiti quando ormai la situazione del Sud era definitivamente compromessa.
     Dopo la resa di Lee ad Appomattox (Virginia, 9 aprile 1865), Forrest combatté ancora un mese con le forze confederate, per poi arrendersi il successivo 9 maggio.
       L'abolizione della schiavitù inferse un colpo durissimo alle fortune di Forrest, che si vide privato di gran parte dei suoi capitali. Entrò allora nel settore delle ferrovie, ma non ebbe fortuna, la sua compagnia fece fallimento ed egli, al momento della morte, viveva in una capanna di legno che aveva mantenuto in suo possesso ai margini di una delle sue piantagioni, in pressoché totale miseria.
      Non bisogna poi dimenticare che Forrest aderì al Ku Klux Klan alla fine del 1866 o agli inizi del 1867. Com'è noto, il Klan venne creato nel 1866 da veterani confederati, con l'intento di esercitare forti pressioni sugli schiavi liberati affinché continuassero a nutrire un forte timore nei confronti dei loro ex-padroni bianchi e non fossero indotti a compiere ritorsioni a loro carico, ma non è certo che Forrest ne abbia assunto la direzione, mentre è certo che se ne distaccò nel 1869, essendo favorevole a un diverso trattamento della popolazione nera e degli schiavi liberati, verso i quali riteneva preferibile sviluppare una politica di riconciliazione.
      Morì a Memphis (Tennessee), nell'ottobre 1877, a causa di complicazioni derivantigli da un attacco di diabete, e proprio a partire dalla sua morte ebbe luogo un processo di celebrazione del personaggio che, nel corso del tempo, è di fatto andato al di là dei suoi effettivi meriti militari, pur notevoli. Con tutta probabilità, la figura di Forrest è diventata un catalizzatore di simpatie confederate e odi unionisti, e questa incapacità di lasciarla evolvere dalla polemica politica alla storia non è giovata né alla figura del generale né alla sua corretta interpretazione, così come non gli sono giovate le sue simpatie per il Ku Klux Klan.
       Forrest si riesce a interpretare e valutare meglio, come figura, nella logica della "cultura dei vinti" e della visione - tipicamente confederata - del Sud come "vincitore morale" della Guerra Civile americana.
       Al tempo stesso, i tratti molto marcati del carattere del generale hanno contribuito a farne un personaggio assai presente nell'immaginario collettivo, dal momento che non si tratta di una figura opaca, ma di un uomo a tutto tondo: nato poverissimo, poi diventato ricchissimo, e morto nuovamente poverissimo; arruolatosi come soldato e salito fino al grado di tenente generale; fisico imponente, ottimo cavallerizzo e grande spadaccino, capace di rivendicare personalmente a sé l'uccisione, durante il conflitto, di più di 30 soldati unionisti e il ferimento di molti altri.
       Affermazioni assolutamente analoghe possono essere fatte in relazione alla sua appartenenza al Ku Klux Klan, che tuttavia dovrebbero essere temperate dal fatto che egli se ne staccò dopo pochi anni e si orientò piuttosto in favore della riconciliazione con i neri, così come da intenti unitari - e non sa spirito di rivincita - fu animata la sua visione degli Stati Uniti dopo la sconfitta della Confederazione.
      Forrest, in ultima analisi, è oggi essenzialmente un personaggio da cultura di massa, al centro di odi e amori di entità sostanzialmente analoga. In ambito militare, fu uno dei pochi grandi comandanti che la Confederazione sudista riuscì a schierare sui fronti dell'Ovest e probabilmente uno dei pochi a comprendere che la guerra che il Sud avrebbe dovuto combattere contro il Nord non avrebbe dovuto essere di tipo convenzionale, ma rivoluzionario. Alla fine, tuttavia, il suo senso di disciplina e gerarchia gli impedirono di compiere quei gesti dirompenti che pure sarebbero stati nella sua natura e che certo avrebbero maggiormente giovato alla causa confederata.
       Oggi egli è amato dai residui simpatizzanti sudisti non per quel che è stato, in fondo, ma per quello che avrebbe potuto essere, se la sua volontà di rottura degli schemi fosse stata superiore all'ossequio per gli assetti politico-militari esistenti all'epoca. In definitiva, egli è diventato una figura mitica perché del Sud incarna ciò che avrebbe potuto essere e non ciò che è stato. Come tale, egli si sovrappone alla perfezione con il Vecchio Sud, che in fondo vive ancora oggi di tale illusione, ormai diventata mito.

                              Piero Visani





     
      

I have a dream

       Ho un sogno ricorrente, in questi giorni: vedere un politico di destra, centrodestra o come che sia, il quale - a fronte della centomillesima domanda sul fascismo - invece che arrampicarsi sugli specchi per trovare risposte improbabili che fanno godere il giornalista che li interpella non perché siano tali, ma perché gli fanno sentire di essere detentore di un piccolo potere, quello di avere una domanda che comunque costringe l'intervistato sulla difensiva, si sentisse rispondere più o meno in questi termini:

       "Guardi, mi hanno posto spessissimo questa domanda e gli anni dalla fine del fascismo continuano ad aumentare. Capisco e condivido la sua difficoltà a interpretare in maniera meno banale una funzione, quella giornalistica, che è ormai arrivata al capolinea, e ancor più capisco e condivido la paura che ella nutre per la sicurezza del suo posto di lavoro, ormai sempre più precario. Tuttavia, vorrei dirle quanto segue, e poi non toccare mai più questo argomento.
       Capisco che rimanere disoccupati possa fare paura a chiunque, ma - mi creda - lei farebbe molto più onore alla sua professione se, invece che del fascismo, fenomeno politico esaurito e ormai consegnato al giudizio degli storici, mi sollecitasse a parlare non dei morti o delle nefandezze di oltre settantanni fa e potessimo invece discettare sui morti e le nefandezze attuali: i suicidi di Stato, la paura per il futuro, la morte che si normalizza in tempo di pace; tutti argomenti strettamente legati all'attualità e che richiedono non che mi debba scusare io, ma che debbano scusarsi e impetrare pietà coloro i quali hanno ridotto questo Paese nelle penose condizioni in cui versa.
       Nella nostra vita quotidiana, il fascismo ha perso qualsiasi rilevanza, anche residuale, per cui rispondere a domande su di esso equivale a qualcosa di meno concreto che parlare del sesso degli angeli. Potremmo parlare del presente e dei suoi orrori, non del passato e di orrori che ormai hanno un'unica funzione, quella di occultare gli orrori del presente".
       Ovviamente, cercheranno di contrastare una reazione del genere e cercheranno di fare di tutto per darle fastidio, ma finalmente si uscirà dalla pantomima che obbliga una parte politica a sottomettersi docilmente a questa specie di cursus (dis)honorum, destinato sempre e inesorabilmente a concludersi con l'attesa "proskunesis".
     Mi sono anche chiesto poi - ed era inevitabile - per quale ragione tutta una classe politica abbia fondato il proprio esistere sulle abiure e ho capito che si tratta di una prassi vergognosa e risibile, ma al tempo stesso irrinunciabile per chi voglia meritarsi una poltroncina (o un semplice strapuntino...) nella pochade politica della pseudo-democrazia italiana. Con il suo gusto caustico per la sintesi, Giuseppe Prezzolini avrebbe detto che si tratta di "politica alimentare". E, quando si è detto questo, di certi personaggi pseudopolitici si è detto davvero tutto...

                                                   Piero Visani


                                            

      




sabato 19 marzo 2016

Verso l'abisso


       Una delle cose che maggiormente mi danno la certezza del fatto che precipiteremo nell'abisso è che verso di esso si corre:
1) con assoluta nonchalance;
2) emettendo simpatiche geremiadi sulla pace universale e la "naturale bontà" degli umani;

3) con l'intima e andreottiana convinzione che "alla fine si aggiusterà tutto".

       "Voglio ridere" (bel pezzo dei Nomadi)...

                              Piero Visani

Dellamorte dellamore

       Lo stillicidio dei suicidi da disperazione è ormai più che quotidiano; le statistiche ci dicono che il numero dei morti è cresciuto massicciamente nel 2015; il Mediterraneo è una tomba a cielo aperto, mentre ovunque si scatena la più assurda delle aggressività, che può trasformare un modesto tamponamento stradale in un viatico di morte. Rampolli di ricchi annoiati uccidono coetanei "per vedere com'è e quali sensazioni si provino".
       Mentre si sviluppa questo crescendo di orrore e di morte, pessimi registi scrivono sceneggiature politico-culturali fatte di geremiadi buoniste e pacifiste, mentre maldestri realizzatori di colonne sonore le condiscono con le note furbette di Imagine o di All you need is love.
       Se solo si possiede un minimo di capacità analitiche residue, ci si interroga inevitabilmente sull'enorme distanza che intercorre tra le affermazioni di principio, tutte nobilissime, e una realtà fatta di orrore e disgusto, di soprusi legittimati e di diabolici tentativi di ridurci in miseria e in schiavitù.
       Non sono semplici indizi. Sono prove di una situazione che sta degenerando vieppiù, di una "ascensione agli estremi" di clausewitziana memoria. E cosa faceva il grande pensatore prussiano? Rifletteva sulla guerra.
       Ora, è quasi da escludere che un prossimo conflitto possa essere tra Stati; più facilmente, sarà una guerra per bande su scala globale, una "guerra di tutti contro tutti", secondo l'insegnamento hobbesiano, in cui tutte le repressioni e i soprusi cui ci hanno costretti i falsissimi difensori della democrazia e dei diritti umani verranno finalmente a maturazione, all'unica maturazione possibile: il bellum omnium contra omnes.
       Del resto, è un approdo assolutamente normale: se il mio vivere associato è solo una forma, neppure troppo occulta, di schiavitù; se la politica parla di "diritti dell'Uomo", ma del diritto di ogni singolo individuo se ne batte allegramente e anzi si preoccupa solo di conculcarlo, prima o poi, ma sempre più prima che poi, mi attrezzerò per farlo rispettare individualmente, con mezzi leciti e anche con altri reputati erroneamente illeciti, ma in realtà ispirati al legittimo diritto alla sopravvivenza individuale.
       Stiamo correndo a velocità sempre più accelerata verso tale approdo e, se anche le "armi di distrazione di massa" cercano di nasconderlo, ad alcuni la cosa è chiarissima; ad altri non è altrettanto chiara a livello razionale, ma lo è invece a livello irrazionale, perché non si limitano a "pensare la violenza o la guerra", la praticano tout court, senza pensarci non dico due volte, ma nemmeno una.
       Non è la prima volta che il ricorso alle utopie buoniste, utilizzato non perché le si condivida, ma come semplici strumenti di potere, è fonte di enormi scoppi di violenza e di immani massacri. Questi ultimi si determinano quando anche il più ingenuo e credulone degli uomini si accorge di essere stato oggetto di una gigantesca presa in giro, una presa in giro che lo sta portando alla morte per soffocamento.
      Da entomologo, guardo a tutto questo con naturale distacco. Non posso farci niente e neppure mi interessa farlo. Al massimo, mi piacerebbe accelerare questa mostruosa deriva, nella speranza di favorire la fine di questi tempi osceni, dove la menzogna, lo sfruttamento, la servitù sono legge. E' a fini di emancipazione che auspico la più terribile delle accelerazioni, cioè la necessaria espiazione dall'aver dato credito, per decenni, a tante menzogne.
       "Guerra, sola igiene del mondo" - ebbe a scrivere Filippo Tommaso Marinetti nel celebre "Manifesto del Futurismo" (1909). Ovviamente non è così, ma resta l'unica soluzione possibile, e praticabile, e auspicabile, nel momento in cui ogni legge, ogni diritto, ogni verità, ogni libertà sono andati perduti di fronte al potere del dio Denaro e dei suoi sacerdoti. Non c'è autocompiacimento, nello scrivere tutto questo. C'è la serena consapevolezza che è l'unico rimedio che ci è rimasto per evitare la schiavitù: una grande "guerra servile" che ancora deve trovare il proprio Spartaco, ma che dovrà essere civile, globale, per bande e condotta senza alcun tipo di pietà. Mai come oggi vale il celebre memento di Louis-Antoine de Saint-Just: "La guerre de la liberté doit être faite avec colère". Non ci resta altro, purtroppo.

                                                              Piero Visani





                                        

giovedì 17 marzo 2016

La metafora del calcio

       Come ha spiegato molto bene uno studioso tedesco, Wolfgang Schivelbusch, in un saggio assai rinomato (La cultura dei vinti, trad. it., Il Mulino, Bologna, 2006), esiste una mitologia della sconfitta che viene agita nel momento in cui si tratta di spiegare un disastro apparentemente inspiegabile e, soprattutto, quando si tratta di giustificare un insuccesso che probabilmente non ci si attendeva. La conseguente "elaborazione del lutto" passa attraverso fasi successive, dalle quali il passato esce riletto alla luce della convinzione di essere "i vincitori morali" di una guerra appena persa e ne nasce una "mitologia della sconfitta" che può servire - come nel caso della Confederazione sudista - a creare una visione del passato che dia il senso di una "superiorità morale", vera o presunta che sia, oppure, come nel caso della Germania dopo la Grande Guerra, a gettare le basi di una révanche.
       In Italia, avendo noi da tempo perduto punti di riferimento più elevati, le macroscopiche distorsioni della società nazionale vengono in genere coperte, ma al tempo stesso spiegate, con continui riferimenti alla passione collettiva per il gioco del calcio, senza pensare nemmeno per un attimo che quest'ultima è in realtà una forma di esplicazione assai più eloquente di altre.
       Si pensi a come si è evoluto questo sport nel corso del tempo, dagli anni Trenta alle grandi innovazioni degli anni Cinquanta, dal "gioco all'italiana" (leggasi "catenaccio") al formidabile salto qualitativo e concettuale del calcio olandese degli anni Settanta, dalla progressiva velocizzazione del gioco all'inserimento al suo interno di pratiche derivanti da altri sport (come il basket o l'hockey), basate sul possesso di palla e l'ossessione tattica.
       Un'evoluzione assolutamente normale, che ha investito tutte le altre discipline sportive e che è basata essenzialmente sulla velocità, la fisicità e l'esasperazione tattica di tutte le pratiche presenti al suo interno.
       Su questo sfondo, a parte il magnifico esempio (anche a livello di pedagogia collettiva e individuale) di Arrigo Sacchi e di qualche suo discepolo, come Antonio Conte, il calcio nazionale - esattamente come la società nazionale in moltissimi altri campi - ha continuato a fare finta di nulla ed a bearsi di luoghi comuni come "la palla è rotonda", "le partite sono decise da episodi", "l'arbitraggio era ostile", etc. etc.
       Intendiamoci, la situazione è cambiata e sta cambiando anche da noi, con l'emergere di allenatori - giovani e meno giovani (da Sarri a Di Francesco) - che detestano il gioco speculativo e cercano di imporre il proprio, consapevoli del fatto che oggi il cosiddetto gioco di rimessa, o all'italiana, si pratica al più nelle rimesse, cioè nelle partitelle che i garzoni di un'autorimessa possono giocare, a fine giornata, nel loro luogo di lavoro, come alternativa meno costosa all'affitto di un campo di calcetto.
       Tra le componenti più importanti della modernità ci sono la complessità, la velocità, la cura maniacale dei dettagli, della precisione dei passaggi, dell'intensità degli allenamenti e del gioco. A ciò la scuola italica contrappone il suo sempiterno spontaneismo, quello che serve ad incassare molto e a lavorare poco, mascherandosi dietro consolidati luoghi comuni, che consentono e al tempo stesso giustificano poco allenamento, poca precisione, improvvisazione, estemporaneità.
      I dati desumibili dalla partite di ieri - Bayern Monaco contro Juventus - sono tragicomici, in tal senso: 77% di possesso di palla del vincitore (il Bayern) contro un ridicolo 23% dello sconfitto (la Juve), che credo sia un record assoluto e che trasformi la partita, a livello di percentuali, in un match tra Bayern e Lanciano (con tutto il rispetto per i tifosi del Lanciano, sicuramente più rispettati, dalla loro società, di quelli della Juve...). Tuttavia, scarsa attenzione è prestata a questo dato - frutto di un lavoro assiduo, che richiede allenamenti quotidiani molto intensi - in favore di variabili che sono sempre esistite, come l'errore arbitrale, la fortuna/sfortuna e, naturalmente, l'ostilità del "Palazzo" - perché, per spiegare le nostre sconfitte, occorre sempre poter incolpare un oscuro deus ex-machina.
       Arrigo Sacchi ha sempre cercato di spiegare, con autentica vocazione da missionario, gli errori e soprattutto gli orrori che stanno alla base di questa visione distorta, a cominciare dall'inesistenza di una cultura collettiva del lavoro e dei benefici che essa, a gioco lungo, è in grado di produrre sulla mentalità individuale e collettiva. Sfortunatamente per noi, ha avuto poca fortuna e meno ascolto. E' prevalsa invece - come in tutta la cultura nazionale - una visione speculativa che non produce niente: stentate vittorie da 1-0 e conservatorismo assoluto in tutti i campi, in modo da non dover dedicare troppo tempo ad allenamenti, analisi tattiche, etc., e da non sottrarlo all'impegno da profondere nello spendere i troppi soldi guadagnati, dedicandosi ad altro, più divertente.
      Il calcio - e qui so di sfondare una porta aperta - è una terrificante metafora della cultura e della politica nazionali: fare il meno possibile, ottenere il massimo possibile e - quando la realtà si impone con tutto il suo peso - poter dare la colpa a qualcun altro, quando la colpa è solo nostra, è il rifiuto della modernità, è la pervicace ostinazione a non cambiare MAI le nostre cattive abitudini. Gli Arrigo Sacchi (e quelli come lui) ci fanno una terribile paura, in tutti i campi; meglio lasciarli predicare nel deserto e correre - tutti "Allegri"... - dietro a qualche conservatore ad oltranza, apologeta del buonsenso e del saper perdere partite già vinte, per puro misoneismo e incapacità di guardare al di là del proprio naso.
      Alla stessa stregua, in politica, là dove avremmo bisogno di un Winston Churchill che ci prometta solo "lacrime, sudore e sangue", ci ritroviamo con soggetti alla Berlusconi o alla Renzi, che promettono di tutto e che le tre voci testé citate ce le hanno già portate a casa... Più metafora di così...

                   Piero Visani



P.S.: L'immagine, deliberatamente scelta, indica dove si arriva, alla fine, con scelte del genere.