La
guerra del 1866, l’ultima delle guerre di indipendenza, rappresentò il primo
conflitto in cui risultò impegnato il neonato esercito italiano, il quale –
proprio perché molto giovane – era improvvisato ed eterogeneo, e si presentava
come un semplice ingrandimento di quello piemontese, di cui manifestava gli
stessi difetti, tanto a livello di organizzazione quanto di comando.
La guerra, condotta in alleanza
con la Prussia, aveva come obiettivo la liberazione del Veneto dal dominio
austro-ungarico e, esattamente come era accaduto nel 1859, faceva riferimento a
una grande potenza straniera onde evitare di sopportare in prima persona gli
oneri di un conflitto diretto con l’impero asburgico, dei cui esiti non si era
evidentemente troppo sicuri, a voler usare un eufemismo.
Preparata politicamente e
diplomaticamente assai male, la Terza guerra d’indipendenza risultò anche
peggiore sul piano strategico, dove i contrasti e le invidie tra La Marmora e
Cialdini (i due principali comandanti militari italiani dell’epoca) portarono
alla divisione dell’esercito in due masse separate, ciò che annullava la
schiacciante superiorità numerica italiana (il grosso delle forze austriache
era stato infatti comprensibilmente rivolto contro la Prussia, mentre il fronte
italiano era decisamente più sguarnito) e faceva il gioco del nemico,
favorendone la manovra per linee interne. Accadde così che la prima massa,
quella al comando del La Marmora, dopo aver varcato il Mincio, venne sorpresa
dal nemico e sconfitta a Custoza (24 giugno 1866). Si trattava di un semplice
insuccesso tattico, essenzialmente frutto della disorganizzazione e
disarticolazione dei comandi, ma esso venne trasformato – quanto meno a livello
psicologico – in una grave sconfitta dalle paure e dal disorientamento che
colsero lo Stato Maggiore italiano. Ne derivò, in campo terrestre, l’inazione
più completa.
La classe dirigente
politico-militare italiana cercò allora il riscatto sul mare, poiché si temeva
di ottenere il Veneto (che già si sapeva acquisito per via diplomatica grazie
alla mediazione francese) senza aver vinto nemmeno una battaglia, ciò che
avrebbe rappresentato un’onta non da poco. Era la prima volta, di fatto, che ci
si accingeva a dare alla Marina militare il suo giusto ruolo, cosa che non era
mai accaduta nelle altre campagne del Risorgimento, nelle quali essa era stata
gravemente (e ingiustamente) trascurata. Tuttavia, la Marina italiana era di
recente costituzione esattamente come l’esercito e proprio come quest’ultimo
scontava l’assoluta eterogeneità della sua formazione, frutto di un’affrettata
amalgama fra le diverse componenti navali preunitarie. Inoltre, essa era del
tutto impreparata ad affrontare una guerra e per di più la squadra navale era
guidata da un ammiraglio inetto, Carlo Pellion di Persano, inviso ai colleghi e
disprezzato dai subordinati.
Per quanto possa apparire
sorprendente, non era stato preparato alcun piano operativo per la flotta
italiana e lo stesso Persano era decisamente contrario a una qualche azione
offensiva, per cui furono necessarie pesanti pressioni del potere politico per
indurlo ad agire. Egli si decise perciò a muovere verso l’isola dalmata di
Lissa, dove però venne sorpreso dalla flotta austriaca, quantitativamente e
qualitativamente molto inferiore a quella italiana, ma molto ben guidata, e sonoramente
sconfitto (20 luglio). La leggenda vuole che il comandante della flotta
austriaca, l’ammiraglio Tegetthoff, abbia commendato la sua vittoria con la
frase, divenuta celebre: «Navi di legno comandate da uomini con la
testa di ferro hanno sconfitto navi di ferro comandate da uomini con la testa
di legno». Sarà pure
una frase leggendaria, ma ha il merito di fotografare alla perfezione una
situazione, destinata purtroppo a ripetersi in molte altre occasioni, nella
storia nazionale.
Dopo questo secondo e
assai più grave insuccesso militare, la stasi delle operazioni divenne completa
e l’avanzata delle forze italiane riprese solo dopo l’avvio della ritirata
delle truppe austriache verso il cuore dell’impero, causata dalle sconfitte subite
contro i prussiani. La pace di Vienna (3 ottobre) sancì l’annessione italiana
del Veneto.
I presupposti
politico-diplomatici della Terza Guerra d’Indipendenza sono assolutamente
chiari. Dopo il conseguimento dell’unità nazionale (marzo 1861), la monarchia
sabauda aveva assolutamente bisogno di tenere alto il suo recente prestigio con
un’energica azione per il completamento dell’unità stessa, ciò che avrebbe reso
preferibile ottenere il Veneto con una campagna militare vittoriosa, piuttosto
che con una manovra diplomatica. Per la realizzazione di tale politica,
tuttavia, il Regno d’Italia aveva bisogno di alleati potenti, dal momento che
era universalmente riconosciuto che esso, da solo, non sarebbe mai riuscito a
sconfiggere l’impero austro-ungarico. In tale prospettiva, venne stipulata
l’alleanza con la Prussia. Tuttavia, quando divenne per la terza volta primo
ministro il generale Alfonso La Marmora (1864), tutta questa politica cominciò
ad essere apertamente contraddetta ed egli adottò una linea di estrema cautela,
tesa ad ottenere il Veneto con il minimo sforzo, cioè per via diplomatica o,
nella peggiore delle ipotesi, con un abbozzo di guerra da combattere
soprattutto per giustificare davanti alle potenze europee la legittimità delle
aspirazioni italiane ad acquisire quella regione. Tale doppiezza si riflesse
inevitabilmente sulla preparazione militare del conflitto e sulla sua
successiva condotta strategica, dal momento che in pratica l’Italia scese in
guerra senza essersi posta alcun preciso obiettivo militare, ma solo una
finalità politica di fondo.
Per quanto concerne
la preparazione militare, a un quinquennio dal conseguimento dell’unità
l’esercito italiano era ancora del tutto disorganizzato ed eterogeneo, e per di
più fortemente provato dalla lunga e durissima lotta condotta contro il
fenomeno del cosiddetto brigantaggio nelle regioni meridionali. A ciò si deve
aggiungere che non era stato in alcun modo risolto il problema della creazione
di un esercito nazionale, se non nel senso di un allargamento a dismisura di
quello piemontese, il che aveva consentito rapide carriere a soggetti che erano
del tutto impreparati e soprattutto inadeguati a pervenire agli alti gradi. Gli
esiti della campagna, tanto sul piano terrestre quanto su quello navale, furono
assolutamente eloquenti in tal senso.
Nella guerra del
1866, inoltre, il ruolo del volontariato garibaldino fu alquanto limitato, né
avrebbe potuto essere diversamente, se si tiene conto dell’impegno profuso
dalle forze politiche moderate nella liquidazione dell’esercito meridionale
dopo l’esito vittorioso della spedizione dei Mille. Il volontariato, infatti,
sebbene composto da elementi di provenienza politica alquanto eterogenea,
continuava pur sempre a rappresentare, quanto meno agli occhi dei moderati,
l’espressione militare di una forza politica loro avversa. L’impiego dei
volontari costituiva perciò un problema per il governo italiano, che da un lato
intendeva evitare fermenti politici pericolosi, ma dall’altro riteneva di non
poter comunque farne a meno, per non mettersi troppo in urto con le forze
democratiche. Di conseguenza, dopo aver concesso che i volontari garibaldini
potessero partecipare al conflitto, si cercò in ogni modo di circoscriverne
libertà e raggio d’azione, ponendoli sia in subordine alle forze regolari sia
costringendoli ad operare in una zona secondaria del teatro d’operazioni, dove
la loro incidenza sarebbe rimasta limitata e dove – soprattutto – furono
costretti a condurre una forma particolare di guerra regolare, cioè di “guerra
regia”, e non la “guerra di popolo” che sarebbe stata nelle loro ambizioni e
potenzialità. Tutti questi fattori - uniti al cattivo e frettoloso inquadramento
dei volontari, al loro deficiente armamento ed equipaggiamento, come pure
all’ottima difesa condotta dagli austriaci, largamente favorita da un terreno
aspro e montuoso - chiariscono a sufficienza i motivi per cui la campagna
garibaldina del 1866 non fu all’altezza delle precedenti. Da parte italiana,
tuttavia, le uniche belle pagine della campagna furono scritte proprio dai
volontari garibaldini, in particolar modo a Bezzecca (21 luglio).
La Terza Guerra
d’Indipendenza, in ogni caso, riveste un ruolo importante nella storia nazionale
perché è la prima in cui si manifesta un
modo italiano di fare la guerra che – da allora - ha segnato in profondità
la vicenda storica nazionale: una classe politico-militare incerta a tutto, per
nulla convinta del modo con cui raggiungere i propri obiettivi politici e ancor
meno disposta a sostenere le spese necessarie per dotarsi di una strumento
militare adeguato, sia terrestre sia navale; un corpo ufficiali poco aggiornato
sotto il profilo tecnico e molto autoreferenziale su quello dottrinale e sociale;
una preoccupante sottovalutazione dell’importanza dell’aggressività in campo
militare e un’ancora più preoccupante inclinazione a sacrificare le vite altrui, nella fattispecie quelle degli alleati di turno, al fine di raggiungere
con il minor sacrificio possibile gli obiettivi politici. Si tratta di un
modello comportamentale che tenderà a ripetersi con preoccupante frequenza e
che segnerà nel peggiore dei modi la nostra storia unitaria, anche in tutti i
conflitti successivi in cui il nostro Paese sarà impegnato. Di questo modo italiano di fare la guerra non si è mai
parlato granché e anche oggi su di esso si preferisce glissare, sia perché è
assolutamente conforme al carattere nazionale sia perché, a partire dal secondo
dopoguerra, ha cominciato ad intersecarsi con la retorica sull’inclinazione naturalmente
pacifista (che non equivale a dire “naturalmente pacifica”, anzi…) degli
italiani e delle loro stesse forze militari. I risultati di tale disposizione
mentale sono sotto gli occhi di tutti e hanno accelerato la nostra progressione
come Paese privo di sovranità reale e privo anche di una vera cultura militare.
Gli odierni “soldati di pace” sono il naturale esito di tale sconcertante
deriva, così come lo è la reale (che non è quella dichiarata…) reputazione militare
internazionale dell’Italia.
Piero
Visani