martedì 5 novembre 2013

Storia della guerra - 20: Declino e caduta dell'impero napoleonico


Quando ebbe inizio il declino dell’impero napoleonico? Questo interrogativo assilla da tempo immemorabile gli storici, ma, formulata in questi termini, la domanda è mal posta, poiché, per definire un “quando”, occorre stabilire in via preliminare un “perché” e un “come”. Sulle ragioni, ci siamo già soffermati nella puntata precedente: con il passare del tempo, forse per ragioni anagrafiche e per il logorio imputabile ai ritmi di vita stressanti cui si sottoponeva l’imperatore, forse perché la qualità della “Grande Armée” si stava deteriorando a causa delle continue guerre, forse perché i soldati e soprattutto i comandanti erano stanchi di passare da un conflitto all’altro, il sistema di guerra napoleonico perse le caratteristiche di estrema flessibilità che lo avevano caratterizzato tanto a lungo e cominciò a privilegiare, rispetto alla manovra, l’impiego a massa, vale a dire a puntare su una strategia che di fatto era di logoramento. Tuttavia, l’impero francese era più debole della somma dei suoi nemici, per cui una soluzione del genere, nei tempi lunghi, era suicida.

   I primi campanelli d’allarme cominciarono a suonare nel 1808, durante la campagna di Spagna. Il genio militare napoleonico non ebbe difficoltà a sbaragliare gli eserciti spagnoli e a costringere ad un frettoloso reimbarco il corpo di spedizione inglese che era stato inviato a soccorrerli, ma, una volta che Napoleone fu rientrato a Parigi, ebbe inizio un nuovo tipo di guerra, per la quale l’esercito francese non era assolutamente preparato: di fatto, la Spagna era domata e ridotta alla condizione di satellite della Francia; sul campo, però, non era assolutamente così: i convogli francesi che collegavano le varie piazzeforti in cui si era rinchiuso l’esercito occupante venivano costantemente attaccati da bande di guerriglieri che, non appena la situazione veniva ristabilita dall’intervento di colonne di soccorso della “Grande Armée”, si volatilizzavano e si confondevano con la popolazione civile, salvo lanciare un altro attacco alla prima occasione favorevole. Tutto ciò determinò l’apertura di una sorta di “secondo fronte”, rispetto a quelli dell’Europa centrale dove si addensavano i nemici della Francia; costrinse Napoleone a stornare ingenti risorse umane e materiali per fronteggiare una costante situazione insurrezionale, che la Gran Bretagna si affrettò ad alimentare inviando nella penisola iberica un piccolo ma agguerrito esercito al comando del duca di Wellington.

   Fu l’esercito professionale inglese a rivelare una grave carenza tattica della “Grande Arméé”, rimasta fino a quel momento sostanzialmente nascosta: più passava il tempo e più la qualità delle truppe disponibili declinava e il loro addestramento si dimostrava approssimativo, più i comandanti francesi non trovavano altra soluzione, sul campo di battaglia, che quella di esasperare l’impiego a massa dei reparti, attaccando costantemente in colonna il nemico. Come è facile arguire, però, una colonna in avanzamento poteva contare su un numero assai ridotto di uomini che erano in grado di fare fuoco rispetto a un nemico schierato in linea e, se voleva farlo, doveva fermarsi, spezzando il proprio impeto. Di conseguenza, anche se protette da nugoli di fanteria leggera, le colonne francesi potevano risultare un avversario vulnerabile per una fanteria molto addestrata al tiro di precisione di massa, com’era quella inglese. Con queste premesse, e con rarissime eccezioni, la campagna di Spagna (che si protrasse dal 1808 al 1814) fu una continua ripetizione di tale situazione tattica, con Wellington che attendeva i vari marescialli che Napoleone gli inviò contro saldamente attestato su una posizione difensiva e il preciso e cadenzato fuoco delle linee inglesi ebbe ogni volta ragione delle colonne francesi.

   In Europa centrale, la campagna d’Austria del 1809 evidenziò lo stesso problema di irrigidimento della strategia napoleonica, di crescente confidenza nella massa e nella potenza del fuoco a scapito della manovra: se il risultato fu diverso, grazie alla brillante vittoria di Wagram, esso venne però ottenuto con molta più fatica che in passato e solo grazie al fatto che, nel cuore del Vecchio Continente, Napoleone poteva contare sul fior fiore del suo esercito e poteva esercitare un’azione di comando diretta, sempre assai brillante e in grado di fungere da stimolo sui suoi subordinati.

   Dopo due anni di pace, il 1810 e il 1811, caratterizzati solo dall’andamento altalenante della campagna di Spagna, l’attacco lanciato contro la Russia nel giugno 1812 segnò il momento culminante del disegno imperiale napoleonico. Logorato sul piano marittimo dalla potenza navale inglese; danneggiato, più che favorito, sul piano economico dal “Blocco continentale” decretato contro la Gran Bretagna nella seconda metà del 1807, l’impero francese non poteva rimanere troppo a lungo a riposare sugli allori, perché Napoleone era fin troppo consapevole che il tempo giocava a suo sfavore. Sotto questo punto di vista, l’attacco scagliato contro la Russia poteva rappresentare un gigantesco azzardo, ma era chiaro che la Francia, le cui velleità di potenza navale erano state stroncate dagli inglesi a Trafalgar nel dicembre 1805, se doveva essere un impero continentale, non aveva altra scelta che affermare la propria superiorità indiscussa, per dirla in termini geopolitici, sulla “terra di mezzo”, vale a dire sul vasto spazio territoriale che andava da Lisbona alle pianure russe a oriente di Mosca.

       Preparata con grande cura, mettendo in campo un esercito di oltre seicentomila uomini, la campagna di Russia presentava tuttavia difficoltà enormi, sia per la necessità di rifornire la “Grande Armée” a tanta distanza dalle proprie basi di partenza, sia perché le immense pianure russe offrivano alle truppe dello zar la possibilità di utilizzare lo spazio geografico per attutire e diluire l’intensità dell’offensiva napoleonica. Quest’ultima, una volta di più, evidenziò di aver dimenticato la brillantezza e la flessibilità operativa tradizionali, e si risolse in una serie di colpi di maglio che condussero l’esercito francese alla conquista di Mosca. Tuttavia, l’occupazione della capitale nemica contava poco o nulla se la volontà di resistenza dell’avversario non era stata abbattuta e il suo esercito distrutto. Poiché ciò non era avvenuto e i russi non si rassegnavano alla resa, la posizione della “Grande Armee”, a migliaia di chilometri dalle proprie basi, si faceva molto pericolosa, per cui la ritirata divenne inevitabile.

   Quello che accadde dopo, vale a dire il dissolvimento dell’esercito francese nella ritirata da Mosca alle basi di partenza in Polonia e Germania, fu frutto di una convergenza di fattori, a cominciare dal sopravvenire della stagione invernale, ma molto di più contò il continuo punzecchiamento da parte delle forze russe, l’impossibilità di condurre una ritirata in buon ordine, la mancanza di un adeguato sostegno logistico.

   Nelle pianure e nell’inverno russo del 1812-13, la “Grande Armée” letteralmente si dissolse e fu un vero miracolo organizzativo se, nella tarda primavera del 1813, Napoleone riuscì a ricostituire un esercito con il quale affrontò con successo, almeno nella fase iniziale, la potente coalizione formata da Austria, Prussia e Germania. Sollecitato da una situazione difficile, per non dire disperata, il genio militare dell’imperatore tornò a rifulgere e a dimostrarsi sufficiente a contenere, per un certo periodo, il peso di un coacervo di nemici assai più potente. Con il tempo, tuttavia, la superiorità quantitativa della coalizione antifrancese si dimostrò irresistibile e, dopo la grave sconfitta di Lipsia (ottobre 1813), la “Grande Armée” fu costretta a ritirarsi verso la madrepatria. La campagna del 1814, condotta da un piccolo esercito francese contro torme di avversari, fu forse uno degli esempi più brillanti della capacità di Napoleone come condottiero, ma le sue straordinarie doti militari poterono solo ritardare la disfatta, non scongiurarla.

   Dopo l’abdicazione dell’aprile 1814 e il breve intermezzo all’isola d’Elba, il ritorno in Francia nella primavera del 1815 e la successiva campagna in Belgio segnarono l’ultimo atto dell’attività militare del Grande Corso. Premuta da un nugolo di eserciti avversari, l’armata francese, ricostituita in tutta fretta con i reduci di cento battaglie e i coscritti delle classi più giovani, venne condotta all’offensiva dall’imperatore, ben consapevole di dover adottare una strategia per linee interne contro gli avversari, in modo da poter essere superiore a ciascuno di essi. Con il genio militare di sempre, nel giugno 1815 Napoleone, nel giro di pochi giorni, incuneò il proprio esercito tra quello inglese di Wellington e quello prussiano di Blücher, puntando a batterli separatamente: il maresciallo Ney non si dimostrò particolarmente abile contro Wellington a Quatre Bras, mentre l’imperatore impartì una sonora lezione ai prussiani a Ligny. Due giorni dopo, il 18 giugno 1815, a Waterloo, l’esercito francese attaccò gli inglesi alla stessa identica maniera in cui li aveva attaccati tante volte in Spagna e, anche se nella circostanza andò assai più vicino alla vittoria, il sopraggiungere dei prussiani di Blücher trasformò un possibile successo in una catastrofica sconfitta. Nella circostanza, la manovra strategica napoleonica aveva già prodotto il brillante risultato di riuscire a incunearsi tra due eserciti nemici superiori per numero, ma sul campo sarebbe servita una tattica che fosse meno logorante e prevedibile di un attacco frontale in massa. Per contro, quest’ultima fu la soluzione imposta a Napoleone dalle circostanze e da una certa rigidità tattica e, una volta di più, si rivelò fallimentare. L’epopea napoleonica era giunta tragicamente al termine.

                                                                                 Piero Visani





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