lunedì 24 ottobre 2016

Storia della guerra - 22: La guerra di Crimea (1854-1856)



       Poche ma importanti sono le motivazioni che ci inducono a inserire la guerra di Crimea all’interno di questo lavoro. La prima è che essa evidenzia alcuni fondamentali cambiamenti in corso sul piano tattico e ormai sulla via di diventare definitivi. La seconda è che essa apre la vexata quaestio del ruolo della stampa e dell’informazione nel “racconto della guerra”, una questione che non si è risolta ancora oggi e che, anzi, si è complicata ulteriormente con la recente nascita della cosiddetta guerra ibrida (hybrid warfare), sulla quale ritorneremo più avanti, in due capitoli appositi.
          Sotto il profilo generale, infatti, il conflitto di Crimea scoppiò per il timore delle grandi potenze europee, e in particolare della Gran Bretagna, che la Russia, dopo aver distrutto la flotta turca a Sinope, nel novembre 1853, potesse cercare di approfittare della sempre più grave crisi dell’impero ottomano per operare delle conquiste territoriali a danno di quest’ultimo e per trovare degli sbocchi permanenti nel Mediterraneo. Fu questa la ragione per cui, nel marzo 1854, Gran Bretagna e Francia dichiararono guerra alla Russia; ad esse si aggiunse, alcuni mesi dopo, il Regno di Sardegna, ansioso di ottenere il sostegno delle due potenze occidentali alla sua politica di unificazione della penisola italiana.
        Il corpo di spedizione alleato venne fatto sbarcare in Crimea, dopo una lunga e complessa preparazione logistica, intorno alla metà di settembre del 1854, nell’evidente intento di bloccare sul nascere le basi di partenza dell’espansionismo russo verso la Turchia e il Mediterraneo. Dopo la vittoria conseguita dagli anglo-francesi nei pressi del fiume Alma (20 settembre), il successivo scontro di Balaclava (25 ottobre) è quello che ci consente di fare le considerazioni più significative sugli insegnamenti deducibili da questa guerra.
        Da tempo lo sviluppo tecnologico stava producendo un costante miglioramento dei sistemi d’arma, modificando il rapporto tra potenza del fuoco e capacità offensive e difensive dei reparti, fossero essi di fanteria o di cavalleria. Per quanto concerne la fanteria, ad esempio, l’avvento delle pallottole sottocalibrate (dette Miniè dal nome del loro inventore, un capitano dell’esercito francese), avvenuto intorno al 1850, consentì l’impiego in combattimento delle armi a canna rigata e aumentò di molto la distanza di ingaggio del nemico, poiché la portata pratica del fuoco di fucileria venne innalzata da poco più di cento a mille metri, anche se tali armi diventavano realmente efficaci a circa 600 metri.
       L’incremento della potenza del fuoco stava inoltre costringendo ad alcuni significativi mutamenti tattici: sul versante dell’offensiva, diventava sempre più utile rinunciare all’attacco in massa, per procedere invece all’attacco in ordine sparso, in modo da poter infliggere molto danno al nemico con la precisione delle nuove armi e, al tempo stesso, offrirgli il minor bersaglio possibile, rinunciando agli assalti in ordine chiuso tipici dell’epoca napoleonica.
       Un caso esemplare si verificò per l’appunto alla battaglia di Balaclava, quanto il 93° Reggimento di fanteria scozzese, gli Argyll & Sutherland Highlanders, colto di sorpresa da una subitanea avanzata della cavalleria russa, venne schierato dal suo comandante divisionale, il generale Colin Campbell, su una semplice doppia linea di fila, ben mascherata dietro una collina (quest’ultima – come noto – una classica scelta di ispirazione wellingtoniana, dunque ancora di tradizione napoleonica). Si trattava di una soluzione tattica assolutamente eterodossa, in quanto i manuali militari dell’epoca prevedevano che, a fronte di una minaccia da parte della cavalleria nemica, i reparti di fanteria dovessero schierarsi in quadrato o – come si stava sperimentando proprio in quegli anni, facendo riferimento alla potenza di fuoco delle nuove armi – su una tripla fila, in grado di far valere efficacemente cadenza e precisione della fucileria.
       Avendo a disposizione meno di un migliaio di uomini per coprire un ampio tratto di fronte, Campbell ricorse all’espediente della doppia fila, contando proprio sulla potenza di fuoco, la capacità di ingaggiare il nemico a grande distanza e la grande professionalità dei suoi Highlanders, soldati di mestiere fermamente decisi a vender cara la pelle.
       L’espediente funzionò egregiamente, tanto che la “sottile linea rossa” (“the thin red line”) degli Argyll & Sutherland Highlanders è passata alla storia come uno splendido esempio delle possibilità offerte dalle nuove armi alla fanteria di resistere a una carica di cavalleria senza doversi mettere in quadrato e ha segnato per sempre la storia di quel reggimento.
       Quello stesso giorno, ebbe luogo – sempre a Balaclava – la celeberrima “Carica della Brigata Leggera”, che al pubblico italiano è in genere nota come “Carica dei Seicento”. Nel corso di essa, lo scenario di prima, riferito alla carica della cavalleria russa contro la fanteria scozzese, si rovesciò completamente e la cavalleria inglese, lanciata incautamente all’assalto di solide posizioni dell’artiglieria russa, venne pesantemente colpita da quest’ultima, a ulteriore conferma del fatto che, man mano che il tempo passava e le armi da guerra evolvevano, qualsiasi attacco condotto in ordine chiuso contro il nemico era destinato a un sanguinoso fallimento, perché la potenza della difensiva stava prendendo nettamente il sopravvento su quella dell’offensiva, quanto meno di un’offensiva condotta in stile napoleonico, dunque senza nemmeno cercare di “ammorbidire” le difese nemiche con un bombardamento preliminare (peraltro destinato a rivelarsi molto spesso del tutto inefficace). Fu proprio tale atteggiamento insensato, non sorretto da alcuna considerazione tattica ma da una rigida adesione ai principi dell’onore e dell’etica militari, a far sì che, dei 673 effettivi iniziali della Brigata Leggera, solo 195 riuscirono a tornare alla base di partenza, avendo lasciato sul terreno 113 morti e 247 feriti. E fu questo stesso atteggiamento, osservato dall’esterno dal generale francese Pierre Bosquet, a fargli dire: “È magnifico, ma non è la guerra”.
       Se lo sviluppo tecnico degli armamenti stava sempre più influenzando la tattica, senza che per altro la maggior parte dell’ambiente militare, ancora eccessivamente condizionato dall’eredità napoleonica, se ne rendesse veramente conto (tant’è vero che le sue reazioni al riguardo furono estremamente lente), il conflitto di Crimea merita altresì di essere ricordato perché, nel corso di esso, si registrò la prima presenza di corrispondenti di guerra, in particolare di William Howard Russell, corrispondente del Times di Londra. Con essa, infatti, si aprì la pagina della questionetuttora irrisolta – del rapporto tra guerra e rappresentazione giornalistico/mediatica della medesima.
       Fino ad allora, infatti, la guerra aveva goduto di una rappresentazione esclusivamente eroica, molto utile a creare consenso nell’ambito della popolazione civile, ma poco o nulla conforme alla realtà. La presenza di corrispondenti come Russell, per contro, consentì di far pervenire al grande pubblico una visione decisamente più prosaica, dove non mancava certo l’eroismo, ma dove erano altresì presenti il sangue, la sofferenza, le miserie e la morte. Una visione decisamente più realistica, dunque, dove non solo venivano alla luce tutti gli orrori della guerra legati alle operazioni militari e agli scontri armati, ma anche quelli che i governi e gli alti comandi militari avrebbero preferito occultare, perché frutto di inefficienze, carenze ed omissioni. Scrisse ad esempio lo stesso Russell, profondamente colpito dalle atroci sofferenze patite dai membri del corpo di spedizione britannico, uccisi non solo dal nemico, ma anche dalla malnutrizione e dal colera, nonché dal freddo e dalla totale inefficienza dell’apparato logistico: «Da ciò che posso vedere, questi uomini muoiono senza che si faccia alcuno sforzo per salvarli». Fu proprio tale aperta denuncia a favorire l’apprezzamento dello sforzo di coloro che – come Florence Nightingale – si stavano prodigando per alleviare le sofferenze dei feriti, dei mutilati e dei malati causati dalla guerra.
        Fu la rivelazione di questi orrori, che erano al tempo stesso sia gli orrori tipici di ogni conflitto sia quelli provocati dall’insipienza dei governi e dall’incapacità degli apparati militari, a creare disorientamento nel pubblico, a dare una nuova immagine delle operazioni e soprattutto a indurre il governo britannico a sottoporre queste corrispondenze a una censura preventiva, di modo che arrivasse al pubblico solo ciò che il potere politico riteneva più opportuno. Si era avviata così una profonda frattura fra realtà e rappresentazione della guerra, frattura che ancora oggi attende di essere sanata.
        Dopo la conquista di Sebastopoli da parte degli alleati anglo-francesi, con il supporto piemontese e turco (settembre 1856), il conflitto si avviò rapidamente verso la conclusione, dal momento che il nuovo zar Alessandro II era ansioso di arrivare alla pace. Quest’ultima venne sancita il 30 marzo 1856, con il trattato di Parigi, con il quale la Russia riconobbe l’integrità territoriale dell’impero ottomano e rinunciò alle sue mire espansionistiche su di esso e nel Mediterraneo.
          In Crimea, per concludere, la guerra iniziò la sua marcia verso la modernità, tanto sul piano tattico quanto su quello comunicativo, ma ci sarebbe voluto ancora molto tempo e molti errori prima che questa marcia potesse definirsi compiuta.

                                                                        Piero Visani