domenica 10 luglio 2016

Da Pratile a Termidoro - 2

Il moltiplicarsi dei conciliaboli dei deputati si accompagnò ad un aumento delle tensioni sia tra il Comitato di Sicurezza Generale e Robespierre, sia all’interno del Comitato di Salute Pubblica. Nel mese di aprile Robespierre e Saint-Just avevano costituito uno speciale Bureau de Surveillance della polizia che riferiva direttamente a loro ed al Comitato di Salute Pubblica, determinando una rottura del delicato equilibrio istituzionale con il Comitato di Sicurezza Generale. Il timore, rafforzato dalla legge di pratile sulle giustizia rivoluzionaria, che si stesse delineando uno svuotamento dei loro poteri spinse Amar e Vadier, detentori del controllo sulle forze di polizia, a reagire. Per colpire il loro avversario agirono d’astuzia, ricorrendo alle allusioni, venate d’ironia, più che alle accuse a viso aperto. Nella seduta del 27 pratile Vadier presentò alla Convenzione un rapporto su di una vasta cospirazione appena scoperta, che coinvolgeva una mistica ultra settantenne ed i suoi adepti.
Un agente al servizio del Comitato di Sicurezza Generale si era infiltrato in una setta messianica che si riuniva in rue Contrescarpe, sotto la guida spirituale di Catherine Théot, detta la “Madre di Dio”. L’anziana visionaria, che in passato era stata anche internata in manicomio, profetizzava l’imminente venuta sulla terra di un Messia dei poveri che avrebbe ristabilito la Giustizia.  Tra i frequentatori abituali di rue Contrescarpe figuravano Gerle, un ex monaco certosino, già deputato all’assemblea costituente, Quesvremont, il medico della famiglia Orléans, la marchesa di Chastenois e perfino la cognata del falegname Duplay che alloggiava Robespierre. Con consumata abilità Vadier trasformò il delirante misticismo della setta in un progetto politico eversivo, senza risparmiare battute salaci sui preti, sulla religione e sull’astinenza dai piaceri terreni, lasciò intendere che il Messia invocato dalla Théot fosse l’”Incorruttibile” in persona, strappando applausi e risate di intesa a molti deputati. Tale ironica allusione si fondava su di un elemento probatorio, molto probabilmente fabbricato ad arte, che Vadier non volle citare nella sua relazione, riservandosi di esibirlo al momento più opportuno. Nella perquisizione dell’appartamento di rue Contrescarpe era stata rinvenuta sotto un materasso una lettera della Théot indirizzata a Robespierre, definito “il Figlio dell’Essere Supremo, il Verbo Eterno, il Redentore del genere umano, il Messia designato dai profeti”. Vadier cautamente sorvolò anche su di un altro particolare compromettente. L’ex monaco Gerle aveva ottenuto un certificato di civismo grazie all’intercessione di Robespierre.
La seduta del 27 pratile si concluse con l’approvazione da parte della Convenzione del deferimento della Thèot e dei suoi complici al Tribunale Rivoluzionario con l’accusa di aver cospirato contro la Repubblica. Benché disgustato dalla messa in ridicolo del culto dell’Essere Supremo ed offeso dal mal celato attacco personale, Robespierre, in qualità di presidente della Convenzione, non poté opporsi a tale decisione dell’assemblea, ma non rinunciò comunque a reagire alla provocazione di Vadier, cadendo nella subdola trappola che gli era stata tesa. La sera stessa impose al Pubblico Ministero del Tribunale Rivoluzionario, Fouquier-Tinville,  di consegnargli l’incartamento del caso Théot. Questa prevaricazione diede corpo all’accusa di essere di fatto un dittatore, capace di calpestare le deliberazioni della Convenzione.
All’interno del Comitato di Salute Pubblica, Collot d’Herbois, che aveva condiviso con Fouché la responsabilità dei mitragliamenti di Lione, e Billaud, che era stato vicino ad Hébert ed aveva accolto con disappunto l’introduzione del culto dell’Essere Supremo, ebbero finalmente un pretesto per attaccare apertamente l’”Incorruttibile”. Un altro membro del Comitato di Salute Pubblica, Barère, si era già schierato contro Robespierre, collaborando con Vadier ed Amar alla redazione della relazione presentata alla Convezione sul caso Théot. Anche i responsabili delle operazioni militari all’interno del Comitato, Carnot e Prieur de La Côte-d'Or uscirono dal loro riserbo per criticare il perdurante clima di terrore, nonostante i successi che le armate rivoluzionarie stavano ottenendo.
Dopo la discussione furiosa ed invelenita suscitata all’interno del Comitato di Salute Pubblica dal caso Théot, Robespierre diradò per una quarantina di giorni, dalla fine di pratile sino all’inizio di termidoro, le sue apparizioni pubbliche. Non tenne discorsi alla Convenzione, prese la parola al Club dei giacobini soltanto per attaccare Fouché ed in poche altre occasioni, firmò una trentina di decreti del Comitato di Salute Pubblica che presumibilmente gli furono portati in rue Saint Honoré, dal momento che disertò la maggior parte delle sedute. Parve estraniarsi dalla vita pubblica, in parte disgustato dalla bassezza morale dei suoi colleghi di governo oltreché dei suoi avversari, in parte costretto dalle sue precarie condizioni di salute. Già in precedenza lo scontro con Danton e Desmoulins aveva portato ad esaurimento le sue risorse fisiche ed emotive, costringendolo a letto per alcuni giorni tra il febbraio e l’aprile del 1794. Da allora portava sul volto e persino nella gestualità le tracce di un logoramento fisico derivante da quello mentale. Barras in occasione del suo già citato incontro privato con Robespierre lo descrisse così: “Gli occhi spenti e miopi si fissarono su di noi. La faccia, con tratti volgari, era di un pallore spettrale, con vene di colore verdastro; si muoveva di continuo. E anche le mani, che stringeva a pugno  e rilassava di continuo come per un tic nervoso; anche il collo e le spalle avevano spasmi convulsi.”
Lo stesso stato di prostrazione di ventoso e di germinale si ripresentò alla fine di pratile, probabilmente aggravato dal timore ossessivo di subire un attentato e dalle tensioni familiari, provocate dall’aspro dissidio tra suo fratello minore Augustin e sua sorella Charlotte. Sappiamo poco di come Robespierre trascorse questi quaranta giorni lontano dalla ribalta pubblica. La rete di una dozzina di informatori guidata dall’agente Guérin continuò a fornirgli quotidianamente informazioni dettagliatissime sui movimenti dei suoi avversari. Ogni deputato indicato come sospetto era pedinato e spiato giorno e notte, difficilmente poteva conversare con un collega, mettere piede in un caffè o salutare un passante senza che gli uomini di Guérin ne prendessero nota e riferissero. Grazie a questa massa di informazioni raccolte in aperta violazione dei diritti dei parlamentari, Robespierre, benché debilitato dall’esaurimento nervoso che offuscava la sua capacità di giudizio tattico, mantenne il polso della situazione politica, in attesa del momento più opportuno per riprendere saldamente nelle sue mani la guida della rivoluzione. Almeno così si illudeva.
Mentre la classe politica rivoluzionaria si preparava ad uno scontro all’ultimo sangue per stabilire a chi appartenesse la leadership, il popolo, a Parigi ed altrove, si mostrava sempre più scontento ed irrequieto.  Sul finire di giugno ci furono rumorose proteste nei quartieri parigini contro il crescente numero di condanne capitali inflitte anche a noti sanculotti. I carpentieri delle officine di stato entrarono in sciopero, denunciando l’aumento dei prezzi dei generi alimentari. Lo stesso fecero i minatori, i mietitori ed altre categorie di salariati. Questi inquietanti segnali sociali convinsero Barère a mettere in atto un tentativo di ricomposizione delle fratture tra i due Comitati ed all’interno dello stesso Comitato di Salute Pubblica. La rinuncia ad ogni lista di proscrizione era la conditio sine qua non per la riconciliazione. Couthon e soprattutto Saint-Just espressero un cauto interesse alla proposta, allettati dalla promessa di Barère di un rinnovato impegno all’applicazione dei decreti di ventoso rimasti lettera morta, che prevedevano la distribuzione agli indigenti dei beni sequestrati agli aristocratici emigrati ed ai sospetti.
Il 5 termidoro, in occasione della riunione congiunta dei due Comitati, Robespierre, pur essendosi preoccupato di lanciare segnali di distensione a Vadier con la rinuncia al controllo del Bureau de Surveillance,  respinse con decisione ogni ipotesi di compromesso. I cospiratori dovevano essere estirpati ovunque si trovassero senza indugio. Il ristabilimento della virtù aveva la precedenza su ogni altra considerazione, persino sulla realizzazione di una vasta redistribuzione della ricchezza.
La presunzione di incarnare la virtù repubblicana, e quindi l’autentico spirito della rivoluzione, spinse Robespierre ad assumere l’iniziativa politica, facendo leva sulla Convenzione in cui si illudeva di godere ancora di un’ampia e solida maggioranza. Il lavorio sotterraneo di Fouché, di Barras, di Fréron, di Tallien e di Bourdon de l’Oise aveva invece dato i suoi frutti, trasformando l’immagine dell’”Incorruttibile” in quella di un dittatore assetato di sangue, pronto ad abbattere la sua vendetta su tutti coloro che avessero tradito la purezza rivoluzionaria. Ed erano in molti a tremare tra i deputati. Un eccesso terroristico, il sospetto di arricchimento illecito, un passato legame, per quanto tenue, con un leader già sacrificato sulla ghigliottina, come Danton o Hébert, una critica a Robespierre sussurrata ad un collega e riportata da qualche spia avrebbero potuto costare la testa.
Senza consultarsi né con Couthon, né con Saint-Just, Robespierre pronunciò alla Convenzione, l’8 termidoro, un lungo discorso, a tratti oscuro e sconclusionato, che promise castighi a tutti gli oppositori, anziché compattare la maggioranza, lasciando intravedere una prossima pacificazione.
La Repubblica continuava ad essere in pericolo: “I nostri nemici sono in ritirata, ma solo per lasciarci alle nostre divisioni interne.” Erano in corso i preparativi di una vasta cospirazione che minacciava di mandare in rovina la Repubblica. Soltanto recuperando l’originaria purezza rivoluzionaria e superando le fazioni la Repubblica avrebbe potuto essere salvata: “Io dico che tutti i rappresentanti del popolo il cui cuore è puro devono prendere la fiducia e la dignità che si confà a loro”. Per rimarcare la differenza tra i veri patrioti e gli impostori e quindi tra sé ed i suoi oppositori, Robespierre volle ricordare solennemente la dimensione morale della rivoluzione: “La rivoluzione francese è la prima che sia stata fondata sulla teoria dei diritti dell’umanità e sui principi della giustizia… Le altre rivoluzioni non esigevano che l’ambizione, la nostra impone delle virtù.” Tracciò quindi il profilo del vero patriota animato da: “..orrore profondo della tirannia, …zelo compassionevole per gli oppressi, …amore sacro per la patria, …amore… dell’umanità, senza il quale una grande rivoluzione non è che un crimine eclatante che distrugge un altro crimine; (dall’)… ambizione di fondare sulla terra la prima Repubblica del mondo…, (dall’)… egoismo degli uomini non degradati che trova una voluttà celeste nella calma di una coscienza pura e nello spettacolo incantevole della felicità pubblica! Voi lo sentite ardere in questo momento nelle vostre anime: io lo sento nella mia.”
Respinse con tagliente ironia l’accusa di aver applicato nella sua azione di governo metodi dittatoriali: “…sono almeno sei settimane che la mia dittatura è spirata e che io non ho alcuna specie di influenza sul governo: il patriottismo è stato più protetto? Le fazioni più timide? La patria più felice?” Dall’allontanamento dalla vita pubblica di uno “scomodo sorvegliante” solo i nemici della rivoluzione ne aveva tratto vantaggio, trovando il coraggio di elaborare il progetto di “…strappargli il diritto di difendere il popolo con la vita”. I veri “mostri” che minacciavano la Repubblica erano coloro che “…avevano cacciato in fetide carceri i patrioti e seminato il terrore in tutti gli strati e livelli della società.”
I cospiratori si annidavano dappertutto, nei comitati di governo e persino nella Convenzione. Occorreva pertanto punire i traditori, distruggere le fazioni e rifondare la Repubblica ristabilendo la potenza della Giustizia e della Libertà.
Robespierre ripeté lo stesso errore tattico che aveva già commesso in pratile. E questa volta gli fu fatale. Per oltre due ore si scagliò contro i nemici della Repubblica senza tuttavia pronunciare i loro nomi, eccetto quello di Cambon, membro autorevole del Comitato delle Finanze, che non aveva però lo spessore politico per diventare l’unico capro espiatorio da sacrificare sull’altare della purezza rivoluzionaria. Una decina di nomi autorevoli sarebbe stata sufficiente per rassicurare l’aula intera, delimitando i confini politici dell’epurazione che Robespierre intendeva praticare. A nulla valsero le richieste di Vadier, Cambon, Billaud, Fréron e di una ventina di altri deputati di precisare le accuse, di esibire la lista dei proscritti, l’”Incorruttibile” si ostinò a non dissipare la vaghezza delle sue accuse.
Le allusioni minacciose lanciate in tutte le direzioni politiche a tutte le personalità di maggior spicco della Repubblica gettarono una massa di deputati disorientati nella disperazione che ispirò la decisione di prendere parte attiva al complotto che da pratile si era andato sviluppando. La Convenzione manifestò il suo malumore rifiutandosi di votare la stampa del discorso di Robespierre.
Deluso ed irritato dalla presa di posizione dell’aula a  cui aveva fatto appello, la sera dell’8 termidoro, Robespierre lesse lo stesso discorso al Club dei giacobini per mostrare ai suoi nemici tutta la sua forza. Le sue parole furono accolte da una formidabile ovazione. Collot d’Herbois, che presiedeva la seduta, e Billaud cercarono di impedirgli di parlare, ma furono sommersi dalle minacce gridate contro di loro.
Robespierre lasciò il Club gettando i suoi entusiasti sostenitori nello sconforto: “Amici, avete appena udito le mie ultime volontà, il mio testamento.” Poi sopraffatto dal pessimismo rispetto all’esito della battaglia politica lo attendeva aggiunse: “Se dovrò soccombere, ebbene amici miei, voi mi vedrete bere la cicuta con calma.” Sconvolto da queste parole così disperate, il pittore David lo abbracciò come un fratello gridando di essere pronto a bere la cicuta con lui.
Nella notte tra l’8 ed il 9 termidoro avvenne la saldatura tra le diverse anime della cospirazione, fino ad allora frammentate: i deputati richiamati dalle loro missioni in provincia per le atrocità e le ruberie commesse, coloro che nei comitati di governo erano entrati in contrasto con Robespierre oppure avevano un imbarazzante passato hébertista, gli ex dantonisti superstiti, intenzionati a salvare sé stessi ed a vendicare il loro leader, i tecnocrati all’interno del Comitato di Salute Pubblica, come Lindet, Carnot e Prieur de La Côte-d'Or, che vedevano nella prosecuzione ad oltranza del clima di terrore un intralcio alle operazioni militari. Determinante fu infine l’adesione di Boissy d’Anglas, personalità influente della Palude, il gruppo parlamentare più moderato ed anche più numeroso della Convenzione.
Il 9 termidoro la seduta della Convenzione iniziò alle undici del mattino in un clima di apparente normalità con la lettura della corrispondenza e l’ascolto delle petizioni.
Fouché, il principale ideatore del dramma che stava per andare in scena, si guardò bene dal mettere piede in aula. Tra gli assenti quel giorno figurò anche David, forse non così ansioso di assaporare la cicuta. In seguito si giustificò adducendo una improvvisa indisposizione. Più verosimilmente nella notte tra l’8 ed il 9 termidoro fu informato da Barère del probabile esito della seduta.
Intorno a mezzogiorno, quando Saint-Just salì sulla tribuna con l’intenzione di pronunciare un discorso in difesa di Robespierre, scoppiò d’improvviso un incidente sapientemente orchestrato. Tra boati e grida, Tallien interruppe bruscamente Saint-Just, accusandolo di aver calpestato il principio della direzione collegiale all’interno dei comitati. Billaud, a cui bruciavano ancora le minacce di morte ricevute la sera prima al Club dei giacobini, non esitò a confermare, aggiungendo che l’intimidazione era diventato il metodo politico abituale dell’”Incorruttibile” che parlava “…di continuo di virtù mentre difendeva il crimine…non c’è rappresentante del popolo che voglia vivere sotto un tiranno.”
Molti deputati gridarono in coro: “No, no!”

Colto di sorpresa da questo attacco improvviso, Saint-Just non ebbe la forza di replicare, pallido ed attonito tornò a sedersi mentre attorno a lui crescevano le grida e le ingiurie. Vedendo precipitare la situazione, Robespierre chiese la parola per riprendere il controllo dell’assemblea, ma fu zittito da grida altissime: “Noi non ascoltiamo i cospiratori!”, “Abbasso Robespierre! Abbasso!”.
Sostenuto dagli applausi dei complici, Tallien riprese la parola per affermare in tono melodrammatico di essere “…armato di un pugnale per colpire il tiranno nel caso in cui la Convenzione non fosse disposta a rendergli la giustizia dovuta agli scellerati.” Prima di colpire a viso aperto il tiranno, Tallien si scagliò prudentemente contro gli scellerati che lo attorniavano. Concluse il suo intervento chiedendo l’arresto del comandante della Guardia Nazionale Hanriot e del suo stato maggiore.
Billaud non perse l’occasione per reclamare a sua volta l’arresto di altri generali e funzionari vicini a Robespierre. La Convenzione approvò le proposte di arresto senza discussione, dimostrando, al di là del vociare di sottofondo, che la maggioranza parlamentare era mutata.
I congiurati non intendevano limitarsi a scalfire il potere dell’”Incorruttibile”, intendevano abbatterlo, perciò dopo questo primo voto favorevole presero coraggio e moltiplicarono gli sforzi. Barère pronunciò un discorso più misurato, ma egualmente sferzante nei confronti di Robespierre: ”Le inquietudini fittizie ed i pericoli reali non possono marciare insieme; le reputazioni enormi e gli uomini eguali non possono sussistere a lungo in comune.” Fu Vadier con il suo tagliente umorismo a mettere a segno un colpo mortale al prestigio di Robespierre: “A sentire lui, Robespierre è l’unico difensore della libertà: la dà per perdente; è un uomo di rara modestia e ripete all’infinito lo stesso ritornello: “Mi perseguitano, non vogliono darmi la parola”; ed è l’unico che abbia qualcosa di utile da dire, perché si fa sempre come vuole lui. Dice: “Il tal dei tali cospira contro di me, che sono il miglior amico della Repubblica.”
Robespierre fece appello a più riprese, ma senza successo, al presidente Thuriot, che aveva appena sostituito Collot d’Herbois, per avere il diritto di replica: “Per l’ultima volta, presidente d’assassini, io ti chiedo la parola… Accordamela o decreta che tu vuoi assassinarmi!”. Assistendo incredulo al voltafaccia dell’assemblea che lo aveva a lungo idolatrato, Robespierre lanciò rivolto alla Montagna sguardi rabbiosi ed epiteti come “Banditi! Codardi! Ipocriti!”, che nel baccano dell’aula non potevano essere uditi. L’impossibilità del presunto tiranno, sovrastato dalle urla e dal tintinnio del campanello del presidente, di far giungere all’assemblea il suono della propria voce ispirò ad un deputato montagnardo, Garnier, una battuta feroce, che era il preludio della vendetta che stava per consumarsi: “E’ il sangue di Danton che lo soffoca!”
Tutte le accuse riversate su Robespierre con toni che andavano dall’invettiva al sarcasmo non avevano ancora sortito alcun effetto rilevante sul piano legale. Nessuno dei capi della congiura mostrava il coraggio di spingere lo scontro sino alle estreme conseguenze. A rompere gli indugi fu Louchet, un oscuro deputato della Montagna che chiese l’approvazione di un decreto di arresto contro Robespierre. Un altro montagnardo, non meno oscuro, Loiseau, si affrettò a sostenerlo.
Superato l’iniziale sbalordimento, la Convenzione approvò la proposta tra applausi furiosi e grida: “Arresto! Arresto!”
Il fratello minore di Robespierre, Augustin, non seppe rimanere spettatore impassibile, si rivolse con fermezza all’assemblea per chiedere di essere sottoposto allo stesso martirio: “Sono colpevole quanto mio fratello; io volevo fare il bene del mio paese, anch’io voglio morire per mano di criminali.” Nessuno tra i deputati si oppose a questo generoso sacrificio.
Ottenuto il trionfo sui due Robespierre, impensabile fino a qualche ora prima, Louchet, che godeva della protezione e dell’amicizia di Fouché e di Barère, riprese la parola per chiarire che il voto appena espresso dalla Convenzione comportava necessariamente anche la messa in stato di accusa di Couthon e di Saint-Just. Un giovane collaboratore di quest’ultimo, Le Bas, si levò in piedi affermando: “Io non voglio condividere l’obbrobrio di questo decreto; chiedo anch’io l’arresto.” Ancora una volta la Convenzione non ebbe nulla da obiettare. La burrascosa seduta si concluse intorno alle cinque e mezza del pomeriggio al grido di “Viva la Repubblica!”
I deputati arrestati furono tradotti al Comitato di Sicurezza Generale presso il palazzo delle Tuileries, in attesa di essere inviati a diverse prigioni della città.
Il pieno successo dell’agguato parlamentare non consegnò ai congiurati la certezza della vittoria politica. Non appena si diffuse la notizia dell’arresto di Robespierre e dei suoi fedelissimi, il sindaco di Parigi, Fleuriot-Lescot, ed il rappresentante del governo presso il comune, Payan, che avevano applaudito il discorso di Robespierre al Club dei giacobini, non esitarono a reagire convocando il Consiglio Comunale che approvò all’unanimità la mobilitazione insurrezionale per salvare la Libertà e la Repubblica. Ogni disposizione proveniente dal Comitato di Salute Pubblica o da quello di Sicurezza Generale fu dichiarata nulla. I principali congiurati, rei di aver oppresso la Convenzione, furono dichiarati passibili di arresto. Al di là degli atti formali, furono adottate anche misure di più immediata efficacia: furono chiuse le porte della città, fu ordinato che le campane suonassero a martello per chiamare i patrioti a raccolta in Place de Grève, davanti al municipio, dove le sezioni erano invitate a schierare i loro pezzi di artiglieria, furono infine inviati degli emissari presso le carceri per ingiungere di non accogliere i deputati appena arrestati. La mobilitazione delle sezioni rivoluzionarie fu tuttavia piuttosto lenta. Mesi di terrore e di processi sommari avevano falcidiato le fila dei sanculotti più determinati. Delle quarantotto sezioni della città non più di tredici inviarono i loro uomini a difesa dell’Hôtel de Ville, le altre rimasero cautamente in attesa degli sviluppi della situazione, chiedendo chiarimenti al comune sul da farsi, oppure tacendo.
Il generale Hanriot, comandante della Guardia Nazionale, contro cui la Convenzione aveva spiccato un mandato di arresto, mise le truppe a lui fedeli a disposizione del Consiglio Comunale, si assicurò il controllo dell’arsenale militare, organizzò la difesa dell’Hôtel de Ville, poi confidando nel proprio prestigio personale si diresse con un drappello di gendarmi alle Tuileries con l’intento di liberare Robespierre e gli altri deputati arrestati.
Gli uomini posti a guardia degli illustri prigionieri respinsero senza esitazione l’irruzione di Hanriot all’interno del Comitato di Sicurezza Generale e lo arrestarono.
Intorno alle sette, i cinque deputati furono trasferiti per ragioni di sicurezza a diverse prigioni. Robespierre fu condotto a quella del Luxembourg, dove i carcerieri esterrefatti si rifiutarono di prenderlo in carico. Dal Luxembourg l’”Incorruttibile” fu condotto alla sede della prefettura al quai des Orfèvres, dove fu accolto dai funzionari con acclamazioni e grida di entusiasmo.
Alla notizia dell’arresto di Hanriot il Consiglio Comunale reagì nominando un Comitato esecutivo provvisorio ed affidando al vice presidente del Tribunale Rivoluzionario, Coffinhal, il comando di un reparto di cannonieri incaricato di liberare i deputati incarcerati.
Intorno alle nove, senza incontrare alcuna resistenza gli uomini di Coffinhal presero possesso del Comitato di Sicurezza Generale e liberarono Hanriot che, montato a cavallo, condusse le truppe ribelli contro la Convenzione.
Da un paio d’ore i deputati si erano riuniti in seduta permanente per adottare contromisure adeguate a reprimere l’insurrezione in corso. Il sindaco di Parigi, il rappresentante del governo presso il comune e l’intero Consiglio Comunale erano stati posti fuori legge, così come chiunque fraternizzasse con gli insorti. A Barras era stato proposto di assumere il comando delle forze armate rimaste fedeli al governo legittimo. Dopo qualche esitazione, dettata dalla grave incertezza  della situazione, più che dalla consapevolezza della propria inesperienza militare, Barras aveva finito per accettare di buon grado il rischioso incarico.
Mentre in aula si svolgeva il dibattito, gli artiglieri di Hanriot si impossessarono dei cannoni d’onore posti nel cortile delle Tuileries e li puntarono sulla Convenzione. Resosi conto dell’accerchiamento messo in atto dagli insorti, il presidente Collot d’Herbois esortò i colleghi a morire con dignità al proprio posto, se necessario.

                                                                        Roberto Poggi

(2 - Continua)