giovedì 7 novembre 2013

Storia della guerra - 21: La prima Guerra d'Indipendenza


   Per più di un trentennio, dopo il 1815, l’Europa poté godere di un periodo di pace, che venne interrotto soltanto dal grande sommovimento rivoluzionario del 1848, che per noi italiani si identifica con la Prima Guerra d’Indipendenza. Non è questa la sede per ricordare la lunga e travagliata storia del movimento unitario, ma non c’è dubbio che il sentimento di italianità trasse grande alimento dalla nascita, durante il periodo napoleonico, del Regno Italico, il cui esercito ebbe modo di illustrarsi nel corso di tutte le campagne dell’Impero. La stessa esperienza compiuta in quegli anni sui campi di battaglia europei da molti giovani italiani fu fondamentale per la loro formazione e le loro esperienze militari.

   Nel 1848, quando il regno di Sardegna, sotto la guida del re Carlo Alberto, scese in campo contro l’impero austro-ungarico, era da tempo in atto, a livello politico, un vivace dibattito su quale avrebbe dovuto essere la natura della guerra di liberazione nazionale: i democratici di ispirazione mazziniana erano favorevoli ad una “guerra di popolo” contro l’occupante, vale a dire un tipo di conflitto rivoluzionario che avrebbe dovuto nascere e trovare alimento dal basso, in una logica insurrezionale; i moderati legati alla monarchia sabauda, per contro, ritenevano che il conflitto contro l’Austria non avrebbe potuto essere altro che una “guerra regia”, vale a dire una guerra di tipo convenzionale di uno Stato sovrano – nel caso italiano il Regno sardo – contro un altro, l’impero asburgico.

   Questa fondamentale divisione, che rimase aperta per tutto il periodo del Risorgimento, era ovviamente frutto di due visioni politiche alquanto diverse e sostanzialmente inconciliabili, che perseguivano l’obiettivo del raggiungimento dell’unità nazionale seguendo percorsi di fatto antitetici. In ogni caso, anche sulla scia di quanto stava avvenendo in molti altri Paesi del continente europeo, fu un episodio di “guerra di popolo”, le Cinque Giornate di Milano (18-23 marzo), a dare il via a quella che sarà in seguito conosciuta come la Prima Guerra d’Indipendenza. Paradigmatico esempio di un fenomeno di guerriglia originatosi in un grande centro urbano, le Cinque Giornate offrirono a Carlo Alberto il pretesto di cui aveva bisogno per dichiarare guerra all’Austria. Tuttavia, fin dal primo momento si manifestò una macroscopica contraddizione: l’esercito piemontese era chiamato a combattere una guerra essenzialmente rivoluzionaria, per obiettivi e tattiche. Purtroppo, non era in alcun modo pronto a farlo, né sul piano tattico né su quello strategico. Di conseguenza, si mosse fin dall’inizio in una prospettiva di conflitto dinastico, il cui traguardo finale non era quello di mettere in moto il processo di unificazione nazionale ma, molto più semplicemente, quello di annettere al regno sardo la Lombardia, badando altresì a controllare che gli elementi democratici non dessero alla battaglia comune una caratterizzazione rivoluzionaria troppo marcata.

   Il piccolo esercito piemontese era una solida armata semiprofessionale, molto valida sul versante della bassa forza, ma assai meno su quello del corpo ufficiali, dell’alto comando e delle strutture logistiche. Diede buona prova di sé negli scontri che caratterizzarono buona parte della campagna e tuttavia la sua solidità non poté ovviare al fatto che l’alto comando non aveva le idee chiare sul da farsi: se il regno sabaudo avesse inteso porsi decisamente alla testa del movimento di indipendenza, avrebbe dovuto farlo con ben altra audacia e spirito di iniziativa, offrendo inoltre maggiore supporto alle insurrezioni di tipo democratico che si stavano sviluppando a Roma ed a Venezia, e accettando altresì più volentieri il supporto che gli era stato offerto da altri Stati italiani. Sfortunatamente, la prospettiva di Carlo Alberto rimaneva quella di una guerra di annessione dinastica, per cui il suo esercito si mosse sempre con molta prudenza, dando vita ad una serie di attività operative che è stata definita – certo non con intenti apologetici – la “guerra delle ricognizioni offensive”: del resto, poiché l’insurrezione popolare aveva spinto l’esercito austriaco a ridosso delle fortezze del cosiddetto Quadrilatero, al confine tra Lombardia e Veneto, il sovrano sardo riteneva che l’obiettivo principale del conflitto – la conquista della Lombardia – potesse essere ritenuto acquisito e non aveva alcuna intenzione di spingere la guerra a fondo, sperando che il lavorio diplomatico gli potesse consentire di arrivare alla pace con un cospicuo ampliamento territoriale.

   In questa grande, e per certi versi tragica, contrapposizione tra gli obiettivi della “guerra di popolo” e della “guerra regia” erano già presenti, fin dal 1848, tutti i fattori che anche sul piano militare, oltre che su quello politico, creeranno le grandi fratture del Risorgimento: da una parte, lo Stato sabaudo, animato essenzialmente da volontà di conquiste territoriali; dall’altra, un movimento democratico generoso e patriottico, ma povero di mezzi e di competenze militari; in mezzo, una popolazione contadina quasi del tutto incapace di comprendere che cosa stava avvenendo, intrisa di fermenti reazionari (spesso e volentieri alimentati dal clero) e comprensibilmente preoccupata di proteggere le terre da cui traeva sostentamento dalle devastazioni del conflitto.

   Il regno di Sardegna, peraltro, era troppo piccolo e troppo debole per poter fare molto di più che punzecchiare sui confini l’impero austro-ungarico, approfittando del fatto che nel 1848 la monarchia asburgica era afflitta da gravi problemi interni; di conseguenza, il tempo giocava a suo sfavore e, non appena gli austriaci riuscirono a raccogliere forze sufficienti per lanciare una controffensiva e furono sicuri che le loro linee di rifornimento non erano minacciate da possibili scoppi insurrezionali, passarono risolutamente all’attacco. Nei dintorni di Custoza, tra il 23 e il 27 luglio di quell’anno, l’esercito piemontese venne sconfitto in una serie di combattimenti confusi, dove a risultare risolutive furono soprattutto la forza dei numeri e le superiori capacità tecniche del comando austriaco. Carlo Alberto dovette ripiegare precipitosamente su Milano e naturalmente, posto di fronte all’alternativa se chiamare gli italiani alla guerra rivoluzionaria o ripiegare entro i confini del suo Stato, interrompendo il conflitto con un armistizio, scelse la seconda ipotesi.

   L’autunno del 1848 e i primissimi mesi del 1849 furono un periodo confuso: il sovrano sabaudo pareva deciso a riaprire le ostilità non appena possibile, alla ricerca di un’improbabile rivincita, ma, una volta di più, la sua concezione dinastica della guerra in atto gli impedì di entrare in sintonia con i patrioti che mantenevano viva la resistenza antiaustriaca a Venezia e Roma. Inoltre, la cattiva prova fornita l’anno prima dall’alto comando sardo lo indusse a cercare all’estero uno specialista che potesse supplire a tali carenze ed egli credette di averlo trovato nel generale polacco Chrzanowski, in realtà non particolarmente capace ed eccessivamente prono ai voleri del sovrano. Con premesse di questo genere, la guerra era già perduta prima ancora di essere combattuta e in effetti ci vollero appena cinque giorni (dal 18 al 23 marzo del 1849) all’esercito austriaco per impartire ai piemontesi una decisiva sconfitta nella battaglia di Novara. Carlo Alberto, sconvolto dalla disfatta, abdicò in favore del figlio Vittorio Emanuele II, il quale concluse la pace con l’impero austriaco. A quel punto, le repubbliche di Roma e Venezia rimasero da sole e naturalmente furono travolte, anche se seppero opporre un’accanita resistenza, durata molti mesi, nel corso della quale emersero lo slancio dei volontari e le doti di combattente rivoluzionario di Giuseppe Garibaldi.

   Nell’autunno 1849, lo scoppio rivoluzionario che aveva infiammato l’Italia nel corso degli ultimi diciotto mesi era esaurito. La sconfitta era stata pesante: da un lato, la “guerra regia” aveva mostrato tutti i suoi limiti, che erano quantitativi prima ancora che qualitativi, poiché l’esercito piemontese era troppo piccolo e troppo mal comandato per poter fronteggiare le forze dell’impero austro-ungarico, per non parlare del fatto che la soluzione di un conflitto convenzionale era certo comprensibile, stante la natura del regno sardo, ma insufficiente a racchiudere al proprio interno tutte le energie che la lotta per l’indipendenza nazionale era in grado di raccogliere e attivare; dall’altro, la “guerra di popolo” era figlia di una comprensibile volontà di combattere un nemico più forte con forme di guerriglia e di conflitto asimmetrico, ma era figlia altresì di una nobile illusione perché, più che “guerra di popolo” era in realtà guerra di borghesi, di intellettuali, di studenti, di aristocrazia operaia, di un ceto variegato che, in varie forme, aveva sviluppato una cultura e un’identità nazionali, ma che, proprio come tale, in realtà era molto lontano dai tratti distintivi medi del popolo italiano di quell’epoca, ignorante e alle prese con gravissimi problemi di sopravvivenza quotidiana.

   Era evidente che nessuna delle due forme di guerra in contrasto, frutto della sempre più accentuata divisione politica tra moderati filomonarchici e democratici di orientamento repubblicano, era sufficiente, da sola, ad avere ragione del potente nemico austriaco, e che la soluzione preferibile sarebbe stata quella di riuscire a fonderle insieme, ma la cosa era più facile a dirsi che a farsi, perché le scelte tecniche dipendevano da visioni politiche assai distanti. In ogni caso, la spinta unitaria ormai era in moto: poteva essere repressa, non soffocata.

                  Piero Visani