La genesi delle forze speciali, quanto meno nell’accezione che viene
attribuita al termine nel mondo attuale, risale al 1941, quando un ufficiale
subalterno delle Scots Guards, David
Stirling, si diede molto da fare per la creazione di un nucleo ristretto di
specialisti in grado di svolgere da soli compiti di portata strategica, capaci
di influenzare addirittura l’esito di una guerra. Nacque così il mitico Special Air Service (SAS), l’unità a
tutt’oggi più famosa al mondo nel campo dei reparti speciali.
La vera intuizione di Stirling
era che piccoli nuclei di superprofessionisti potessero svolgere un ruolo di
grande rilievo strategico, ben diverso ad esempio da quello dei commandos,
incaricati di condurre incursioni tattiche dietro le linee nemiche. Nella sua
visione, le forze speciali avrebbero dovuto costituire degli autentici
“moltiplicatori di forza”, cioè consentire, con costi umani e materiali assai
contenuti, di moltiplicare le capacità operative di un Paese.
Fu soltanto dopo il 1945,
tuttavia, che le forze speciali cominciarono ad assumere una fisionomia più
precisa: negli anni della decolonizzazione e delle “guerre di liberazione
nazionale”, molte delle quali egemonizzate dai comunisti, gli strateghi
occidentali, alle prese con una società civile in cui, dopo l’immane massacro
del secondo conflitto mondiale, sempre più netto si faceva (magari anche perché
sapientemente alimentato da non proprio disinteressati teorici del pacifismo)
il rifiuto della guerra, individuarono nelle special forces la soluzione ad una nutrita serie di problemi: quegli
specialisti erano tutti volontari, largamente avulsi dalla società civile, per
cui potevano operare nell’ombra e consentire di soddisfare il difficile ma
agognato principio della guerra “a zero morti”. Ma soprattutto la loro
disponibilità offriva ai governi occidentali una flessibilità operativa di cui
non avrebbero mai potuto godere se avessero dovuto fare ricorso agli eserciti
regolari di tipo tradizionale. Una flessibilità che era diventata una necessità
assoluta man mano che il conflitto mutava natura e caratteristiche, acquisiva
nuove valenze e richiedeva la presenza di nuovi protagonisti. La guerra perdeva
le sue simmetrie e, nel rimescolamento di carte che ne seguiva, emergevano i
“guerrieri nell’ombra”, gli shadow
warriors capaci di gestire con successo qualsiasi asimmetria. Questa fu la
funzione dei “berretti verdi” statunitensi nei primi anni dell’esperienza
vietnamita: moltiplicatori della potenza americana grazie alla valorizzazione
delle risorse filo-USA locali e protagonisti di un nuovo tipo di confronto
asimmetrico con i guerriglieri comunisti. I successi riportati furono talmente
elevati da suscitare l’invidia delle Forze Armate regolari, le quali pretesero
ed ottennero dal potere politico che la guerra venisse riportata alle sue
dimensioni tradizionali, con i risultati a tutti noti.
Dopo la fine della guerra in
Vietnam, le forze speciali hanno conosciuto una nuova stagione di successi con
l’emergere, nel corso degli anni Settanta, della minaccia terroristica. La loro
natura, infatti, era tale da renderle l’unico strumento concreto in mano ai
governi occidentali per rispondere con successo a quella nuova dimensione della
minaccia. Proprio in quegli anni, infatti, il conflitto viene definitivamente a
perdere la sua caratteristica di scontro fra realtà statuali e si allarga a
dimensioni nuove, che non possono essere gestite con il semplice ricorso agli
eserciti di tipo tradizionale. Non c’è infatti una guerra tra Stati, tanto meno
una dichiarazione di guerra; ci sono soltanto atti di aggressione, talvolta
anche estremamente virulenti, di cui è difficile stabilire la provenienza e
ancor più difficile attribuire la responsabilità. Su questo sfondo, gli
eserciti servono a poco o nulla, a meno che non si determinino situazioni come
quella della guerra del Golfo. Serve invece una capacità di reagire e di farlo
con una flessibilità e una mancanza di controlli (e talvolta anche di scrupoli)
che mettano nelle mani dei poteri statali uno strumento non meno flessibile di
quello a disposizione dei terroristi.
È in questa fase che gli shadow warriors vengono fatti
precipitare deliberatamente nell’ombra, sia per sottrarli a qualunque forma di
controllo politico sia perché diventano l’unico strumento a disposizione dei
governi occidentali per poter insistere nel fare sì che la guerra rimanga “la
continuazione della politica con altri mezzi”. In altri termini, alle forze
speciali viene chiesto di sopperire, con la segretezza del loro agire, al
deficit di legittimazione che la guerra ha subito nel mondo occidentale. È il
momento in cui a questi superprofessionisti viene chiesto di fare il “lavoro
sporco” per conto di governi che non rifuggono dal sporcarsi le mani, ma hanno
paura di essere accusati di essere “politicamente scorretti”; e – sopra ogni
altra cosa – temono il coinvolgimento in un conflitto aperto.
Naturalmente, un impiego del
genere è tutt’altro che esente da problemi e negative implicazioni: infatti, se
la guerra deve essere estromessa dalla politica occidentale in quanto
eticamente e culturalmente inaccettabile, ma poi, in nome della “ragion di
Stato”, continua ad essere praticata di nascosto, è chiaro che si aprono spazi
immensi per abusi e, soprattutto, che una parte consistente della vita politica
viene sottratta a qualsiasi forma di controllo, con tutte le conseguenze del
caso. È quello che è accaduto, per esempio, con l’impiego del SAS in Irlanda
del Nord contro l’IRA, dove il potere esecutivo si è dato mano libera per una
condotta delle operazioni non meno priva di scrupoli di quella dei suoi nemici,
ciò che è risultato talvolta assai efficace in termini operativi, ma ha creato
non pochi problemi in termini di credibilità e legittimità.
La verità è che i governi
occidentali hanno cercato di gestire il problema della crescente
delegittimazione della guerra con una visione ispirata ad una Realpolitik molto miope: nessuna
resistenza seria a livello culturale, per dimostrare alle proprie opinioni
pubbliche interne, talvolta sapientemente eterodirette da maestri non
disinteressati, l’innegabile persistenza della necessità (potenziale) del
conflitto nella realtà contemporanea, ma un cedimento continuo accompagnato da
una modesta opera di dissimulazione, consistente nell’affidare a ristretti
nuclei di forze speciali il compito di fare in pratica quello che in teoria era
negato. In questo modo, uscendo dalla dimensione del politico, il conflitto si
è privatizzato, è diventato una faccenda per pochi: per i pochi che
continuavano a combatterlo e per gli ancor meno chiamati a decidere se
combatterlo o non. Il tutto al di fuori di qualsiasi controllo dei parlamenti e
delle opinioni pubbliche, persi dietro alle contestazioni alle culture della
guerra e della morte.
Un’ulteriore asimmetria è stata
così introdotta in una situazione già fortemente asimmetrica e si è in tal modo
assistito ad una moltiplicazione di soggetti che hanno ulteriormente accentuato
il fenomeno della “privatizzazione”. Come sul piano politico accanto ai
soggetti tradizionali sono emerse nuove realtà, tipo le organizzazioni non
governative (ONG), così su quello politico-militare sono venute a galla strutture
di incerto profilo e ancor più dubbia legittimità, le società militari private,
gli eserciti non governativi (ENG).
Una deriva deplorevole, ma
inevitabile, naturale conseguenza del rifiuto di conferire una qualche forma di
accettabilità culturale alla guerra e all’impiego della forza per la soluzione
di problemi politici. In effetti, se per un certo periodo questa azione di occultamento
ha comportato l’assegnazione di certi compiti “sgradevoli” (non necessariamente
“sporchi”) alle forze speciali, la nascita delle società militari private ha
consentito di alleggerire ulteriormente il carico di responsabilità dei poteri
statali, lasciando spazio all’iniziativa privata (che poi ovviamente tale non è
per niente) anche in questo delicatissimo campo.
È singolare come ai più sembri
sfuggire la pericolosissima deriva insita in un fenomeno del genere che,
trasferendo anche la guerra dalla dimensione pubblica a quella privata, non
solo non allontana la prospettiva delle scontro armato, ma, al contrario, la
rende sempre più immanente e possibile. In un contesto così artatamente creato,
infatti, scompare la figura dell’hostis
nell’accezione schmittiana di “nemico pubblico” e si apre la strada per la
moltiplicazione degli inimici, i
“nemici privati”, nemici non si sa di chi e di che cosa, i quali colpiscono,
distruggono e uccidono non in nome di un qualche interesse o ideale, ma
probabilmente per il solo gusto di farlo, per la sola gioia perversa di
seminare intorno a sé morte e distruzione. E per lo stesso motivo vengono
colpiti.
Come ha scritto Philippe
Chapleau nel volume Sociétés militaires
privées. Enquête sur les soldats sans armées, è questa, molto più di tante
altre di cui si parla più o meno a proposito, la vera Revolution In Military Affairs (RIMA) di questi anni: l’alienazione
della funzione militare dal potere statale ad una moltitudine di soggetti
privati che non hanno né titolarità né legittimità per gestirla. Una soluzione
che è stata scelta per mettere le società occidentali al riparo non dalla
guerra, ma dalle prevenzioni culturali nei suoi confronti, e che rischia di
avere come unica conseguenza il moltiplicarsi delle minacce e dell’incapacità
di gestirle; che delega scientemente a privati compiti e funzioni che non sono
e non possono essere altro che rigorosamente pubblici. Non sarebbe la prima
volta che, al fine di esorcizzare una minaccia ritenuta mortale, se ne evoca
un’altra infinitamente peggiore: la privatizzazione della gestione dell’impiego
della forza apre la strada ad una guerra per bande di portata planetaria,
destinata a far rimpiangere amaramente i conflitti di tipo tradizionale.
Piero Visani
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