Per più di un trentennio, dopo il 1815, l’Europa
poté godere di un periodo di pace, che venne interrotto soltanto dal grande
sommovimento rivoluzionario del 1848, che per noi italiani si identifica con la Prima Guerra d’Indipendenza.
Non è questa la sede per ricordare la lunga e travagliata storia del movimento
unitario, ma non c’è dubbio che il sentimento di italianità trasse grande
alimento dalla nascita, durante il periodo napoleonico, del Regno Italico, il
cui esercito ebbe modo di illustrarsi nel corso di tutte le campagne
dell’Impero. La stessa esperienza compiuta in quegli anni sui campi di
battaglia europei da molti giovani italiani fu fondamentale per la loro
formazione e le loro esperienze militari.
Nel 1848, quando il regno di
Sardegna, sotto la guida del re Carlo Alberto, scese in campo contro l’impero
austro-ungarico, era da tempo in atto, a livello politico, un vivace dibattito
su quale avrebbe dovuto essere la natura della guerra di liberazione nazionale:
i democratici di ispirazione mazziniana erano favorevoli ad una “guerra di
popolo” contro l’occupante, vale a dire un tipo di conflitto rivoluzionario che
avrebbe dovuto nascere e trovare alimento dal basso, in una logica
insurrezionale; i moderati legati alla monarchia sabauda, per contro, ritenevano
che il conflitto contro l’Austria non avrebbe potuto essere altro che una
“guerra regia”, vale a dire una guerra di tipo convenzionale di uno Stato
sovrano – nel caso italiano il Regno sardo – contro un altro, l’impero
asburgico.
Questa fondamentale divisione,
che rimase aperta per tutto il periodo del Risorgimento, era ovviamente frutto
di due visioni politiche alquanto diverse e sostanzialmente inconciliabili, che
perseguivano l’obiettivo del raggiungimento dell’unità nazionale seguendo percorsi
di fatto antitetici. In ogni caso, anche sulla scia di quanto stava avvenendo
in molti altri Paesi del continente europeo, fu un episodio di “guerra di
popolo”, le Cinque Giornate di Milano (18-23 marzo), a dare il via a quella che
sarà in seguito conosciuta come la Prima
Guerra d’Indipendenza. Paradigmatico esempio di un fenomeno
di guerriglia originatosi in un grande centro urbano, le Cinque Giornate
offrirono a Carlo Alberto il pretesto di cui aveva bisogno per dichiarare
guerra all’Austria. Tuttavia, fin dal primo momento si manifestò una
macroscopica contraddizione: l’esercito piemontese era chiamato a combattere
una guerra essenzialmente rivoluzionaria, per obiettivi e tattiche. Purtroppo,
non era in alcun modo pronto a farlo, né sul piano tattico né su quello
strategico. Di conseguenza, si mosse fin dall’inizio in una prospettiva di
conflitto dinastico, il cui traguardo finale non era quello di mettere in moto
il processo di unificazione nazionale ma, molto più semplicemente, quello di
annettere al regno sardo la
Lombardia , badando altresì a controllare che gli elementi
democratici non dessero alla battaglia comune una caratterizzazione
rivoluzionaria troppo marcata.
Il piccolo esercito piemontese
era una solida armata semiprofessionale, molto valida sul versante della bassa
forza, ma assai meno su quello del corpo ufficiali, dell’alto comando e delle
strutture logistiche. Diede buona prova di sé negli scontri che
caratterizzarono buona parte della campagna e tuttavia la sua solidità non poté
ovviare al fatto che l’alto comando non aveva le idee chiare sul da farsi: se
il regno sabaudo avesse inteso porsi decisamente alla testa del movimento di
indipendenza, avrebbe dovuto farlo con ben altra audacia e spirito di
iniziativa, offrendo inoltre maggiore supporto alle insurrezioni di tipo
democratico che si stavano sviluppando a Roma ed a Venezia, e accettando
altresì più volentieri il supporto che gli era stato offerto da altri Stati
italiani. Sfortunatamente, la prospettiva di Carlo Alberto rimaneva quella di
una guerra di annessione dinastica, per cui il suo esercito si mosse sempre con
molta prudenza, dando vita ad una serie di attività operative che è stata
definita – certo non con intenti apologetici – la “guerra delle ricognizioni
offensive”: del resto, poiché l’insurrezione popolare aveva spinto l’esercito
austriaco a ridosso delle fortezze del cosiddetto Quadrilatero, al confine tra
Lombardia e Veneto, il sovrano sardo riteneva che l’obiettivo principale del
conflitto – la conquista della Lombardia – potesse essere ritenuto acquisito e
non aveva alcuna intenzione di spingere la guerra a fondo, sperando che il
lavorio diplomatico gli potesse consentire di arrivare alla pace con un
cospicuo ampliamento territoriale.
In questa grande, e per certi
versi tragica, contrapposizione tra gli obiettivi della “guerra di popolo” e
della “guerra regia” erano già presenti, fin dal 1848, tutti i fattori che
anche sul piano militare, oltre che su quello politico, creeranno le grandi
fratture del Risorgimento: da una parte, lo Stato sabaudo, animato
essenzialmente da volontà di conquiste territoriali; dall’altra, un movimento
democratico generoso e patriottico, ma povero di mezzi e di competenze
militari; in mezzo, una popolazione contadina quasi del tutto incapace di
comprendere che cosa stava avvenendo, intrisa di fermenti reazionari (spesso e
volentieri alimentati dal clero) e comprensibilmente preoccupata di proteggere
le terre da cui traeva sostentamento dalle devastazioni del conflitto.
Il regno di Sardegna, peraltro,
era troppo piccolo e troppo debole per poter fare molto di più che punzecchiare
sui confini l’impero austro-ungarico, approfittando del fatto che nel 1848 la
monarchia asburgica era afflitta da gravi problemi interni; di conseguenza, il tempo
giocava a suo sfavore e, non appena gli austriaci riuscirono a raccogliere
forze sufficienti per lanciare una controffensiva e furono sicuri che le loro
linee di rifornimento non erano minacciate da possibili scoppi insurrezionali,
passarono risolutamente all’attacco. Nei dintorni di Custoza, tra il 23 e il 27
luglio di quell’anno, l’esercito piemontese venne sconfitto in una serie di
combattimenti confusi, dove a risultare risolutive furono soprattutto la forza
dei numeri e le superiori capacità tecniche del comando austriaco. Carlo
Alberto dovette ripiegare precipitosamente su Milano e naturalmente, posto di
fronte all’alternativa se chiamare gli italiani alla guerra rivoluzionaria o
ripiegare entro i confini del suo Stato, interrompendo il conflitto con un
armistizio, scelse la seconda ipotesi.
L’autunno del 1848 e i
primissimi mesi del 1849 furono un periodo confuso: il sovrano sabaudo pareva
deciso a riaprire le ostilità non appena possibile, alla ricerca di
un’improbabile rivincita, ma, una volta di più, la sua concezione dinastica
della guerra in atto gli impedì di entrare in sintonia con i patrioti che
mantenevano viva la resistenza antiaustriaca a Venezia e Roma. Inoltre, la
cattiva prova fornita l’anno prima dall’alto comando sardo lo indusse a cercare
all’estero uno specialista che potesse supplire a tali carenze ed egli credette
di averlo trovato nel generale polacco Chrzanowski, in realtà non
particolarmente capace ed eccessivamente prono ai voleri del sovrano. Con
premesse di questo genere, la guerra era già perduta prima ancora di essere
combattuta e in effetti ci vollero appena cinque giorni (dal 18 al 23 marzo del
1849) all’esercito austriaco per impartire ai piemontesi una decisiva sconfitta
nella battaglia di Novara. Carlo Alberto, sconvolto dalla disfatta, abdicò in
favore del figlio Vittorio Emanuele II, il quale concluse la pace con l’impero
austriaco. A quel punto, le repubbliche di Roma e Venezia rimasero da sole e
naturalmente furono travolte, anche se seppero opporre un’accanita resistenza,
durata molti mesi, nel corso della quale emersero lo slancio dei volontari e le
doti di combattente rivoluzionario di Giuseppe Garibaldi.
Nell’autunno 1849, lo scoppio
rivoluzionario che aveva infiammato l’Italia nel corso degli ultimi diciotto
mesi era esaurito. La sconfitta era stata pesante: da un lato, la “guerra
regia” aveva mostrato tutti i suoi limiti, che erano quantitativi prima ancora
che qualitativi, poiché l’esercito piemontese era troppo piccolo e troppo mal
comandato per poter fronteggiare le forze dell’impero austro-ungarico, per non
parlare del fatto che la soluzione di un conflitto convenzionale era certo
comprensibile, stante la natura del regno sardo, ma insufficiente a racchiudere
al proprio interno tutte le energie che la lotta per l’indipendenza nazionale
era in grado di raccogliere e attivare; dall’altro, la “guerra di popolo” era
figlia di una comprensibile volontà di combattere un nemico più forte con forme
di guerriglia e di conflitto asimmetrico, ma era figlia altresì di una nobile
illusione perché, più che “guerra di popolo” era in realtà guerra di borghesi,
di intellettuali, di studenti, di aristocrazia operaia, di un ceto variegato
che, in varie forme, aveva sviluppato una cultura e un’identità nazionali, ma
che, proprio come tale, in realtà era molto lontano dai tratti distintivi medi
del popolo italiano di quell’epoca, ignorante e alle prese con gravissimi
problemi di sopravvivenza quotidiana.
Era evidente che nessuna delle
due forme di guerra in contrasto, frutto della sempre più accentuata divisione
politica tra moderati filomonarchici e democratici di orientamento
repubblicano, era sufficiente, da sola, ad avere ragione del potente nemico
austriaco, e che la soluzione preferibile sarebbe stata quella di riuscire a
fonderle insieme, ma la cosa era più facile a dirsi che a farsi, perché le
scelte tecniche dipendevano da visioni politiche assai distanti. In ogni caso, la
spinta unitaria ormai era in moto: poteva essere repressa, non soffocata.