Il
primo luglio 1988, visitando il National
War College di Fort McNair, alla periferia di Washington, ebbi modo di conoscere
molti docenti di quella che all’epoca era la massima istituzione culturale
militare degli Stati Uniti. Riscontrai in loro grande preparazione teorica e mi
colpì la frase con cui uno di essi mi illustrò quella che considerava
l’attività prioritaria del College: «qui insegniamo ai militari a dubitare». Mi
parve una dichiarazione programmatica di estremo interesse, nella sua sostanziale
iconoclastia, in un ambiente assai più proclive all’obbedienza cieca e
assoluta. E mi piacque molto l’atteggiamento positivamente dubitativo di un
intero staff destinato a perfezionare la preparazione dottrinale dei più alti
gradi delle Forze Armate Usa. Ricordo che mi sembrò il modo migliore per
iniziare un viaggio che mi avrebbe portato in dieci Stati, attraverso le più
diverse componenti dell’istituzione militare americana.
La favorevole impressione
iniziale, tuttavia, fu subito smenti-a dal contatto con la realtà di Esercito,
Marina, Aeronautica e Marines, dove non trovai proprio nulla che potesse
somigliare ad un dubbio, ma una rigida organizzazione gerarchica, basata fin
troppo spesso sulla stanca iterazione di formule vuote. L’unico militare che
riprese sul serio l’invito a dubitare fu – alla celebre scuola dei “Berretti
verdi”, la John F. Kennedy Special
Warfare School di Fort Bragg (North Carolina) – una figura quasi mitica
come il colonnello (in pensione) Bob Mountel, l’uomo che, insieme ad un pari
grado ancora più famoso, Charles Beckwith, aveva radicalmente trasformato
natura e caratteristiche delle forze speciali Usa.
Quell’esperienza mi è tornata in
mente, qualche anno fa, leggendo sulle pagine de “la Repubblica” il resoconto della visita dell' (allora) inviato
Mario Calabresi al Combating Terrorism
Center (CTC) della celebre accademia di West Point. Sotto il profilo
teorico, infatti, le testimonianze da lui raccolte sono sostanzialmente le
stesse da me messe insieme vent’anni prima, alla fine dell’epoca reaganiana,
quando ancora la guerra al terrorismo non era cominciata. E sono testimonianze
che, sotto il profilo teorico, non fanno una grinza: non c’è dubbio che la
guerra al terrorismo sia una battaglia di idee e di percezioni (ma tutti i
conflitti, non solo questo, lo sono), così come è indubbio che sia
indispensabile studiare approfonditamente il nemico per comprenderne natura e
caratteristiche, e per individuarne le vulnerabilità. Ma questo va fatto sempre
e comunque, sarebbe sorprendente il contrario.
Emerge dal tutto la sensazione –
sempre forte quando si partecipa a lezioni o seminari del mondo di cultura
anglosassone – che la teorizzazione dell’ovvio non sia un aspetto secondario di
questo universo, che spesso lascia perplessi molti europei. La stessa
contrapposizione tra grandi teorici della guerra come Sun Tzu e Carl von
Clausewitz fa rimanere interdetti per la sua natura palesemente strumentale,
visto che naturalmente quello bellico è un campo dove non è possibile applicare
ricette preconfezionate, sicuri che funzioneranno.
A mio parere, quello che viene
condotto è soprattutto un lavoro di sensibilizzazione, che investe non solo i
gradi più alti ma anche più bassi della gerarchia militare, cercando di diffondere
il convincimento che l’approccio fin qui adottato è stato sostanzialmente
errato. L’unilateralismo della cultura militare statunitense è un dato
storicamente accertato e ha un unico riferimento concettuale: la guerra
totale. Tanto per fare un esempio eloquente, incontrando Helmuth von Moltke in
occasione della guerra franco-prussiana del 1870-71, il generale Philip Sheridan,
il più brillante comandante di cavalleria unionista della Guerra Civile,
suggerì al suo attonito interlocutore che «la strategia adeguata consiste nel
[…] causare agli abitanti tante sofferenze da far sì che essi desiderino la
pace e costringano il governo a chiederla. Al popolo non devono rimanere che
gli occhi per piangere». La constatazione che questo suggerimento veniva da un generale americano a uno prussiano, e non viceversa, potrebbe far mutare tante idee preconfezionate esistenti in materia...
La dottrina della guerra totale
si è sempre posta al centro – in forma esplicita o meno – del pensiero militare
americano e i suoi irrinunciabili corollari sono stati la filosofia della
potenza del fuoco, il “firepower” destinato ad avere ragione di qualsiasi
nemico con le risorse dell’industria prima e della tecnologia poi, e i corollari
dell’overkilling e dei “danni
collaterali”. Ancora oggi, se si leggono i verbali dei frequenti processi
intentati a militari statunitensi resisi responsabili di spiacevoli incidenti
di “fuoco amico”, non si può fare a meno di notare che il desiderio di
sparare, in loro, è nettamente superiore (e prevalente) rispetto a qualsiasi
altra implicazione, compresa quella di colpire connazionali o alleati.
Il CTC di West Point svolge
dunque un lavoro altamente meritorio, perché si prefigge appunto di insegnare
a dubitare, di sgombrare la mente dei militari da troppo facili certezze, di liberarli
da una cultura unilaterale e sostanzialmente brutale per farne dei combattenti
più flessibili, meno ottusi, capaci di discriminare i loro obiettivi a fini di
conquista delle “menti e dei cuori” delle popolazioni locali. Sono decine,
riferiti alla sola guerra del Vietnam, i casi di uomini delle forze speciali
pazzi di rabbia contro quelli dell’Esercito regolare perché, dando fuoco senza
troppo pensarci su ad un qualche villaggio nell’intento di “salvarlo dal
comunismo” (sic), vanificavano mesi o anni di paziente lavoro dei “Berretti verdi”
con gli elementi locali e gettavano centinaia di persone nelle braccia dei
vietcong. È evidente l’intento della dirigenza militare attuale di non ripetere
quella distruttiva esperienza, ma il vero problema è più di carattere pratico
che teorico: come riuscire a far filtrare questi insegnamenti di modo che gli
ufficiali li abbiano bene in mente quando sono sotto il fuoco nemico, gli
uomini cominciano a cadere, le tensioni e le emozioni salgono all’eccesso, e
occorre avere il massimo controllo di sé per non compiere atti che si dimostrino
tragicamente controproducenti? Non pare che finora siano stati compiuti grandi progressi, al riguardo...
Piero Visani
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