Poche
ma importanti sono le motivazioni che ci inducono a inserire la guerra di
Crimea all’interno di questo lavoro. La prima è che essa evidenzia alcuni
fondamentali cambiamenti in corso sul piano tattico e ormai sulla via di
diventare definitivi. La seconda è che essa apre la vexata quaestio del ruolo della stampa e dell’informazione nel
“racconto della guerra”, una questione che non si è risolta ancora oggi e che,
anzi, si è complicata ulteriormente con la recente nascita della cosiddetta
guerra ibrida (hybrid warfare), sulla
quale ritorneremo più avanti, in due capitoli appositi.
Sotto il profilo generale,
infatti, il conflitto di Crimea scoppiò per il timore delle grandi potenze
europee, e in particolare della Gran Bretagna, che la Russia, dopo aver
distrutto la flotta turca a Sinope, nel novembre 1853, potesse cercare di
approfittare della sempre più grave crisi dell’impero ottomano per operare
delle conquiste territoriali a danno di quest’ultimo e per trovare degli
sbocchi permanenti nel Mediterraneo. Fu questa la ragione per cui, nel marzo
1854, Gran Bretagna e Francia dichiararono guerra alla Russia; ad esse si
aggiunse, alcuni mesi dopo, il Regno di Sardegna, ansioso di ottenere il
sostegno delle due potenze occidentali alla sua politica di unificazione della penisola italiana.
Il corpo di spedizione alleato
venne fatto sbarcare in Crimea, dopo una lunga e complessa preparazione
logistica, intorno alla metà di settembre del 1854, nell’evidente intento di
bloccare sul nascere le basi di partenza dell’espansionismo russo verso la
Turchia e il Mediterraneo. Dopo la vittoria conseguita dagli anglo-francesi nei
pressi del fiume Alma (20 settembre), il successivo scontro di Balaclava (25
ottobre) è quello che ci consente di fare le considerazioni più significative
sugli insegnamenti deducibili da questa guerra.
Da tempo lo sviluppo tecnologico
stava producendo un costante miglioramento dei sistemi d’arma, modificando il
rapporto tra potenza del fuoco e capacità offensive e difensive dei reparti,
fossero essi di fanteria o di cavalleria. Per quanto concerne la fanteria, ad
esempio, l’avvento delle pallottole sottocalibrate (dette Miniè dal nome del
loro inventore, un capitano dell’esercito francese), avvenuto intorno al 1850,
consentì l’impiego in combattimento delle armi a canna rigata e aumentò di
molto la distanza di ingaggio del nemico, poiché la portata pratica del fuoco
di fucileria venne innalzata da poco più di cento a mille metri, anche se tali
armi diventavano realmente efficaci a circa 600 metri.
L’incremento della potenza del
fuoco stava inoltre costringendo ad alcuni significativi mutamenti tattici: sul
versante dell’offensiva, diventava sempre più utile rinunciare all’attacco in
massa, per procedere invece all’attacco in ordine sparso, in modo da poter
infliggere molto danno al nemico con la precisione delle nuove armi e, al tempo
stesso, offrirgli il minor bersaglio possibile, rinunciando agli assalti in
ordine chiuso tipici dell’epoca napoleonica.
Un caso esemplare si verificò per
l’appunto alla battaglia di Balaclava, quanto il 93° Reggimento di fanteria
scozzese, gli Argyll & Sutherland
Highlanders, colto di sorpresa da una subitanea avanzata della cavalleria
russa, venne schierato dal suo comandante divisionale, il generale Colin
Campbell, su una semplice doppia linea di fila, ben mascherata dietro una
collina (quest’ultima – come noto – una classica scelta di ispirazione
wellingtoniana, dunque ancora di tradizione napoleonica). Si trattava di una
soluzione tattica assolutamente eterodossa, in quanto i manuali militari
dell’epoca prevedevano che, a fronte di una minaccia da parte della cavalleria
nemica, i reparti di fanteria dovessero schierarsi in quadrato o – come si
stava sperimentando proprio in quegli anni, facendo riferimento alla potenza di
fuoco delle nuove armi – su una tripla fila, in grado di far valere
efficacemente cadenza e precisione della fucileria.
Avendo a disposizione meno di un
migliaio di uomini per coprire un ampio tratto di fronte, Campbell ricorse
all’espediente della doppia fila, contando proprio sulla potenza di fuoco, la
capacità di ingaggiare il nemico a grande distanza e la grande professionalità
dei suoi Highlanders, soldati di
mestiere fermamente decisi a vender cara la pelle.
L’espediente funzionò
egregiamente, tanto che la “sottile linea rossa” (“the thin red line”) degli
Argyll & Sutherland Highlanders è
passata alla storia come uno splendido esempio delle possibilità offerte dalle
nuove armi alla fanteria di resistere a una carica di cavalleria senza doversi
mettere in quadrato e ha segnato per sempre la storia di quel reggimento.
Quello stesso giorno, ebbe luogo
– sempre a Balaclava – la celeberrima “Carica della Brigata Leggera”, che al
pubblico italiano è in genere nota come “Carica dei Seicento”. Nel corso di
essa, lo scenario di prima, riferito alla carica della cavalleria russa contro
la fanteria scozzese, si rovesciò completamente e la cavalleria inglese,
lanciata incautamente all’assalto di solide posizioni dell’artiglieria russa,
venne pesantemente colpita da quest’ultima, a ulteriore conferma del fatto che,
man mano che il tempo passava e le armi da guerra evolvevano, qualsiasi attacco
condotto in ordine chiuso contro il nemico era destinato a un sanguinoso
fallimento, perché la potenza della difensiva stava prendendo nettamente il
sopravvento su quella dell’offensiva, quanto meno di un’offensiva condotta in
stile napoleonico, dunque senza nemmeno cercare di “ammorbidire” le difese
nemiche con un bombardamento preliminare (peraltro destinato a rivelarsi molto
spesso del tutto inefficace). Fu proprio tale atteggiamento insensato, non
sorretto da alcuna considerazione tattica ma da una rigida adesione ai principi
dell’onore e dell’etica militari, a far sì che, dei 673 effettivi iniziali
della Brigata Leggera, solo 195 riuscirono a tornare alla base di partenza,
avendo lasciato sul terreno 113 morti e 247 feriti. E fu questo stesso
atteggiamento, osservato dall’esterno dal generale francese Pierre Bosquet, a
fargli dire: “È magnifico, ma non è la
guerra”.
Se lo sviluppo tecnico degli
armamenti stava sempre più influenzando la tattica, senza che per altro la
maggior parte dell’ambiente militare, ancora eccessivamente condizionato
dall’eredità napoleonica, se ne rendesse veramente conto (tant’è vero che le
sue reazioni al riguardo furono estremamente lente), il conflitto di Crimea merita
altresì di essere ricordato perché, nel corso di esso, si registrò la prima
presenza di corrispondenti di guerra, in particolare di William Howard Russell,
corrispondente del Times di Londra.
Con essa, infatti, si aprì la pagina della questione – tuttora irrisolta – del rapporto tra guerra e rappresentazione giornalistico/mediatica
della medesima.
Fino ad allora, infatti, la
guerra aveva goduto di una rappresentazione esclusivamente eroica, molto utile
a creare consenso nell’ambito della popolazione civile, ma poco o nulla
conforme alla realtà. La presenza di corrispondenti come Russell, per contro, consentì
di far pervenire al grande pubblico una visione decisamente più prosaica, dove
non mancava certo l’eroismo, ma dove erano altresì presenti il sangue, la
sofferenza, le miserie e la morte. Una visione decisamente più realistica,
dunque, dove non solo venivano alla luce tutti gli orrori della guerra legati
alle operazioni militari e agli scontri armati, ma anche quelli che i governi e
gli alti comandi militari avrebbero preferito occultare, perché frutto di
inefficienze, carenze ed omissioni. Scrisse ad esempio lo stesso Russell,
profondamente colpito dalle atroci sofferenze patite dai membri del corpo di spedizione
britannico, uccisi non solo dal nemico, ma anche dalla malnutrizione e dal
colera, nonché dal freddo e dalla totale inefficienza dell’apparato logistico: «Da ciò che posso vedere, questi uomini
muoiono senza che si faccia alcuno sforzo per salvarli». Fu proprio tale
aperta denuncia a favorire l’apprezzamento dello sforzo di coloro che – come
Florence Nightingale – si stavano prodigando per alleviare le sofferenze dei
feriti, dei mutilati e dei malati causati dalla guerra.
Fu la rivelazione di questi
orrori, che erano al tempo stesso sia gli orrori tipici di ogni conflitto sia
quelli provocati dall’insipienza dei governi e dall’incapacità degli apparati
militari, a creare disorientamento nel pubblico, a dare una nuova immagine
delle operazioni e soprattutto a indurre il governo britannico a sottoporre
queste corrispondenze a una censura preventiva, di modo che arrivasse al
pubblico solo ciò che il potere politico riteneva più opportuno. Si era avviata
così una profonda frattura fra realtà e rappresentazione della guerra, frattura
che ancora oggi attende di essere sanata.
Dopo la conquista di Sebastopoli
da parte degli alleati anglo-francesi, con il supporto piemontese e turco
(settembre 1856), il conflitto si avviò rapidamente verso la conclusione, dal
momento che il nuovo zar Alessandro II era ansioso di arrivare alla pace. Quest’ultima
venne sancita il 30 marzo 1856, con il trattato di Parigi, con il quale la
Russia riconobbe l’integrità territoriale dell’impero ottomano e rinunciò alle
sue mire espansionistiche su di esso e nel Mediterraneo.
In Crimea, per concludere, la
guerra iniziò la sua marcia verso la modernità, tanto sul piano tattico quanto
su quello comunicativo, ma ci sarebbe voluto ancora molto tempo e molti errori
prima che questa marcia potesse definirsi compiuta.
Piero
Visani