sabato 30 novembre 2013

Somosierra (30 novembre1808)

SOMOSIERRA (30 novembre 1808)

Esattamente 205 anni fa, nelle gole di Somosierra, a nord di Madrid, la trionfante avanzata della "Grande Armée" napoleonica verso la capitale spagnola viene bloccata da un pugno di difensori ben trincerati in quel difficile terreno. Spazientito per l'imprevista resistenza, l'imperatore - con la solita, collerica impulsività - ordina allora allo squadrone della Guardia Imperiale in servizio di scorta alla sua persona (quel giorno il 3* squadrone del reggimento Cavalleggeri-Lancieri polacchi) di caricare e spazzare via le difese ispaniche.
Prontamente eseguito dai 125 membri dello squadrone - lance al vento, in splendide divise blu e rosse su cui troneggia la tipica chapzka polacca - l'ordine si rivela ben presto per quello che è, un'esortazione al massacro. Il pronto intervento del comandante del reggimento, che lancia alla carica gli altri squadroni del reparto, salva la situazione e porta la "Grande Armee" a forzare le difese spagnole.
Celebrata come una delle cariche di cavalleria più audaci della storia, quella di Somosierra è una carica poco nota, che illustra la dedizione con cui i polacchi combatterono per l'indipendenza nazionale a fianco della Francia napoleonica.
Mi piace ricordare il valore e il coraggio, chiunque ne sia stato o ne sia protagonista.
                        Piero Visani
 

mercoledì 27 novembre 2013

Morire per Berlino?

Ormai è chiaro: non andremo avanti molto a lungo, come Nazione e come abitanti della medesima: depredati, depauperati, senza speranza, senza futuro per noi o per i nostri figli. Morti viventi. Condannati alla povertà più totale non in un periodo di conflitti, ma di pace... Costretti a fare "sacrifici" che non finiscono mai e non portano a niente, visto che ogni anno la situazione è peggiore dell'anno precedente.
Moriremo virtuosi, con i conti (quelli altrui, ovviamente, non i nostri...) a posto. Una volta di più, la virtù (anche se in questo caso è falsa, non vera) produrrà morte, certo non vita.
Vittime di un Olocausto che non fa morti, ma si "limita" solo ad uccidere la nostra possibilità di vivere, per cui siamo vivi (in teoria), ma in pratica è come se fossimo già defunti. Costretti a un'esistenza di stenti in quello che pure avrebbe dovuto essere "il migliore dei mondi possibili".
Forse era questo che intendeva Francis Fukuyama quando scrisse della "fine della Storia"... In effetti siamo finiti, morti, privi di qualsiasi capacità reattiva, capaci solo di accompagnare lentamente un funerale, il nostro.
Lo spirito imbelle e non guerriero che è stato alimentato ad arte per decenni in questa Europa ormai del tutto incapace di svegliarsi non è stato dunque nutrito per fini di pace, ma per spegnere sul nascere qualsiasi velleità di rivolte, ideali o meno che fossero e possano essere.
Tutto si inscrive come sempre in un disegno che, man mano che passa il tempo, diventa più nitido e chiaro: SCHIAVI. Cui resta solo più una possibilità, visto che non sanno più lottare: FUGGIRE.
Penso che tutti, in un modo o nell'altro, ci stiano pensando o stiano agendo in tal senso: "vivere non è difficile, potendo poi rinascere...". Ma rinasceremo?? Chi pagherà per avermi depredato di una vita degna di questo nome...?
                      Piero Visani
 

As time goes by

Esattamente tre anni fa, in una mattina gelida e solatia come quella odierna, ricevetti da un caro amico di una vita un SMS che - anche se in quel momento non potevo certo immaginarlo - avrebbe modificato profondamente la mia esistenza, determinando un'accelerazione della medesima che in fondo mi ha molto giovato, pur in mezzo a qualche tormento e dolore di troppo.
Mi fa piacere ricordarlo oggi, un po' anche per togliergli quel senso di colpa che temo da allora si porti un po' dietro nei miei confronti, pur se ho fatto di tutto perché si convincesse che non è così.
Le accelerazioni, del resto, sono sempre positive, specie per chi, come me, si trova in piena sintonia con l'affermazione di Ayrton Senna per cui "non esistono curve in cui non si possa superare". Io continuo a superare (metaforicamente) in curva e non ne sono in alcun modo pentito. Mai cercato rettilinei, e mai trovati, per la verità...
 
                     Piero Visani

martedì 26 novembre 2013

Dalle forze speciali agli eserciti privati


   La genesi delle forze speciali, quanto meno nell’accezione che viene attribuita al termine nel mondo attuale, risale al 1941, quando un ufficiale subalterno delle Scots Guards, David Stirling, si diede molto da fare per la creazione di un nucleo ristretto di specialisti in grado di svolgere da soli compiti di portata strategica, capaci di influenzare addirittura l’esito di una guerra. Nacque così il mitico Special Air Service (SAS), l’unità a tutt’oggi più famosa al mondo nel campo dei reparti speciali.

   La vera intuizione di Stirling era che piccoli nuclei di superprofessionisti potessero svolgere un ruolo di grande rilievo strategico, ben diverso ad esempio da quello dei commandos, incaricati di condurre incursioni tattiche dietro le linee nemiche. Nella sua visione, le forze speciali avrebbero dovuto costituire degli autentici “moltiplicatori di forza”, cioè consentire, con costi umani e materiali assai contenuti, di moltiplicare le capacità operative di un Paese.

   Fu soltanto dopo il 1945, tuttavia, che le forze speciali cominciarono ad assumere una fisionomia più precisa: negli anni della decolonizzazione e delle “guerre di liberazione nazionale”, molte delle quali egemonizzate dai comunisti, gli strateghi occidentali, alle prese con una società civile in cui, dopo l’immane massacro del secondo conflitto mondiale, sempre più netto si faceva (magari anche perché sapientemente alimentato da non proprio disinteressati teorici del pacifismo) il rifiuto della guerra, individuarono nelle special forces la soluzione ad una nutrita serie di problemi: quegli specialisti erano tutti volontari, largamente avulsi dalla società civile, per cui potevano operare nell’ombra e consentire di soddisfare il difficile ma agognato principio della guerra “a zero morti”. Ma soprattutto la loro disponibilità offriva ai governi occidentali una flessibilità operativa di cui non avrebbero mai potuto godere se avessero dovuto fare ricorso agli eserciti regolari di tipo tradizionale. Una flessibilità che era diventata una necessità assoluta man mano che il conflitto mutava natura e caratteristiche, acquisiva nuove valenze e richiedeva la presenza di nuovi protagonisti. La guerra perdeva le sue simmetrie e, nel rimescolamento di carte che ne seguiva, emergevano i “guerrieri nell’ombra”, gli shadow warriors capaci di gestire con successo qualsiasi asimmetria. Questa fu la funzione dei “berretti verdi” statunitensi nei primi anni dell’esperienza vietnamita: moltiplicatori della potenza americana grazie alla valorizzazione delle risorse filo-USA locali e protagonisti di un nuovo tipo di confronto asimmetrico con i guerriglieri comunisti. I successi riportati furono talmente elevati da suscitare l’invidia delle Forze Armate regolari, le quali pretesero ed ottennero dal potere politico che la guerra venisse riportata alle sue dimensioni tradizionali, con i risultati a tutti noti.

   Dopo la fine della guerra in Vietnam, le forze speciali hanno conosciuto una nuova stagione di successi con l’emergere, nel corso degli anni Settanta, della minaccia terroristica. La loro natura, infatti, era tale da renderle l’unico strumento concreto in mano ai governi occidentali per rispondere con successo a quella nuova dimensione della minaccia. Proprio in quegli anni, infatti, il conflitto viene definitivamente a perdere la sua caratteristica di scontro fra realtà statuali e si allarga a dimensioni nuove, che non possono essere gestite con il semplice ricorso agli eserciti di tipo tradizionale. Non c’è infatti una guerra tra Stati, tanto meno una dichiarazione di guerra; ci sono soltanto atti di aggressione, talvolta anche estremamente virulenti, di cui è difficile stabilire la provenienza e ancor più difficile attribuire la responsabilità. Su questo sfondo, gli eserciti servono a poco o nulla, a meno che non si determinino situazioni come quella della guerra del Golfo. Serve invece una capacità di reagire e di farlo con una flessibilità e una mancanza di controlli (e talvolta anche di scrupoli) che mettano nelle mani dei poteri statali uno strumento non meno flessibile di quello a disposizione dei terroristi.

   È in questa fase che gli shadow warriors vengono fatti precipitare deliberatamente nell’ombra, sia per sottrarli a qualunque forma di controllo politico sia perché diventano l’unico strumento a disposizione dei governi occidentali per poter insistere nel fare sì che la guerra rimanga “la continuazione della politica con altri mezzi”. In altri termini, alle forze speciali viene chiesto di sopperire, con la segretezza del loro agire, al deficit di legittimazione che la guerra ha subito nel mondo occidentale. È il momento in cui a questi superprofessionisti viene chiesto di fare il “lavoro sporco” per conto di governi che non rifuggono dal sporcarsi le mani, ma hanno paura di essere accusati di essere “politicamente scorretti”; e – sopra ogni altra cosa – temono il coinvolgimento in un conflitto aperto.

   Naturalmente, un impiego del genere è tutt’altro che esente da problemi e negative implicazioni: infatti, se la guerra deve essere estromessa dalla politica occidentale in quanto eticamente e culturalmente inaccettabile, ma poi, in nome della “ragion di Stato”, continua ad essere praticata di nascosto, è chiaro che si aprono spazi immensi per abusi e, soprattutto, che una parte consistente della vita politica viene sottratta a qualsiasi forma di controllo, con tutte le conseguenze del caso. È quello che è accaduto, per esempio, con l’impiego del SAS in Irlanda del Nord contro l’IRA, dove il potere esecutivo si è dato mano libera per una condotta delle operazioni non meno priva di scrupoli di quella dei suoi nemici, ciò che è risultato talvolta assai efficace in termini operativi, ma ha creato non pochi problemi in termini di credibilità e legittimità.

   La verità è che i governi occidentali hanno cercato di gestire il problema della crescente delegittimazione della guerra con una visione ispirata ad una Realpolitik molto miope: nessuna resistenza seria a livello culturale, per dimostrare alle proprie opinioni pubbliche interne, talvolta sapientemente eterodirette da maestri non disinteressati, l’innegabile persistenza della necessità (potenziale) del conflitto nella realtà contemporanea, ma un cedimento continuo accompagnato da una modesta opera di dissimulazione, consistente nell’affidare a ristretti nuclei di forze speciali il compito di fare in pratica quello che in teoria era negato. In questo modo, uscendo dalla dimensione del politico, il conflitto si è privatizzato, è diventato una faccenda per pochi: per i pochi che continuavano a combatterlo e per gli ancor meno chiamati a decidere se combatterlo o non. Il tutto al di fuori di qualsiasi controllo dei parlamenti e delle opinioni pubbliche, persi dietro alle contestazioni alle culture della guerra e della morte.

   Un’ulteriore asimmetria è stata così introdotta in una situazione già fortemente asimmetrica e si è in tal modo assistito ad una moltiplicazione di soggetti che hanno ulteriormente accentuato il fenomeno della “privatizzazione”. Come sul piano politico accanto ai soggetti tradizionali sono emerse nuove realtà, tipo le organizzazioni non governative (ONG), così su quello politico-militare sono venute a galla strutture di incerto profilo e ancor più dubbia legittimità, le società militari private, gli eserciti non governativi (ENG).

   Una deriva deplorevole, ma inevitabile, naturale conseguenza del rifiuto di conferire una qualche forma di accettabilità culturale alla guerra e all’impiego della forza per la soluzione di problemi politici. In effetti, se per un certo periodo questa azione di occultamento ha comportato l’assegnazione di certi compiti “sgradevoli” (non necessariamente “sporchi”) alle forze speciali, la nascita delle società militari private ha consentito di alleggerire ulteriormente il carico di responsabilità dei poteri statali, lasciando spazio all’iniziativa privata (che poi ovviamente tale non è per niente) anche in questo delicatissimo campo.

   È singolare come ai più sembri sfuggire la pericolosissima deriva insita in un fenomeno del genere che, trasferendo anche la guerra dalla dimensione pubblica a quella privata, non solo non allontana la prospettiva delle scontro armato, ma, al contrario, la rende sempre più immanente e possibile. In un contesto così artatamente creato, infatti, scompare la figura dell’hostis nell’accezione schmittiana di “nemico pubblico” e si apre la strada per la moltiplicazione degli inimici, i “nemici privati”, nemici non si sa di chi e di che cosa, i quali colpiscono, distruggono e uccidono non in nome di un qualche interesse o ideale, ma probabilmente per il solo gusto di farlo, per la sola gioia perversa di seminare intorno a sé morte e distruzione. E per lo stesso motivo vengono colpiti.

   Come ha scritto Philippe Chapleau nel volume Sociétés militaires privées. Enquête sur les soldats sans armées, è questa, molto più di tante altre di cui si parla più o meno a proposito, la vera Revolution In Military Affairs (RIMA) di questi anni: l’alienazione della funzione militare dal potere statale ad una moltitudine di soggetti privati che non hanno né titolarità né legittimità per gestirla. Una soluzione che è stata scelta per mettere le società occidentali al riparo non dalla guerra, ma dalle prevenzioni culturali nei suoi confronti, e che rischia di avere come unica conseguenza il moltiplicarsi delle minacce e dell’incapacità di gestirle; che delega scientemente a privati compiti e funzioni che non sono e non possono essere altro che rigorosamente pubblici. Non sarebbe la prima volta che, al fine di esorcizzare una minaccia ritenuta mortale, se ne evoca un’altra infinitamente peggiore: la privatizzazione della gestione dell’impiego della forza apre la strada ad una guerra per bande di portata planetaria, destinata a far rimpiangere amaramente i conflitti di tipo tradizionale.

                                                                      Piero Visani

lunedì 25 novembre 2013

Prendi l'arte... e non metterla da parte...

       Ci sono momenti, nella vita di ognuno, in cui la brutta prosa che ti circonda raggiunge livelli tali da spegnere il tuo desiderio di poesia. Quel desiderio che senti da sempre, che ti porti dentro, come un fedelissimo compagno, al quale non vorresti mai rinunciare. E tuttavia gli amanti della prosa, della più prosaica e vile delle prose, sono talmente tanti, a questo mondo, da indurti spesso a rinunciare al tuo desiderio di poesia, ai sogni, alle speranze, agli slanci; a tutto ciò, in una parola, che rende bella la vita.
       Continue sono le esortazioni al realismo, alla praticità, al rifiuto di qualsiasi forma di romanticismo, ad essere concreto, non idealista o sognatore.
       Posso capirlo, a livello di esistenza pratica, esteriore, poiché il vivere quotidiano ha le sue esigenze, dette non a caso esigenze "prosaiche"...
       Lo capisco molto meno, invece, per quanto concerne le dinamiche interiori, perché, senza uno spirito che mi alimenti, chi e che sarei io? Che cosa farei se la mia vita fosse ridotta a una semplice sequela di giorni lavorativi e di weekend, di tempo di lavoro e tempo libero?
       Io devo essere libero sempre e, anche se per il mio sostentamento svolgo dei lavori, anzi svariati lavori, per me la vita è arte e su di essa intervengo, se non propriamente come artista, visto che quasi certamente non ne ho la stoffa, quanto meno come umile artigiano. Facitore, se non proprio creatore di me medesimo, mi dedico quotidianamente, almeno in parte, a ciò che mi piace, lo coltivo come un fiore e da questo coacervo di emozioni positive traggo linfa vitale.
       Non so se la vita sia sogno, ma per me è certamente creazione, creazione continua. Io scrivo, in prevalenza, e le mie parole disegnano me, come sono e vorrei essere; rappresentano gli altri, come io li percepisco; sono piccole bottiglie di naufrago che io lancio nell'universo, nella sempiterna speranza che qualcuno, su qualche spiaggia - vicina o remato - le raccolga e sia  quindi possibile avviare un dialogo, intenso, profondo, olistico, vero.
       Ho cumulato, seguendo tale stile di vita, atroci delusioni, ma anche profonde soddisfazioni, e non lo cambierei per nessuna cosa al mondo. Ho avuto incontri, conosciuto persone, intrattenuto relazioni: tutti mi hanno dato o anche tolto qualcosa, ma di nulla sono pentito. Ho sperimentato, ho sofferto, ho gioito, ho vissuto. Ho creato me e la mia vita. Qualcuno l'ha capito, molti altri no, ma è un risultato che davo scontato fin dall'inizio, credo. Costantemente alla ricerca del Sublime, come sono, non potevo pensare e tanto meno sperare che tutti lo amassero quanto lo amo io. Ma sono diventato ciò che volevo essere, e questo mi conforta. E, tra i tanti che mi hanno deluso, disprezzato, deriso, qualcuno mi ha pure compreso, e quella è forse la fortuna più grande.
 
                              Piero Visani

sabato 23 novembre 2013

Intero o ridotto?

       Da ragazzino, ad Aosta, andavo spesso al cinema in compagnia di mio zio Walter. Forse perché piacevano a lui o forse perché - in quanto uomo profondamente buono - sapeva che piacevano a me, mi portava sempre a vedere film di guerra, di cui credo di essermi fatto, con somma soddisfazione, una profonda cultura.
      All'epoca, il biglietto intero o ridotto si misurava in genere in relazione all'altezza del minore rispetto al banco della biglietteria, per cui, quando cominciai a essere un po' più grandicello, le cassiere presero a declinare la litania: "Intero o ridotto?". Per statura, infatti, superavo il limite, ma il mio aspetto infantile lasciava trasparire il fatto che tanto adulto non ero. E ricordo la mia insoddisfazione di fondo quando mio zio diceva: "ridotto, ha solo x anni".
      La cosa mi è rimasta nella mente, me l'ha consumata come un tarlo, ha segnato un aspetto della mia vita. Anche oggi, che ovviamente non mi chiedono più - e non al cinema, è ovvio - "intero o ridotto?", ma non fanno altro che propormi direttamente il "ridotto", lo rifiuto di brutto ed esco dal cinema (metaforico...) in cui mi si vorrebbe far entrare in forma residuale. Ma io odio la residualità. Piuttosto - per restare in metafora - vedo molti meno film... E poi, diciamola tutta, che gusto ci sarebbe a vederli in edizione ridotta...? O tutto, o niente! Come sempre, più di sempre.
 
                                               Piero Visani

Jeux... pas interdits

       Sull'orlo della notte.
       In dreams.
       La dimensione onirica lynchiana mi è molto propria. La sento affine. Quel continuo passare da realtà a sogno, e viceversa; quella realtà connotata e ad un tempo trasfigurata da canzoni che si attagliano alla vicenda e talvolta la illustrano (dire la spiegano sarebbe troppo...), talaltra ne accentuano la dimensione metareale, è assai simile al mio modo di vivere.
       Anch'io credo all'esistenza di continue contaminazioni tra dimensioni diverse e mi muovo al loro interno come un pathfinder, seguendo percorsi in parte noti, in parte ignoti, ma tutti a me cari, ancora più cari se arditi, arguti, ambigui, accattivanti, audaci.
       E' una sorta di autismo, il mio, ma non autoreferenziale, bensì aperto, volutamente condiviso. Ne offro la partecipazione a chi voglia ACCOMPAGNARMI, mai SEGUIRMI.
       Come ho scritto in svariate occasioni, mi ritengo un maieuta e come tale mi comporto: individuo soggetti adatti, li invito ad estrarre da sé quello che io ritengo il loro meglio, e a viverlo insieme a me, per percorsi di lunghezza e durata ad libitum, non certo decisa da me.
       Non ci sono giochi proibiti. Sono tutti liberamente decisi e, nel momento in cui si praticano, li si fa insieme. Questa affermazione non ha una connotazione prevalentemente sessuale: l'ironia, ad esempio, è un jeu interdit, se la controparte del momento non ne possiede. E così dicasi per qualsiasi altra pratica: l'audacia, la curiosità, il dialogo, l'ambiguità, ovviamente anche la sessualità.
        Quello che conta davvero è il gioco, perché l'homo è ludens o non è, perché la vita è sogno e dunque anche pratica ludica. Esattamente come fanno i bambini, che non individuano alcuna differenza tra sogno e realtà, che lasciano libero corso - sempre e comunque - alla vivida immaginazione di cui sono naturalmente dotati.
       Sto parlando di un'esistenza di confine, che corre lungo i limiti segnati da quel confine, incontra diversi "posti di frontiera", ciascuno contrassegnato da un nome virtuoso - continenza, virtù, amore sacro e non profano, accettazione del noto, rifiuto dell'ignoto, accontentarsi del poco e via vaneggiando - e decide di violarli tutti, puntando decisa beyond the borderline. Un'esistenza che vuole sempre collocarsi North or South of the border, a seconda da che parte lo si guardi...
       Chi accetta di accompagnarsi con me conosce questi percorsi o accetta di vederseli dischiudere da me. La mia offerta è diversificata, così come le risposte che ricevo: a volte si parte e non ci si ferma più, a volte ci si ferma dopo tratti più o meno lunghi. Io proseguo sempre, anche se rimango da solo per vari tratti. Come nei film, il soggetto è importante, la sceneggiatura pure, ma quello che dà un'impronta alla storia sono la regia e i protagonisti. Ne ho trovati molti, non all'altezza, o loro non hanno trovato all'altezza me, oppure sono fuggiti spaventati. Tuttavia - per rimanere in metafora - non per questo ho deciso di abbandonare la cinematografia. E' una festa mobile, si tratta semplicemente di riallestirla, and the stars - sooner or later - will look down...
 
                       Piero Visani

giovedì 21 novembre 2013

Revigliasco's White Blues


Nevica misto a pioggia su casa mia, ma più in alto sulla collina torinese nevica e basta. Notizie di cognato, sorella e figlio in difficoltà per tornare a casa, nel mezzo di un traffico impazzito e strade bloccate. Io sono nel mio studio a lavorare e scrivere, come d'abitudine, "e guardo il mondo da un oblò, mi annoio un po'", con sempre più netta la sensazione di essere ormai un entomologo umano... Non privo di voglia di vivere, anzi, ma distante, distaccato. Ho esaurito la mia voglia di soffrire, non quella di gioire. E mi ingegno quotidianamente per soddisfarla...



Piero Visani


Vorrei

Vorrei un giorno non sentire più parlare (troppo) di facili solidarietà ex post e di grande prevenzione ex ante. Sono vecchio, e probabilmente morirò prima, ma veder riproporre per l'ennesima volta la solita sceneggiata, senza che venga fatto un assoluto nulla per prevenirla, è francamente intollerabile. Nonché italicamente ipocrita. Solidali di fronte a ciò che si sarebbe potuto, E DOVUTO, evitare. Boh...
                                            Piero Visani

Metapolitica

A mio sommesso parere, è da metapolitiche DIVERSE che possono scaturire, un giorno, politiche DIVERSE. Ma, se l'universo di valori in cui ci muoviamo è quello STABILITO DA ALTRI, e noi ci cadiamo dentro come pere cotte, in che cosa potremo mai sperare? Peggio, se ci nutriamo di pseudo-valori fissati da altri, se a loro viene costantemente deputato l' "agenda setting" dei nostri pensieri e delle relative priorità, cosa cambieremo mai???
Qualcuno è ancora in grado di capirlo...?
 
Piero Visani

mercoledì 20 novembre 2013

La guerra asimmetrica


   Ci sono termini che godono di insolita fortuna e che connotano lunghe fasi della vita sociale. Il loro successo è talmente grande che diventano etichette, che si applicano a qualsiasi cosa, spesso in maniera alquanto impropria. Tutti li impiegano, anche se pochi – se adeguatamente interrogati – saprebbero spiegarne l’esatto significato.

   In campo strategico, la parola d’ordine di questi anni difficili è “guerra asimmetrica”, definizione che viene applicata con grande disinvoltura a qualsiasi forma di conflitto contemporaneo, quasi che sia impossibile sentirsi à la page senza farvi riferimento. I problemi nascono quando si tratta di precisarne i contenuti e in Italia – si sa – non è che esista una conoscenza strategica diffusa.

   Sotto il profilo strettamente dottrinale, le prime enunciazioni in materia, di provenienza statunitense, risalgono al 1993 e trovano formalizzazione due anni dopo, nel 1995, ma è solo nel 1999, con la pubblicazione in Cina del volume Guerra senza limiti, dei colonnelli Qiao Liang e Wang Xiangsui, che il concetto comincia ad affermarsi con crescente successo in ambito internazionale.

   Da parte americana, la riflessione sulla “guerra asimmetrica” era quella tipica di una superpotenza che, nonostante il gigantismo e lo strapotere del proprio strumento militare, si vedeva quasi sempre costretta a combattere, dopo la fine della “Guerra fredda”, in scenari difficili e in cui il nemico, nonostante la sua apparente debolezza, era in grado di infliggerle perdite molto pesanti, spesso insostenibili a livello di opinione pubblica interna (si pensi alla vicenda di Mogadiscio del 3 ottobre 1993, così ben raffigurata nel libro Falco Nero di Mark Bowden e, con qualche concessione allo spettacolo, nel film Black Hawk Down di Ridley Scott). Dunque una riflessione in negativo, del tutto opposta a quella dei colonnelli cinesi testé citati, i quali erano invece comprensibilmente alla ricerca di come sciogliere il nodo di combattere una guerra in condizioni di palese inferiorità tecnologica (in una parola: la posizione della Cina di fronte agli Stati Uniti). Comune era però la conclusione raggiunta: in una guerra condotta contro una forza superiore, la chiave di volta di tutto sta nel come modificare l’equilibrio tra superiore e inferiore a vantaggio di quest’ultimo.

   Sottoposta a successivi affinamenti, l’espressione “guerra asimmetrica” designa oggi una forma di conflitto in cui il contendente più “debole” induce quello più “forte” ad una reazione che trasforma i successi militari tattici di quest’ultimo in una disfatta politica a livello strategico. Non a caso l’esperto militare francese Jacques Baud ha intitolato il suo libro sul tema La guerre asymétrique ou la défaite du vainqueur. E, per rendere più chiara la propria affermazione per cui la guerra asimmetrica corrisponda alla “disfatta del vincitore”, ha addotto un esempio difficilmente confutabile: come la guerra scatenata dagli USA contro il terrorismo internazionale sia efficace essenzialmente contro i terroristi che vengono colpiti in prima persona, ma tutt’altro che tale contro il fenomeno terroristico latamente inteso e contro i fattori che servono a legittimarlo agli occhi di almeno una parte dell’opinione pubblica mondiale.

   Molti problemi derivano dal fatto che il mondo occidentale, mentre è pienamente consapevole di essere immerso in una realtà dinamica, dominata da continui cambiamenti, è restio, certamente anche per ragioni di carattere culturale, ad attribuire un dinamismo del genere pure alla guerra. L’auspicio diffuso sarebbe quello di non doverne più sentire parlare, ma questo è purtroppo soltanto un wishful thinking, non un dato di fatto. A questa visione eccessivamente ottimistica ha dato un potente contributo, prima dell’11 settembre 2001, la consapevolezza che l’Occidente era uscito vincitore dal lungo contrasto con il blocco sovietico e dunque legittimato a guardare all’intero pianeta come ad una realtà da plasmare a propria immagine e somiglianza. Per sua sfortuna, tale desiderio è stato fatto proprio anche da quanti, nel Terzo Mondo, avevano dovuto subire passivamente il conflitto Est-Ovest e consideravano la sua fine come una straordinaria opportunità per rimettere in moto quella che molti occidentali, per dirla con Francis Fukuyama, consideravano invece la “fine della Storia”.

   Nel mondo globalizzato, nel mondo trasformato e trasfigurato dall’avvento delle tecnologie dell’informazione, nel mondo in cui – come ha giustamente fatto notare Manuel Castells – l’economia si è caratterizzata per il rapido passaggio da un’organizzazione basata sullo “spazio dei luoghi” ad una incentrata sullo “spazio dei flussi”, per quale ragione la guerra avrebbe dovuto rimanere un fenomeno di tipo statico e tradizionale? Certo non perché ciò faceva comodo alla visione quantitativa e tecnologica tipica delle classi dirigenti politico-militari occidentali. È vero che, per un breve periodo, la vittoria nella “Guerra fredda” ha pagato i suoi dividendi, determinando una certa eclissi degli strumenti e soprattutto una marcata riduzione delle organizzazioni militari occidentali, ma, a questo proposito, un certo numero di “anime belle” ha sperato invano che la scomparsa dell’organo potesse determinare anche l’annullamento della funzione. Non è stato così e l’attacco alle “Torri gemelle” di New York ha rappresentato un brusco risveglio. Non – come generalmente si crede – semplicemente perché ha dimostrato la potenza della galassia terroristica e degli indicibili segreti che le stanno dietro, ma soprattutto perché ha rivelato che la guerra del nuovo millennio è un fenomeno nuovo, terribilmente articolato e complesso, al cui interno si inseriscono logiche, principi e fattori altrettanto nuovi, un tempo del tutto estranei alla dimensione polemologica.

   Da qualunque punto di vista le si guardi, le grandi capacità del terrorismo contemporaneo dimostrano che è possibile, con mezzi limitati e talvolta limitatissimi, condurre una guerra illimitata ed estremamente ambiziosa nei suoi obiettivi di fondo; una guerra dove non contano più i semplici rapporti di forza, ma la capacità di colpire, la flessibilità operativa, l’adattamento a situazioni sempre nuove e mutevoli, una diversa visione della violenza e soprattutto della morte. Nelle società occidentali, ad esempio, la guerra è diventata oggetto della massima ostilità da parte della cultura dominante, al punto di essere oggetto di vere e proprie campagne di demonizzazione. Non così, per contro, è avvenuto per la violenza, che è assai meno ostracizzata sotto il profilo culturale e che è divenuta una componente consustanziale delle nostre vite. Si tratta però di una violenza il più delle volte solo rappresentata, asettica, una forma di esorcismo che quasi mai risulta abbinata alla morte (quanto meno alla realtà e non alla rappresentazione della morte) perché quest’ultima rappresenta oggi, nelle società occidentali, il massimo della negatività e, al tempo stesso, il supremo fattore di paura. Un “altro da sé” indicibile, da esorcizzare a qualsiasi costo. Ma questa visione della morte – se ne parla ahinoi troppo poco! – rende incomprensibili le visioni che vengono nutrite in altre società, dove la morte è considerata una componente della vita, che esprime una continuità e non una rottura. La morte come sacrificio consapevole, ad esempio, è assolutamente legittima nella totalità delle società non occidentali, mentre da noi non lo è in quanto fa venir meno non tanto il principio della sacralità dell’esistenza (che vale per tutti) quanto quello – assai più discutibile – della mercificazione della stessa.

   Su uno sfondo del genere, i conflitti simmetrici, vale a dire quelli che opponevano avversari che si muovevano in base ad una logica analoga e ad una razionalità condivisa, sono un retaggio del passato e hanno inevitabilmente lasciato il posto ai conflitti asimmetrici, che mettono di fronte avversari le cui logiche di guerra risultano profondamente diverse. Nel conflitto di tipo classico, la vittoria militare era il presupposto indispensabile per il successo politico; nel conflitto asimmetrico, è vero il contrario: lo scontro ha luogo a livello politico e sociale, solo marginalmente a quello militare. Si può benissimo perdere a quest’ultimo, se si appartiene al contendente più “debole”, e vincere agli altri due. Il che è perfettamente comprensibile se si tiene conto del fatto che è la logica della guerra ad essere del tutto cambiata, che la dimensione bellica non è più privilegio delle organizzazioni statali e che tutto si svolge a livelli dove si mischiano violenza organizzata, violenza della società e violenza dei singoli individui. Dove la parcellizzazione e al tempo stesso la personalizzazione del conflitto conferiscono dimensioni nuove, ancora tutte da studiare, di cui sappiamo poco e capiamo meno.

   Se proprio volessimo fare una riflessione non polemologica, ma polemica, sulla natura della guerra asimmetrica, dovremmo ammettere che essa ci obbliga a mutare il nostro atteggiamento nei confronti del conflitto. Nell’epoca dei grandi Stati nazionali, quest’ultimo si svolgeva a livello di organizzazioni statali, dove si sviluppava e si esauriva. La pace, quando si riusciva a stabilirla, era realmente definibile come tale. Oggi non è più così e – paradossalmente – questo sviluppo inquietante ha luogo proprio nel momento in cui, nel nostro mondo, le parole d’ordine della cultura dominante sono ispirate ad un pacifismo totalmente privo di senso, se non in sé, certo nella realtà storica in cui si manifesta. Come ha scritto un militare-intellettuale acuto e illuminato, che ama parlar chiaro, il generale Fabio Mini, oggi «pochi al mondo sono consapevoli di vivere da prede», non foss’altro perché gli è stato insegnato – sulla base di un infondato ottimismo – qualcosa di profondamente diverso. Per vivere il tempo della guerra asimmetrica, forse non ci serve trasformarci in predatori, ma almeno acquisire questa fondamentale consapevolezza, e trarne le debite conseguenze.

                                       Piero Visani

martedì 19 novembre 2013

Rainy Days

    Non c'è nulla che mi tenga più compagnia della pioggia. Molti trasecoleranno nel leggere questa affermazione, ma per me è così, fin da bambino. Mi sono sempre sentito solo, più solo, nelle giornate di sole. La pioggia invece mi avvolge, è una compagna accogliente, calda e confortevole, che mi si tuffa addosso, mi abbraccia, mi stringe, mi sorride, mi bagna con quel suo tripudio d'acqua e forse ha su di me un effetto lustrale, purificatore.
       I colori delle cose si trasfigurano, tutto tende a impallidire, a imbigirsi, ma quel trionfo di grigi per me è vita, forse perché sono gli stessi colori che abitano nel mio animo e la consonanza cromatica che si crea mi riempie di intima soddisfazione, mi fa sentire parte di qualcosa.
      Anche i suoni si modificano, poiché si crea un rumore di fondo simile a uno sciabordio, specie se la pioggia che cade è tanta, e quel sottofondo mi è chiaro, perché attutisce il resto, smorza molti altri suoni, specie quelli meno gradevoli.
       La pioggia e io siamo amici da decenni. Amici intimi, se posso dire così. Lei conosce molti miei segreti, io amo lei. Un amore non corrisposto, credo, visto che spesso si fa attendere parecchio, prima di venirmi a trovare, ma a me è capitato spesso di amare unilateralmente e dunque amo la pioggia senza chiedermi perché, come ho fatto in tante altre circostanze.
      La bellezza vera della pioggia è che è intima: induce alla riflessione, al ripiegamento su se stessi, inquisitivo, speculativo. Anche se esci, e io adoro camminare sotto la pioggia, anche per ore, sei indotto a riflettere, ad analizzare, a speculare, a vivisezionarti. Le cose, mentre lo fai, ti appaiono più belle, meno aride, più umide, mentre i cromatismi mutano, diventano come seppiature sparse a profusione su luoghi e persone generalmente diverse, e le trasfigurano, a mio giudizio in meglio.
        Torino - dove risiedo - è molto bella, sotto la pioggia, poiché quest'ultima accentua la sua natura fuori dal tempo, specie nel centro storico. Ricordo una sera di una quindicina di anni fa, intorno alle 19, sempre in novembre. Per ragioni che ignoro la città, in alcune vie laterali del centro si era come svuotata e io le percorrevo a piedi, sotto la pioggia. Mi pioveva sull'anima, quell'acqua, nonostante impermeabile e ombrello, e ne apprezzavo la capacità di lustrarmela, mentre respiravo un'atmosfera assolutamente senza tempo. Non passavano auto e neppure esseri umani. Il silenzio era irreale. La bellezza totale, assoluta. Solo, fuori dal tempo, avrei potuto essere in qualsiasi tempo, autentico time traveller quale sempre ho ambito essere. Una delle sensazioni più forti della mia vita, in termini di mio rapporto con l'ambiente.
       Mi sono sentito in compagnia di qualcosa, di qualcuno, anche se ero solo. La pioggia, accogliendomi in sé, aveva fatto il miracolo... Forse è per questo che la amo tanto: perché mi accoglie, non mi respinge.

                 Piero Visani

lunedì 18 novembre 2013

Una vecchia recensione


   Fa sempre piacere leggere libri, specie se pubblicati di recente (quanto meno in lingua italiana), dove le vicende storiche sono affrontate senza retropensieri politici di alcun genere e dove tutte le ipotesi vengono vagliate, senza escluderne alcuna, per ricomporre un quadro da cui – trattandosi di storia militare – emerga unicamente la valentia tecnica dei protagonisti. È quanto accade immergendosi nelle pagine de Il principe nero. Junio Valerio Borghese e la X Mas (Mondadori 2007), scritto da due esperti di guerra navale come Jack Greene e Alessandro Massignani.

   Certo, per noi italiani, passati attraverso una dilacerante guerra civile, il solo accenno a certi nomi fa ancora scattare reazioni pavloviane che peraltro, ad oltre un sessantennio di distanza, appaiono sempre meno motivabili. E queste reazioni, intrise di passione politica, fanno dimenticare il dato che oggi dovrebbe invece emergere con forza: la nostra tradizione militare, per quanto criticatissima, non è priva di figure di altissimo livello (non solo il comandante Borghese, ma uomini come Teseo Tesei, Luigi Durand de la Penne, Gino Birindelli, Elios Toschi, per non citarne che alcuni), capaci di illuminare, con le loro imprese, anche un’esperienza militarmente funesta come la partecipazione al secondo conflitto mondiale.

   Dalle pagine del libro emergono verità già note, ma mai adeguatamente pubblicizzate: siamo un popolo privo di una reale tradizione militare, ma non certo privo di fulgide figure di combattenti. L’istituzione militare, al pari di un po’ tutte quelle dello Stato unitario, è stata spesso molto più un simulacro che una realtà, dando ricorrenti prove di incompetenza, misoneismo, scarso professionismo e autentica incapacità tecnica. Di conseguenza, le nostre virtù guerriere – che non mancano – hanno dovuto venire a galla superando l’azione di filtro esercitata da una casta professionale dove - come ha giustamente notato Domenico Quirico in Generali – la crescita esponenziale delle fasce addominali pareva rappresentare il requisito primo da soddisfare per gli ufficiai desiderosi di giungere ai vertici della gerarchia militare.

   Così, è normale che siamo un popolo adatto soprattutto alle forze speciali: le Forze Armate regolari sono state sempre paralizzate dal burocratismo tipico di ogni istituzione nazionale, mentre nei corpi d’élite ha potuto rifulgere l’individualismo di un popolo dove un pugno di singoli spesso cerca di sopperire da solo alle macroscopiche carenze delle istituzioni tradizionali, e talvolta ci riesce. Come tali, siamo di fatto gli inventori di una forma peculiare di guerra asimmetrica, quella in cui i combattenti non sono soltanto obbligati a sopperire alle carenze nei riguardi del nemico, spesso frutto di una marcata disparità di forze, ma anche e soprattutto a quelle derivanti dalle incredibili deficienze di strutture votate al vuoto formalismo e non alla sostanza che, quando messe alla prova, combattono di fatto dalla parte dell’avversario.

   Questo è il grande merito del libro di Greene e Massignani, non a caso concepito e scritto per un pubblico di lingua inglese: sottolineare ciò che in realtà in Italia tutti dovrebbero sapere, ma che invece è sempre stato tenuto accuratamente nascosto per evitare che venissero fuori le non esaltanti verità che vi stanno dietro: pur possedendo una flotta tra le prime al mondo, il ruolo della Marina italiana nel secondo conflitto mondiale fu assai inferiore al suo reale potenziale. Il suo prestigio – e quello della Nazione – venne tenuto in piedi dalle capacità e dallo spirito di sacrificio dei singoli e di alcune unità di eccellenza come la Decima Flottiglia Mas. È sufficiente, per dare corpo a questa affermazione, leggere i commenti ammirati di parte britannica di fronte alla magistrale incursione del 19 dicembre 1941 nel porto di Alessandria d’Egitto, che portò all’affondamento delle corazzate inglesi Queen Elisabeth e Valiant: «Tutti noi pensavamo che la marina italiana fosse incapace, inefficiente, perfino vigliacca» - ebbe a scrivere il guardiamarina Frank Wade, in servizio sulla prima delle due corazzate - «tuttavia, ben presto dovremmo ricrederci e riconoscere l’eroismo e l’ingegnosità dei suoi uomini». Lo stesso Winston Churchill dovette ammettere, sia pure a denti stretti, che gli inglesi non sembravano al momento capaci di condurre un’azione di quel livello.

   La soluzione utilizzata dalla X Mas, in realtà, era quella classica del moltiplicatore di forza affidato al valore di pochi: essendo evidente l’inferiorità italiana sul mare di fronte alla potenza della Royal Navy, alla sua superiore tecnologia, alle sue portaerei, alla sua professionalità e alle sue capacità di intelligence, alle carenze strutturali si poteva comunque tentare di sopperire – con successo – spostando la conflittualità ad altri livelli, creando asimmetrie di natura diversa da quelle tradizionalmente esistenti e sfruttandole a proprio vantaggio. In questa logica, era addirittura formidabile per modernità e intuito l’idea di Borghese di condurre un attacco contro New York, nel corretto convincimento che un’operazione del genere avrebbe rappresentato una grande vittoria morale, in quanto avrebbe scosso la fiducia degli Stati Uniti nella propria invulnerabilità.

   È un peccato e anche un’autentica iattura che fattori di grande rilievo come quelli testé citati abbiano dovuto cedere il passo di fronte a considerazioni di carattere politico, per quanto non incomprensibili nella storia italiana successiva. Tuttavia, se mai questo Paese vorrà affacciarsi all’edificazione di una memoria condivisa, difficilmente nella costruzione della medesima potranno mancare tutti coloro che hanno tenuto alto il nome dell’Italia in uno dei momenti più difficili della sua storia e hanno saputo meritarsi il rispetto dei nemici di un tempo. Si tratta di un’autentica boccata di ossigeno di fronte al compiaciuto autolesionismo dell’apologia del “tutti a casa!”, che è quanto di più negativo possa esistere per una Nazione che non voglia votarsi in eterno ad una condizione servile ed all’esaltazione del peggio e non del meglio di sé. La società italiana ha un disperato bisogno di valori ed esempi positivi, e anche se molti – paralizzati dal pregiudizio ideologico - non sono tuttora disposti ad ammettere che i valori militari possano essere considerati di tipo positivo, è sufficiente riflettere su ciò che ebbe a scrivere una figura di straordinaria intensità come Teseo Tesei, anch’egli incursore della Marina, prima della sua ultima missione: «L’esito della missione non ha molta importanza… e neanche l’esito della guerra. Quello che veramente conta è che vi siano uomini disposti a morire nel tentativo e che realmente muoiano: perché è dal sacrificio nostro che le successive generazioni trarranno l’esempio e la forza per vincere». Se la si estrapola dal suo contesto inevitabilmente bellico, questa frase esprime un sentimento di continuità commovente, che ci fa ricordare che beati sono solo i popoli che hanno bisogno di eroi, non gli altri. I cialtroni ed i vigliacchi, infatti, li hanno tutti.

                                                       Piero Visani

 

domenica 17 novembre 2013

15 Agosto 1945 - Dalla storia alla memoria



Nel pomeriggio del 15 agosto 1945, quando già l'imperatore Hirohito aveva annunciato la decisione di arrendersi, un certo numero di piloti "da attacco speciale", i celeberrimi kamikaze, decise di andare a compiere il proprio ultimo volo. Non erano obbligati a farlo, ma così imponeva loro l'etica guerriera, il "Bushido".
Credo sia importante, a 68 anni di distanza, ricordare un gesto di così suprema, assoluta nobiltà e gratuità. Naturalmente, tutti i fautori della cultura utilitaristica, quotidianamente impegnati con i loro conticini da ragionieri, ci gratificheranno con le loro considerazioni "intelligenti", del tipo "ma chi glielo faceva fare, la guerra era perduta?"
Purtroppo per loro, e fortunatamente per gli autori del nobilissimo gesto, occorrono gesti non da ragionieri per passare dalla Storia alla Memoria, e, se si possono perdere le guerre, la Dignità e l'Onore non si devono perdere mai. Tra l'altro, se non li si perde, li si deposita nella Memoria, dove fermenteranno, germoglieranno e alla fine rivivranno e rifulgeranno di nuovo.
Da uomini più piccoli di loro, ricordiamo con rispetto e venerazione questi uomini infinitamente grandi, che con il loro sacrificio ci hanno insegnato ad essere ciò che siamo e ogni giorno ci indicano la via da seguire, la via dell'Onore.
 

             Piero Visani




Mon Pays me fait mal

MON PAYS ME FAIT MAL

Mi sono imbevuto di cultura nazionalista a partire dai miei 14 anni, una vita fa. Oggi credo che mi definirei apolide. Che cosa è successo? E' successo a me quello che credo sia successo a Robert Brasillach, l'autore di questi versi. Lui è morto, per la Francia. Io vorrei solo fuggire, dall'Italia e da questa Europa di servi e venduti.
 
 
Piero Visani


Mon pays m'a fait mal par ses routes trop pleines,
Par ses enfants jetés sous les aigles de sang,
Par ses soldats tirant dans les déroutes vaines,
Et par le ciel de juin sous le soleil brûlant.

Mon pays m'a fait mal sous les sombres années,
Par les serments jurés que l'on ne tenait pas,
Par son harassement et par sa destinée,
Et par les lourds fardeaux qui pesaient sur ses pas.

Mon pays m'a fait mal par tous ses doubles jeux,
Par l'océan ouvert aux noirs vaisseaux chargés,
Par ses marins tombés pour apaiser les dieux,
Par ses liens tranchés d'un ciseau trop léger.

Mon pays m'a fait mal par tous ses exilés,
Par ses cachots trop pleins, par ses enfants perdus,
Ses prisonniers parqués entre les barbelés,
Et tous ceux qui sont loin et qu'on ne connaît plus.

Mon pays m'a fait mal par ses villes en flammes,
Mal sous ses ennemis et mal sous ses alliés,
Mon pays m'a fait mal dans son corps et son âme,
Sous les carcans de fer dont il était lié.

Mon pays m'a fait mal par toute sa jeunesse
Sous des draps étrangers jetée aux quatre vents,
Perdant son jeune sang pour tenir les promesses
Dont ceux qui les faisaient restaient insouciants,

Mon pays m'a fait mal par ses fosses creusées
Par ses fusils levés à l'épaule des frères,
Et par ceux qui comptaient dans leurs mains méprisées
Le prix des reniements au plus juste salaire.

Mon pays m'a fait mal par ses fables d'esclave,
Par ses bourreaux d'hier et par ceux d'aujourd'hui,
Mon pays m'a fait mal par le sang qui le lave,
Mon pays me fait mal. Quand sera-t-il guéri ?

sabato 16 novembre 2013

Sovrarappresentazione



Trovo un pochino eccessivo l'entusiasmo che si è acceso per il comportamento di gran parte degli astanti in occasione del comizio di Epifani a Matera. E' vero che di fatto non ha potuto parlare e che quanto ha detto si è sentito poco e male (ma in verità, anche se si fosse sentito bene, avremmo forse perso qualcosa...?), ma non credo si possano scambiare le contestazioni civili con gli assalti al palco. In un Paese in cui la casta controlla numerose e ben pasciute clientele, che la votano in termini di "voto di scambio", le contestazioni "civili" le fanno tanto male quanto una puntura di spillo. E i consensi arriveranno anche stavolta, magari ridotti, ma mai abbastanza.
Se qualcuno conosce un regime che sia caduto da solo, o per un insieme di contestazioni civili, sarò lieto di essere smentito...
                           Piero Visani
 

Heautontimoroumenos



Sollecitato a leggere - suppongo non a caso, visto che il titolo, in greco antico, significa "il punitore di se stesso"... - questa famosa commedia di Publio Terenzio Afro, rielaborata sulla falsariga dell'omonima commedia di Menandro, trovo, nella scena 1, Atto 1, una frase che mi colpisce nel profondo: "Sono uomo; e di quello che è umano nulla io trovo che mi sia estraneo". Ecco, appunto... Fine della lettura. Che senso avrebbe, infatti, andare avanti? Più chiaro di così... E' quello che ho sempre cercato di fare, io...
Piero Visani

I gesti che amo


Sono un grande appassionato di Irlanda, di storia irlandese, di lotta per l'indipendenza irlandese. E amo l'anima celtica, che è totalmente priva di senso dell'utilità e dell'opportunismo. Uno dei più bei gesti tipici dell'anima irlandese, che adora le provocazioni e le sfide, anche quelle fini a se stesse, fu la visita che il presidente irlandese, Eamon De Valera, rese alla legazione tedesca a Dublino il 3 maggio 1945 (leggete bene la data, il 3 maggio 1945!!), per presentare le condoglianze sue e della Repubblica in occasione della morte di Adolf Hitler.
Non guardate ai nomi o alle persone, andreste totalmente fuori strada: guardate al coraggio, oltre i limiti dell'incoscienza, e al gusto della provocazione - totale, assoluto, fantasticamente folle - visto che mancavano cinque giorni alla fine della guerra in Europa... E sappiamo bene chi aveva vinto.
Al buon WC (Winston Churchill) prese un attacco di bile e pronunciò al Parlamento inglese un celebre discorso di deplorazione.
Ma il gesto di De Valera è rimasto nella storia ed è un gesto fantasticamente bello: riassume, in una sintesi perfetta, l'anima di tutto un popolo. Un popolo che amo dal profondo, perché ama le stesse sfide che amo io: "against all odds".



                              Piero Visani