giovedì 29 giugno 2017

29 Giugno

      Tra gli otto e i 16-17 anni, il 29 giugno - Santissimi Pietro e Paolo, nel calendario cristiano - è stata una data che proprio non potevo sopportare. Benché io mi chiami Piero (e dunque, almeno in linea teorica, del tutto estraneo a certe iatture), c'era sempre qualcuno, nel parentado e altrove, che doveva farmi i suoi auguri di buon onomastico. Abbozzavo, ma una collera potente mi devastava l'anima, perché già allora - per una questione di pelle, assolutamente preculturale - con il cristianesimo non volevo avere nulla a che fare.
       Non potevo spiegare alcunché del mio disagio a una famiglia italianamente cattolica come la mia, che cioè assolveva a certi obblighi più in un'ottica sociale che di reale osservanza religiosa, e allora cercavo furiosamente risposte dovunque possibile, e leggevo, leggevo, leggevo.
       Non ero un bambino che vivesse estraniandosi dagli altri: avevo i miei amichetti, giocavo a calcio ed ero un promettente portiere, ma non ero in sintonia con la società e le persone. Mi sentivo un diverso e questo - per miei limiti culturali e per mancanza di supporti familiari e psicologici - mi turbava parecchio. Qualche anno dopo, a partire dai 13 anni circa, l'incontro con alcuni autori (su tutti Friedrich Nietzsche, ma anche Giuseppe Prezzolini, la cui levità di scrittura era molto adatta ad un adolescente poco acculturato come me) mi ha dato il senso della mia diversità.
      L'ho accettata e l'ho giocata a modo mio, cercando di gettare ponti verso il mondo esterno. Qualche volta - raramente - quel "gettare ponti" mi è riuscito, il più delle volte no. Ho sviluppato amicizie maschili molto profonde, che durano felicemente ancora oggi, mentre i rapporti con l'"altra metà del cielo" sono stati molto più complicati.
        Ho subito molti rifiuti, variamente motivati, fino a che sono giunto a non sopportarli più ed a muovermi nel mondo reale con la cautela di un soggetto che abbia fatto voto di castità, ma qualche errore, qualche "errore di saggezza", l'ho commesso e mi è costato carissimo.
       Nutro un'idea molto particolare dei rapporti umani e, in particolare, di quelli che mi vedono coinvolto in prima persona. Non li considero assogettabili a logiche sociali. Se lo vedo fare, la cosa mi addolora molto e allora la prima cosa che mi preoccupo di fare è di distruggere qualsiasi tipo di ponte nella direzione in cui l'avevo gettato. Lo considero infatti un'offesa personale grave, gravissima, irreparabile. La mia concezione tragica dell'esistenza non ammette il dolore procurato, quello inferto, perché ne provo già a sufficienza da solo. Al tempo stesso, non mi va di essere assimilato ad un ometto qualunque. So bene che si può fare, che lo si fa quotidianamente, ma farlo a me significa cancellarmi. Infatti io non ho ex, non ho "rapporti civili" o quant'altro. Nasco e muoio in un attimo. Vivo il mio personale radicalismo con estrema gioia. Io sono così, prendere o lasciare. E l'essere stato spesso lasciato non mi ha fatto minimamente cambiare. Compio 67 anni fra meno di un mese, so di cosa sto parlando. Ho difeso la mia visione del mondo per un periodo così lungo che non è davvero un problema difenderla ancora per qualche anno. Aborro l'omologazione.

                             Piero Visani



  

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