Trotterellando qua e là, in genere in mezzo a "beati possidentes", per cercare di chiudere in maniera non troppo disastrosa la mia permanenza su questa Terra, non è raro che io incappi in sguardi di compatimento o in sorrisetti melliflui, quelli in genere riservati a quanti sono professionalmente falliti. Intendiamoci, non sono fallito in termini tecnici; più semplicemente, ho dovuto chiudere una parte cospicua delle mie attività perché non riuscivo più a mandarle avanti. Non vado in giro a pietire qualcosa con il cappello in mano, mi limito a vedere se ci sono opportunità, come ho sempre fatto in vita mia. Non ho alcun tipo di speranze. Come sempre, mi attengo al nobile detto di Guglielmo d'Orange: "Non occorre sperare per intraprendere, né riuscire per perseverare". Tuttavia, so bene che, per ragioni anagrafiche, dovrei celebrare i miei successi e invece mi trovo a dover prendere atto dei miei insuccessi.
Capita quindi, essendo io relativamente perspicace, di beccarmi spesso e volentieri lo sguardo che si riserva ai "falliti", ma è una vita che me ne sono fatto una ragione e credo che continuerò brillantemente a farmela. E' evidente che i dispensatori di tali sguardi non hanno una grande opinione di me, ma - dal momento che non vengo a pietire nulla - qualcuno potrebbe anche azzardarsi a chiedermi quale opinione abbia io di loro. Da persona educata, ovviamente, non la esterno...
Da "fallito", nel mentre mi sorbisco questi amichevoli sguardi, mi viene in mente che cosa ho letto stamane sulla prima pagina del quotidiano torinese "La Stampa": i bambini che vivono in povertà assoluta sono saliti, nel "Bel Paese", a un milione e ottocentomila. Vite spezzate, stroncate alla nascita, costrette a trascinare, giorno dopo giorno, una condanna inappellabile, perché - essendo del tutto scomparsa la mobilità sociale - nascendo poverissimi tali rimarranno per il resto della loro miserabile esistenza.
Come borghese decaduto alla condizione di lumpenproletario, suppongo che la vulgata dominante voglia che io mi senta fortunato e comunque "meno sfortunato" di costoro, tanto più che essi sono giovanissimi, mentre io decisamente no. E allora sorrido, perché ho avuto la "fortuna" di vivere "nel migliore dei mondi possibili" e di riuscire pure a "fallirvi". E' la mia incapacità che mi ha rovinato, la mia incapacità di passare gran parte del mio tempo a leccare terga e a cantare le lodi della democrazia. Mica come quei bambini, che della società capitalistica affluente conosceranno solo la povertà più nera.
Ci penso un po' su e poi sorrido: voglio la patente, la patente di "fallito", un'autentica, certificata, formale sanzione della mia diversità. Io, un "diverso" che - a differenza di molti altri - alle classi dominanti fa ancora schifo. L'unica medaglia che mi sia davvero guadagnata sul campo.
Piero Visani