sabato 29 ottobre 2016

Storia della guerra - 25: La Terza Guerra d'Indipendenza (1866)

       La guerra del 1866, l’ultima delle guerre di indipendenza, rappresentò il primo conflitto in cui risultò impegnato il neonato esercito italiano, il quale – proprio perché molto giovane – era improvvisato ed eterogeneo, e si presentava come un semplice ingrandimento di quello piemontese, di cui manifestava gli stessi difetti, tanto a livello di organizzazione quanto di comando.
        La guerra, condotta in alleanza con la Prussia, aveva come obiettivo la liberazione del Veneto dal dominio austro-ungarico e, esattamente come era accaduto nel 1859, faceva riferimento a una grande potenza straniera onde evitare di sopportare in prima persona gli oneri di un conflitto diretto con l’impero asburgico, dei cui esiti non si era evidentemente troppo sicuri, a voler usare un eufemismo.
        Preparata politicamente e diplomaticamente assai male, la Terza guerra d’indipendenza risultò anche peggiore sul piano strategico, dove i contrasti e le invidie tra La Marmora e Cialdini (i due principali comandanti militari italiani dell’epoca) portarono alla divisione dell’esercito in due masse separate, ciò che annullava la schiacciante superiorità numerica italiana (il grosso delle forze austriache era stato infatti comprensibilmente rivolto contro la Prussia, mentre il fronte italiano era decisamente più sguarnito) e faceva il gioco del nemico, favorendone la manovra per linee interne. Accadde così che la prima massa, quella al comando del La Marmora, dopo aver varcato il Mincio, venne sorpresa dal nemico e sconfitta a Custoza (24 giugno 1866). Si trattava di un semplice insuccesso tattico, essenzialmente frutto della disorganizzazione e disarticolazione dei comandi, ma esso venne trasformato – quanto meno a livello psicologico – in una grave sconfitta dalle paure e dal disorientamento che colsero lo Stato Maggiore italiano. Ne derivò, in campo terrestre, l’inazione più completa.
        La classe dirigente politico-militare italiana cercò allora il riscatto sul mare, poiché si temeva di ottenere il Veneto (che già si sapeva acquisito per via diplomatica grazie alla mediazione francese) senza aver vinto nemmeno una battaglia, ciò che avrebbe rappresentato un’onta non da poco. Era la prima volta, di fatto, che ci si accingeva a dare alla Marina militare il suo giusto ruolo, cosa che non era mai accaduta nelle altre campagne del Risorgimento, nelle quali essa era stata gravemente (e ingiustamente) trascurata. Tuttavia, la Marina italiana era di recente costituzione esattamente come l’esercito e proprio come quest’ultimo scontava l’assoluta eterogeneità della sua formazione, frutto di un’affrettata amalgama fra le diverse componenti navali preunitarie. Inoltre, essa era del tutto impreparata ad affrontare una guerra e per di più la squadra navale era guidata da un ammiraglio inetto, Carlo Pellion di Persano, inviso ai colleghi e disprezzato dai subordinati.
        Per quanto possa apparire sorprendente, non era stato preparato alcun piano operativo per la flotta italiana e lo stesso Persano era decisamente contrario a una qualche azione offensiva, per cui furono necessarie pesanti pressioni del potere politico per indurlo ad agire. Egli si decise perciò a muovere verso l’isola dalmata di Lissa, dove però venne sorpreso dalla flotta austriaca, quantitativamente e qualitativamente molto inferiore a quella italiana, ma molto ben guidata, e sonoramente sconfitto (20 luglio). La leggenda vuole che il comandante della flotta austriaca, l’ammiraglio Tegetthoff, abbia commendato la sua vittoria con la frase, divenuta celebre: «Navi di legno comandate da uomini con la testa di ferro hanno sconfitto navi di ferro comandate da uomini con la testa di legno». Sarà pure una frase leggendaria, ma ha il merito di fotografare alla perfezione una situazione, destinata purtroppo a ripetersi in molte altre occasioni, nella storia nazionale.
        Dopo questo secondo e assai più grave insuccesso militare, la stasi delle operazioni divenne completa e l’avanzata delle forze italiane riprese solo dopo l’avvio della ritirata delle truppe austriache verso il cuore dell’impero, causata dalle sconfitte subite contro i prussiani. La pace di Vienna (3 ottobre) sancì l’annessione italiana del Veneto.
        I presupposti politico-diplomatici della Terza Guerra d’Indipendenza sono assolutamente chiari. Dopo il conseguimento dell’unità nazionale (marzo 1861), la monarchia sabauda aveva assolutamente bisogno di tenere alto il suo recente prestigio con un’energica azione per il completamento dell’unità stessa, ciò che avrebbe reso preferibile ottenere il Veneto con una campagna militare vittoriosa, piuttosto che con una manovra diplomatica. Per la realizzazione di tale politica, tuttavia, il Regno d’Italia aveva bisogno di alleati potenti, dal momento che era universalmente riconosciuto che esso, da solo, non sarebbe mai riuscito a sconfiggere l’impero austro-ungarico. In tale prospettiva, venne stipulata l’alleanza con la Prussia. Tuttavia, quando divenne per la terza volta primo ministro il generale Alfonso La Marmora (1864), tutta questa politica cominciò ad essere apertamente contraddetta ed egli adottò una linea di estrema cautela, tesa ad ottenere il Veneto con il minimo sforzo, cioè per via diplomatica o, nella peggiore delle ipotesi, con un abbozzo di guerra da combattere soprattutto per giustificare davanti alle potenze europee la legittimità delle aspirazioni italiane ad acquisire quella regione. Tale doppiezza si riflesse inevitabilmente sulla preparazione militare del conflitto e sulla sua successiva condotta strategica, dal momento che in pratica l’Italia scese in guerra senza essersi posta alcun preciso obiettivo militare, ma solo una finalità politica di fondo.
         Per quanto concerne la preparazione militare, a un quinquennio dal conseguimento dell’unità l’esercito italiano era ancora del tutto disorganizzato ed eterogeneo, e per di più fortemente provato dalla lunga e durissima lotta condotta contro il fenomeno del cosiddetto brigantaggio nelle regioni meridionali. A ciò si deve aggiungere che non era stato in alcun modo risolto il problema della creazione di un esercito nazionale, se non nel senso di un allargamento a dismisura di quello piemontese, il che aveva consentito rapide carriere a soggetti che erano del tutto impreparati e soprattutto inadeguati a pervenire agli alti gradi. Gli esiti della campagna, tanto sul piano terrestre quanto su quello navale, furono assolutamente eloquenti in tal senso.
        Nella guerra del 1866, inoltre, il ruolo del volontariato garibaldino fu alquanto limitato, né avrebbe potuto essere diversamente, se si tiene conto dell’impegno profuso dalle forze politiche moderate nella liquidazione dell’esercito meridionale dopo l’esito vittorioso della spedizione dei Mille. Il volontariato, infatti, sebbene composto da elementi di provenienza politica alquanto eterogenea, continuava pur sempre a rappresentare, quanto meno agli occhi dei moderati, l’espressione militare di una forza politica loro avversa. L’impiego dei volontari costituiva perciò un problema per il governo italiano, che da un lato intendeva evitare fermenti politici pericolosi, ma dall’altro riteneva di non poter comunque farne a meno, per non mettersi troppo in urto con le forze democratiche. Di conseguenza, dopo aver concesso che i volontari garibaldini potessero partecipare al conflitto, si cercò in ogni modo di circoscriverne libertà e raggio d’azione, ponendoli sia in subordine alle forze regolari sia costringendoli ad operare in una zona secondaria del teatro d’operazioni, dove la loro incidenza sarebbe rimasta limitata e dove – soprattutto – furono costretti a condurre una forma particolare di guerra regolare, cioè di “guerra regia”, e non la “guerra di popolo” che sarebbe stata nelle loro ambizioni e potenzialità. Tutti questi fattori - uniti al cattivo e frettoloso inquadramento dei volontari, al loro deficiente armamento ed equipaggiamento, come pure all’ottima difesa condotta dagli austriaci, largamente favorita da un terreno aspro e montuoso - chiariscono a sufficienza i motivi per cui la campagna garibaldina del 1866 non fu all’altezza delle precedenti. Da parte italiana, tuttavia, le uniche belle pagine della campagna furono scritte proprio dai volontari garibaldini, in particolar modo a Bezzecca (21 luglio).
        La Terza Guerra d’Indipendenza, in ogni caso, riveste un ruolo importante nella storia nazionale perché è la prima in cui si manifesta un modo italiano di fare la guerra che – da allora - ha segnato in profondità la vicenda storica nazionale: una classe politico-militare incerta a tutto, per nulla convinta del modo con cui raggiungere i propri obiettivi politici e ancor meno disposta a sostenere le spese necessarie per dotarsi di una strumento militare adeguato, sia terrestre sia navale; un corpo ufficiali poco aggiornato sotto il profilo tecnico e molto autoreferenziale su quello dottrinale e sociale; una preoccupante sottovalutazione dell’importanza dell’aggressività in campo militare e un’ancora più preoccupante inclinazione a sacrificare le vite altrui, nella fattispecie quelle degli alleati di turno, al fine di raggiungere con il minor sacrificio possibile gli obiettivi politici. Si tratta di un modello comportamentale che tenderà a ripetersi con preoccupante frequenza e che segnerà nel peggiore dei modi la nostra storia unitaria, anche in tutti i conflitti successivi in cui il nostro Paese sarà impegnato. Di questo modo italiano di fare la guerra non si è mai parlato granché e anche oggi su di esso si preferisce glissare, sia perché è assolutamente conforme al carattere nazionale sia perché, a partire dal secondo dopoguerra, ha cominciato ad intersecarsi con la retorica sull’inclinazione naturalmente pacifista (che non equivale a dire “naturalmente pacifica”, anzi…) degli italiani e delle loro stesse forze militari. I risultati di tale disposizione mentale sono sotto gli occhi di tutti e hanno accelerato la nostra progressione come Paese privo di sovranità reale e privo anche di una vera cultura militare. Gli odierni “soldati di pace” sono il naturale esito di tale sconcertante deriva, così come lo è la reale (che non è quella dichiarata…) reputazione militare internazionale dell’Italia.


                                   Piero Visani