martedì 26 novembre 2013

Dalle forze speciali agli eserciti privati


   La genesi delle forze speciali, quanto meno nell’accezione che viene attribuita al termine nel mondo attuale, risale al 1941, quando un ufficiale subalterno delle Scots Guards, David Stirling, si diede molto da fare per la creazione di un nucleo ristretto di specialisti in grado di svolgere da soli compiti di portata strategica, capaci di influenzare addirittura l’esito di una guerra. Nacque così il mitico Special Air Service (SAS), l’unità a tutt’oggi più famosa al mondo nel campo dei reparti speciali.

   La vera intuizione di Stirling era che piccoli nuclei di superprofessionisti potessero svolgere un ruolo di grande rilievo strategico, ben diverso ad esempio da quello dei commandos, incaricati di condurre incursioni tattiche dietro le linee nemiche. Nella sua visione, le forze speciali avrebbero dovuto costituire degli autentici “moltiplicatori di forza”, cioè consentire, con costi umani e materiali assai contenuti, di moltiplicare le capacità operative di un Paese.

   Fu soltanto dopo il 1945, tuttavia, che le forze speciali cominciarono ad assumere una fisionomia più precisa: negli anni della decolonizzazione e delle “guerre di liberazione nazionale”, molte delle quali egemonizzate dai comunisti, gli strateghi occidentali, alle prese con una società civile in cui, dopo l’immane massacro del secondo conflitto mondiale, sempre più netto si faceva (magari anche perché sapientemente alimentato da non proprio disinteressati teorici del pacifismo) il rifiuto della guerra, individuarono nelle special forces la soluzione ad una nutrita serie di problemi: quegli specialisti erano tutti volontari, largamente avulsi dalla società civile, per cui potevano operare nell’ombra e consentire di soddisfare il difficile ma agognato principio della guerra “a zero morti”. Ma soprattutto la loro disponibilità offriva ai governi occidentali una flessibilità operativa di cui non avrebbero mai potuto godere se avessero dovuto fare ricorso agli eserciti regolari di tipo tradizionale. Una flessibilità che era diventata una necessità assoluta man mano che il conflitto mutava natura e caratteristiche, acquisiva nuove valenze e richiedeva la presenza di nuovi protagonisti. La guerra perdeva le sue simmetrie e, nel rimescolamento di carte che ne seguiva, emergevano i “guerrieri nell’ombra”, gli shadow warriors capaci di gestire con successo qualsiasi asimmetria. Questa fu la funzione dei “berretti verdi” statunitensi nei primi anni dell’esperienza vietnamita: moltiplicatori della potenza americana grazie alla valorizzazione delle risorse filo-USA locali e protagonisti di un nuovo tipo di confronto asimmetrico con i guerriglieri comunisti. I successi riportati furono talmente elevati da suscitare l’invidia delle Forze Armate regolari, le quali pretesero ed ottennero dal potere politico che la guerra venisse riportata alle sue dimensioni tradizionali, con i risultati a tutti noti.

   Dopo la fine della guerra in Vietnam, le forze speciali hanno conosciuto una nuova stagione di successi con l’emergere, nel corso degli anni Settanta, della minaccia terroristica. La loro natura, infatti, era tale da renderle l’unico strumento concreto in mano ai governi occidentali per rispondere con successo a quella nuova dimensione della minaccia. Proprio in quegli anni, infatti, il conflitto viene definitivamente a perdere la sua caratteristica di scontro fra realtà statuali e si allarga a dimensioni nuove, che non possono essere gestite con il semplice ricorso agli eserciti di tipo tradizionale. Non c’è infatti una guerra tra Stati, tanto meno una dichiarazione di guerra; ci sono soltanto atti di aggressione, talvolta anche estremamente virulenti, di cui è difficile stabilire la provenienza e ancor più difficile attribuire la responsabilità. Su questo sfondo, gli eserciti servono a poco o nulla, a meno che non si determinino situazioni come quella della guerra del Golfo. Serve invece una capacità di reagire e di farlo con una flessibilità e una mancanza di controlli (e talvolta anche di scrupoli) che mettano nelle mani dei poteri statali uno strumento non meno flessibile di quello a disposizione dei terroristi.

   È in questa fase che gli shadow warriors vengono fatti precipitare deliberatamente nell’ombra, sia per sottrarli a qualunque forma di controllo politico sia perché diventano l’unico strumento a disposizione dei governi occidentali per poter insistere nel fare sì che la guerra rimanga “la continuazione della politica con altri mezzi”. In altri termini, alle forze speciali viene chiesto di sopperire, con la segretezza del loro agire, al deficit di legittimazione che la guerra ha subito nel mondo occidentale. È il momento in cui a questi superprofessionisti viene chiesto di fare il “lavoro sporco” per conto di governi che non rifuggono dal sporcarsi le mani, ma hanno paura di essere accusati di essere “politicamente scorretti”; e – sopra ogni altra cosa – temono il coinvolgimento in un conflitto aperto.

   Naturalmente, un impiego del genere è tutt’altro che esente da problemi e negative implicazioni: infatti, se la guerra deve essere estromessa dalla politica occidentale in quanto eticamente e culturalmente inaccettabile, ma poi, in nome della “ragion di Stato”, continua ad essere praticata di nascosto, è chiaro che si aprono spazi immensi per abusi e, soprattutto, che una parte consistente della vita politica viene sottratta a qualsiasi forma di controllo, con tutte le conseguenze del caso. È quello che è accaduto, per esempio, con l’impiego del SAS in Irlanda del Nord contro l’IRA, dove il potere esecutivo si è dato mano libera per una condotta delle operazioni non meno priva di scrupoli di quella dei suoi nemici, ciò che è risultato talvolta assai efficace in termini operativi, ma ha creato non pochi problemi in termini di credibilità e legittimità.

   La verità è che i governi occidentali hanno cercato di gestire il problema della crescente delegittimazione della guerra con una visione ispirata ad una Realpolitik molto miope: nessuna resistenza seria a livello culturale, per dimostrare alle proprie opinioni pubbliche interne, talvolta sapientemente eterodirette da maestri non disinteressati, l’innegabile persistenza della necessità (potenziale) del conflitto nella realtà contemporanea, ma un cedimento continuo accompagnato da una modesta opera di dissimulazione, consistente nell’affidare a ristretti nuclei di forze speciali il compito di fare in pratica quello che in teoria era negato. In questo modo, uscendo dalla dimensione del politico, il conflitto si è privatizzato, è diventato una faccenda per pochi: per i pochi che continuavano a combatterlo e per gli ancor meno chiamati a decidere se combatterlo o non. Il tutto al di fuori di qualsiasi controllo dei parlamenti e delle opinioni pubbliche, persi dietro alle contestazioni alle culture della guerra e della morte.

   Un’ulteriore asimmetria è stata così introdotta in una situazione già fortemente asimmetrica e si è in tal modo assistito ad una moltiplicazione di soggetti che hanno ulteriormente accentuato il fenomeno della “privatizzazione”. Come sul piano politico accanto ai soggetti tradizionali sono emerse nuove realtà, tipo le organizzazioni non governative (ONG), così su quello politico-militare sono venute a galla strutture di incerto profilo e ancor più dubbia legittimità, le società militari private, gli eserciti non governativi (ENG).

   Una deriva deplorevole, ma inevitabile, naturale conseguenza del rifiuto di conferire una qualche forma di accettabilità culturale alla guerra e all’impiego della forza per la soluzione di problemi politici. In effetti, se per un certo periodo questa azione di occultamento ha comportato l’assegnazione di certi compiti “sgradevoli” (non necessariamente “sporchi”) alle forze speciali, la nascita delle società militari private ha consentito di alleggerire ulteriormente il carico di responsabilità dei poteri statali, lasciando spazio all’iniziativa privata (che poi ovviamente tale non è per niente) anche in questo delicatissimo campo.

   È singolare come ai più sembri sfuggire la pericolosissima deriva insita in un fenomeno del genere che, trasferendo anche la guerra dalla dimensione pubblica a quella privata, non solo non allontana la prospettiva delle scontro armato, ma, al contrario, la rende sempre più immanente e possibile. In un contesto così artatamente creato, infatti, scompare la figura dell’hostis nell’accezione schmittiana di “nemico pubblico” e si apre la strada per la moltiplicazione degli inimici, i “nemici privati”, nemici non si sa di chi e di che cosa, i quali colpiscono, distruggono e uccidono non in nome di un qualche interesse o ideale, ma probabilmente per il solo gusto di farlo, per la sola gioia perversa di seminare intorno a sé morte e distruzione. E per lo stesso motivo vengono colpiti.

   Come ha scritto Philippe Chapleau nel volume Sociétés militaires privées. Enquête sur les soldats sans armées, è questa, molto più di tante altre di cui si parla più o meno a proposito, la vera Revolution In Military Affairs (RIMA) di questi anni: l’alienazione della funzione militare dal potere statale ad una moltitudine di soggetti privati che non hanno né titolarità né legittimità per gestirla. Una soluzione che è stata scelta per mettere le società occidentali al riparo non dalla guerra, ma dalle prevenzioni culturali nei suoi confronti, e che rischia di avere come unica conseguenza il moltiplicarsi delle minacce e dell’incapacità di gestirle; che delega scientemente a privati compiti e funzioni che non sono e non possono essere altro che rigorosamente pubblici. Non sarebbe la prima volta che, al fine di esorcizzare una minaccia ritenuta mortale, se ne evoca un’altra infinitamente peggiore: la privatizzazione della gestione dell’impiego della forza apre la strada ad una guerra per bande di portata planetaria, destinata a far rimpiangere amaramente i conflitti di tipo tradizionale.

                                                                      Piero Visani

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