Quando ebbe inizio il declino dell’impero
napoleonico? Questo interrogativo assilla da tempo immemorabile gli storici,
ma, formulata in questi termini, la domanda è mal posta, poiché, per definire
un “quando”, occorre stabilire in via preliminare un “perché” e un “come”.
Sulle ragioni, ci siamo già soffermati nella puntata precedente: con il passare
del tempo, forse per ragioni anagrafiche e per il logorio imputabile ai ritmi
di vita stressanti cui si sottoponeva l’imperatore, forse perché la qualità della
“Grande Armée” si stava deteriorando a causa delle continue guerre, forse
perché i soldati e soprattutto i comandanti erano stanchi di passare da un
conflitto all’altro, il sistema di guerra napoleonico perse le caratteristiche
di estrema flessibilità che lo avevano caratterizzato tanto a lungo e cominciò
a privilegiare, rispetto alla manovra, l’impiego a massa, vale a dire a puntare
su una strategia che di fatto era di logoramento. Tuttavia, l’impero francese
era più debole della somma dei suoi nemici, per cui una soluzione del genere,
nei tempi lunghi, era suicida.
I primi campanelli d’allarme
cominciarono a suonare nel 1808, durante la campagna di Spagna. Il genio
militare napoleonico non ebbe difficoltà a sbaragliare gli eserciti spagnoli e
a costringere ad un frettoloso reimbarco il corpo di spedizione inglese che era
stato inviato a soccorrerli, ma, una volta che Napoleone fu rientrato a Parigi,
ebbe inizio un nuovo tipo di guerra, per la quale l’esercito francese non era
assolutamente preparato: di fatto, la
Spagna era domata e ridotta alla condizione di satellite
della Francia; sul campo, però, non era assolutamente così: i convogli francesi
che collegavano le varie piazzeforti in cui si era rinchiuso l’esercito
occupante venivano costantemente attaccati da bande di guerriglieri che, non
appena la situazione veniva ristabilita dall’intervento di colonne di soccorso
della “Grande Armée”, si volatilizzavano e si confondevano con la popolazione
civile, salvo lanciare un altro attacco alla prima occasione favorevole. Tutto
ciò determinò l’apertura di una sorta di “secondo fronte”, rispetto a quelli
dell’Europa centrale dove si addensavano i nemici della Francia; costrinse
Napoleone a stornare ingenti risorse umane e materiali per fronteggiare una costante
situazione insurrezionale, che la Gran
Bretagna si affrettò ad alimentare inviando nella penisola
iberica un piccolo ma agguerrito esercito al comando del duca di Wellington.
Fu l’esercito professionale
inglese a rivelare una grave carenza tattica della “Grande Arméé”, rimasta fino
a quel momento sostanzialmente nascosta: più passava il tempo e più la qualità
delle truppe disponibili declinava e il loro addestramento si dimostrava
approssimativo, più i comandanti francesi non trovavano altra soluzione, sul
campo di battaglia, che quella di esasperare l’impiego a massa dei reparti,
attaccando costantemente in colonna il nemico. Come è facile arguire, però, una
colonna in avanzamento poteva contare su un numero assai ridotto di uomini che
erano in grado di fare fuoco rispetto a un nemico schierato in linea e, se
voleva farlo, doveva fermarsi, spezzando il proprio impeto. Di conseguenza,
anche se protette da nugoli di fanteria leggera, le colonne francesi potevano
risultare un avversario vulnerabile per una fanteria molto addestrata al tiro
di precisione di massa, com’era quella inglese. Con queste premesse, e con
rarissime eccezioni, la campagna di Spagna (che si protrasse dal 1808 al 1814) fu
una continua ripetizione di tale situazione tattica, con Wellington che
attendeva i vari marescialli che Napoleone gli inviò contro saldamente
attestato su una posizione difensiva e il preciso e cadenzato fuoco delle linee
inglesi ebbe ogni volta ragione delle colonne francesi.
In Europa centrale, la campagna
d’Austria del 1809 evidenziò lo stesso problema di irrigidimento della
strategia napoleonica, di crescente confidenza nella massa e nella potenza del
fuoco a scapito della manovra: se il risultato fu diverso, grazie alla
brillante vittoria di Wagram, esso venne però ottenuto con molta più fatica che
in passato e solo grazie al fatto che, nel cuore del Vecchio Continente, Napoleone
poteva contare sul fior fiore del suo esercito e poteva esercitare un’azione di
comando diretta, sempre assai brillante e in grado di fungere da stimolo sui
suoi subordinati.
Dopo due anni di pace, il 1810 e
il 1811, caratterizzati solo dall’andamento altalenante della campagna di
Spagna, l’attacco lanciato contro la
Russia nel giugno 1812 segnò il momento culminante del
disegno imperiale napoleonico. Logorato sul piano marittimo dalla potenza
navale inglese; danneggiato, più che favorito, sul piano economico dal “Blocco
continentale” decretato contro la Gran
Bretagna nella seconda metà del 1807, l’impero francese non
poteva rimanere troppo a lungo a riposare sugli allori, perché Napoleone era
fin troppo consapevole che il tempo giocava a suo sfavore. Sotto questo punto
di vista, l’attacco scagliato contro la Russia poteva rappresentare un gigantesco
azzardo, ma era chiaro che la
Francia , le cui velleità di potenza navale erano state
stroncate dagli inglesi a Trafalgar nel dicembre 1805, se doveva essere un
impero continentale, non aveva altra scelta che affermare la propria
superiorità indiscussa, per dirla in termini geopolitici, sulla “terra di
mezzo”, vale a dire sul vasto spazio territoriale che andava da Lisbona alle
pianure russe a oriente di Mosca.
Preparata con grande cura,
mettendo in campo un esercito di oltre seicentomila uomini, la campagna di
Russia presentava tuttavia difficoltà enormi, sia per la necessità di rifornire
la “Grande Armée” a tanta distanza dalle proprie basi di partenza, sia perché
le immense pianure russe offrivano alle truppe dello zar la possibilità di
utilizzare lo spazio geografico per attutire e diluire l’intensità
dell’offensiva napoleonica. Quest’ultima, una volta di più, evidenziò di aver
dimenticato la brillantezza e la flessibilità operativa tradizionali, e si
risolse in una serie di colpi di maglio che condussero l’esercito francese alla
conquista di Mosca. Tuttavia, l’occupazione della capitale nemica contava poco
o nulla se la volontà di resistenza dell’avversario non era stata abbattuta e
il suo esercito distrutto. Poiché ciò non era avvenuto e i russi non si
rassegnavano alla resa, la posizione della “Grande Armee”, a migliaia di
chilometri dalle proprie basi, si faceva molto pericolosa, per cui la ritirata
divenne inevitabile.
Quello che accadde dopo, vale a
dire il dissolvimento dell’esercito francese nella ritirata da Mosca alle basi
di partenza in Polonia e Germania, fu frutto di una convergenza di fattori, a
cominciare dal sopravvenire della stagione invernale, ma molto di più contò il
continuo punzecchiamento da parte delle forze russe, l’impossibilità di
condurre una ritirata in buon ordine, la mancanza di un adeguato sostegno
logistico.
Nelle pianure e nell’inverno
russo del 1812-13, la “Grande Armée” letteralmente si dissolse e fu un vero
miracolo organizzativo se, nella tarda primavera del 1813, Napoleone riuscì a
ricostituire un esercito con il quale affrontò con successo, almeno nella fase
iniziale, la potente coalizione formata da Austria, Prussia e Germania.
Sollecitato da una situazione difficile, per non dire disperata, il genio
militare dell’imperatore tornò a rifulgere e a dimostrarsi sufficiente a
contenere, per un certo periodo, il peso di un coacervo di nemici assai più
potente. Con il tempo, tuttavia, la superiorità quantitativa della coalizione
antifrancese si dimostrò irresistibile e, dopo la grave sconfitta di Lipsia
(ottobre 1813), la “Grande Armée” fu costretta a ritirarsi verso la
madrepatria. La campagna del 1814, condotta da un piccolo esercito francese
contro torme di avversari, fu forse uno degli esempi più brillanti della
capacità di Napoleone come condottiero, ma le sue straordinarie doti militari
poterono solo ritardare la disfatta, non scongiurarla.
Dopo l’abdicazione dell’aprile
1814 e il breve intermezzo all’isola d’Elba, il ritorno in Francia nella
primavera del 1815 e la successiva campagna in Belgio segnarono l’ultimo atto
dell’attività militare del Grande Corso. Premuta da un nugolo di eserciti
avversari, l’armata francese, ricostituita in tutta fretta con i reduci di
cento battaglie e i coscritti delle classi più giovani, venne condotta all’offensiva
dall’imperatore, ben consapevole di dover adottare una strategia per linee
interne contro gli avversari, in modo da poter essere superiore a ciascuno di
essi. Con il genio militare di sempre, nel giugno 1815 Napoleone, nel giro di
pochi giorni, incuneò il proprio esercito tra quello inglese di Wellington e
quello prussiano di Blücher, puntando a batterli separatamente: il maresciallo
Ney non si dimostrò particolarmente abile contro Wellington a Quatre Bras,
mentre l’imperatore impartì una sonora lezione ai prussiani a Ligny. Due giorni
dopo, il 18 giugno 1815, a
Waterloo, l’esercito francese attaccò gli inglesi alla stessa identica maniera
in cui li aveva attaccati tante volte in Spagna e, anche se nella circostanza
andò assai più vicino alla vittoria, il sopraggiungere dei prussiani di Blücher
trasformò un possibile successo in una catastrofica sconfitta. Nella
circostanza, la manovra strategica napoleonica aveva già prodotto il brillante
risultato di riuscire a incunearsi tra due eserciti nemici superiori per
numero, ma sul campo sarebbe servita una tattica che fosse meno logorante e
prevedibile di un attacco frontale in massa. Per contro, quest’ultima fu la
soluzione imposta a Napoleone dalle circostanze e da una certa rigidità tattica
e, una volta di più, si rivelò fallimentare. L’epopea napoleonica era giunta
tragicamente al termine.
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