Fa sempre piacere leggere libri, specie se pubblicati di recente (quanto
meno in lingua italiana), dove le vicende storiche sono affrontate senza
retropensieri politici di alcun genere e dove tutte le ipotesi vengono
vagliate, senza escluderne alcuna, per ricomporre un quadro da cui –
trattandosi di storia militare – emerga unicamente la valentia tecnica dei
protagonisti. È quanto accade immergendosi nelle pagine de Il principe nero. Junio Valerio Borghese e la X Mas (Mondadori
2007), scritto da due esperti di guerra navale come Jack Greene e Alessandro
Massignani.
Certo, per noi italiani, passati
attraverso una dilacerante guerra civile, il solo accenno a certi nomi fa ancora
scattare reazioni pavloviane che peraltro, ad oltre un sessantennio di distanza,
appaiono sempre meno motivabili. E queste reazioni, intrise di passione
politica, fanno dimenticare il dato che oggi dovrebbe invece emergere con
forza: la nostra tradizione militare, per quanto criticatissima, non è priva di
figure di altissimo livello (non solo il comandante Borghese, ma uomini come
Teseo Tesei, Luigi Durand de la Penne, Gino Birindelli, Elios Toschi, per non
citarne che alcuni), capaci di illuminare, con le loro imprese, anche
un’esperienza militarmente funesta come la partecipazione al secondo conflitto
mondiale.
Dalle pagine del libro emergono
verità già note, ma mai adeguatamente pubblicizzate: siamo un popolo privo di
una reale tradizione militare, ma non certo privo di fulgide figure di
combattenti. L’istituzione militare, al pari di un po’ tutte quelle dello Stato
unitario, è stata spesso molto più un simulacro che una realtà, dando ricorrenti
prove di incompetenza, misoneismo, scarso professionismo e autentica incapacità
tecnica. Di conseguenza, le nostre virtù guerriere – che non mancano – hanno
dovuto venire a galla superando l’azione di filtro esercitata da una casta
professionale dove - come ha giustamente notato Domenico Quirico in Generali – la crescita esponenziale
delle fasce addominali pareva rappresentare il requisito primo da soddisfare
per gli ufficiai desiderosi di giungere ai vertici della gerarchia militare.
Così, è normale che siamo un
popolo adatto soprattutto alle forze speciali: le Forze Armate regolari sono state sempre
paralizzate dal burocratismo tipico di ogni istituzione nazionale, mentre nei
corpi d’élite ha potuto rifulgere l’individualismo di un popolo dove un pugno
di singoli spesso cerca di sopperire da solo alle macroscopiche carenze delle
istituzioni tradizionali, e talvolta ci riesce. Come tali, siamo di fatto gli
inventori di una forma peculiare di guerra asimmetrica, quella in cui i
combattenti non sono soltanto obbligati a sopperire alle carenze nei riguardi
del nemico, spesso frutto di una marcata disparità di forze, ma anche e soprattutto
a quelle derivanti dalle incredibili deficienze di strutture votate al vuoto
formalismo e non alla sostanza che, quando messe alla prova, combattono di
fatto dalla parte dell’avversario.
Questo è il grande merito del
libro di Greene e Massignani, non a caso concepito e scritto per un pubblico di
lingua inglese: sottolineare ciò che in realtà in Italia tutti dovrebbero
sapere, ma che invece è sempre stato tenuto accuratamente nascosto per evitare
che venissero fuori le non esaltanti verità che vi stanno dietro: pur
possedendo una flotta tra le prime al mondo, il ruolo della Marina italiana nel
secondo conflitto mondiale fu assai inferiore al suo reale potenziale. Il suo
prestigio – e quello della Nazione – venne tenuto in piedi dalle capacità e
dallo spirito di sacrificio dei singoli e di alcune unità di eccellenza come la
Decima Flottiglia Mas. È sufficiente, per dare corpo a questa affermazione,
leggere i commenti ammirati di parte britannica di fronte alla magistrale
incursione del 19 dicembre 1941 nel porto di Alessandria d’Egitto, che portò
all’affondamento delle corazzate inglesi Queen
Elisabeth e Valiant: «Tutti noi
pensavamo che la marina italiana fosse incapace, inefficiente, perfino
vigliacca» - ebbe a scrivere il guardiamarina Frank Wade, in servizio sulla
prima delle due corazzate - «tuttavia, ben presto dovremmo ricrederci e
riconoscere l’eroismo e l’ingegnosità dei suoi uomini». Lo stesso Winston
Churchill dovette ammettere, sia pure a denti stretti, che gli inglesi non
sembravano al momento capaci di condurre un’azione di quel livello.
La soluzione utilizzata dalla X
Mas, in realtà, era quella classica del moltiplicatore di forza affidato al
valore di pochi: essendo evidente l’inferiorità italiana sul mare di fronte
alla potenza della Royal Navy, alla
sua superiore tecnologia, alle sue portaerei, alla sua professionalità e alle
sue capacità di intelligence, alle
carenze strutturali si poteva comunque tentare di sopperire – con successo –
spostando la conflittualità ad altri livelli, creando asimmetrie di natura diversa
da quelle tradizionalmente esistenti e sfruttandole a proprio vantaggio. In
questa logica, era addirittura formidabile per modernità e intuito l’idea di
Borghese di condurre un attacco contro New York, nel corretto convincimento che
un’operazione del genere avrebbe rappresentato una grande vittoria morale, in
quanto avrebbe scosso la fiducia degli Stati Uniti nella propria
invulnerabilità.
È un peccato e anche
un’autentica iattura che fattori di grande rilievo come quelli testé citati
abbiano dovuto cedere il passo di fronte a considerazioni di carattere politico,
per quanto non incomprensibili nella storia italiana successiva. Tuttavia, se
mai questo Paese vorrà affacciarsi all’edificazione di una memoria condivisa,
difficilmente nella costruzione della medesima potranno mancare tutti coloro
che hanno tenuto alto il nome dell’Italia in uno dei momenti più difficili
della sua storia e hanno saputo meritarsi il rispetto dei nemici di un tempo.
Si tratta di un’autentica boccata di ossigeno di fronte al compiaciuto
autolesionismo dell’apologia del “tutti a casa!”, che è quanto di più negativo
possa esistere per una Nazione che non voglia votarsi in eterno ad una
condizione servile ed all’esaltazione del peggio e non del meglio di sé. La
società italiana ha un disperato bisogno di valori ed esempi positivi, e anche
se molti – paralizzati dal pregiudizio ideologico - non sono tuttora disposti
ad ammettere che i valori militari possano essere considerati di tipo positivo,
è sufficiente riflettere su ciò che ebbe a scrivere una figura di straordinaria
intensità come Teseo Tesei, anch’egli incursore della Marina, prima della sua
ultima missione: «L’esito della missione non ha molta importanza… e neanche
l’esito della guerra. Quello che veramente conta è che vi siano uomini disposti
a morire nel tentativo e che realmente muoiano: perché è dal sacrificio nostro
che le successive generazioni trarranno l’esempio e la forza per vincere». Se
la si estrapola dal suo contesto inevitabilmente bellico, questa frase esprime
un sentimento di continuità commovente, che ci fa ricordare che beati sono solo
i popoli che hanno bisogno di eroi, non gli altri. I cialtroni ed i vigliacchi,
infatti, li hanno tutti.
Piero Visani
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