Ci sono frasi o frasette che ci accompagnano per la vita. La mia, quella che mi riguarda, è "fuori dal mondo". Me lo disse per la prima volta, in terza media, la preside della mia scuola, dopo che un compagno di "provata fede" cattolica mi aveva "denunciato" perché non avevo partecipato alla messa pasquale e non avevo fatto la comunione. La preside mi convocò per avere spiegazioni e io le dissi che, in uno Stato laico e in una scuola media pubblica, io non ero tenuto ad assolvere pratiche di una religione che non condividevo. La preside insistette un po' per farmi fare abiura e, siccome non ero già allora uso a farle, mi liquidò con uno scocciato "tu sei fuori dal mondo!".
Presi quella frase come una medaglia al valore, ma mi accorsi che poteva anche non essere così quando, poco più di un anno dopo, al ginnasio, una compagna di scuola di cui ero parecchio innamorato mi chiese di abiurare la mia fede politica (ero iscritto alla "Giovane Italia", organizzazione giovanile missina) se volevo essere oggetto delle sue attenzioni. Risposi picche e siccome la giovinetta aveva alta stima di sé e della sua innegabile bellezza (oltre che dei "valori democratici", suppongo), mi fece notare che "ero fuori dal mondo".
Da allora, passando per il liceo, l'università, i primi approcci con il mondo del lavoro, io sono sempre stato giudicato "fuori dal mondo", essenzialmente per la mia scarsissima inclinazione alla mediazione, mediazione che il più delle volte consisteva nel chinare passivamente il capo di fronte ai desiderata altrui.
Lasciai l'università, dove pure mi si prospettava una qualche carriera, per aderire alla Nuova Destra e, con quella scelta, feci anche andare in fumo un contratto con la Feltrinelli per scrivere un libro sulla storia dell'esercito italiano tra il 1887 e il 1896. Anche a casa, io divenni un "fuori dal mondo", protetto solo dalla grande fiducia che mio padre aveva in me.
Tuttavia "fuori dal mondo" rimasi, anche nel periodo successivo, perché, malgrado le notevoli esperienze fatte, a vari livelli, continuai sempre a "segnare il territorio", a distinguere gli spazi miei da quelli altrui, a non partecipare a cordate di yesmen. Ce n'erano già tante, che c'entravo io? E poi, che cosa avrei potuto apportare, di mio? Di leccatori di terga l'Italia è strapiena e, nell'esercizio di quella "nobile" attività, tutti mi avrebbero superato, lasciandomi inevitabilmente buon ultimo, posizione che potevo ottenere ugualmente difendendo a spada tratta la mia identità, con un minimo di guadagno etico, quanto meno...
E' quello che ho fatto e ricordo con un sorriso il giorno in cui, raccontando parte della mia vita a una "passante" (in senso brassensiano/de andreiano...) irlandese, lei commentò ironica: "You are really outworldly!".
Forte del fatto che potevo risultare "fuori dal mondo" non solo in patria, ma anche all'estero, da allora del mio titolo non mi sono preoccupato più, ma lui si è preoccupato di me - eccome! - tant'è vero che spesso mi rincorre, per appiccicarsi ai miei abiti come un distintivo o forse - visto che siamo in clima di internazionalizzazione - come una human stain.
Oggi il problema ovviamente non si pone più, nel senso che ho i miei anni e tra non moltissimo sarò "fuori dal mondo" non più in senso figurato, ma reale. Tuttavia devo ammettere che quel giudizio non mi pesa più addosso come un marchio, ma come una decorazione, una sorta di Pour le mérite non guadagnata sul campo, ma ottenuta per semplice inclinazione caratteriale. Più ci ripenso, più mi convinco che sono sempre stato "fuori dal mondo" semplicemente perché, in quel mondo, io non ci sono mai voluto entrare. Essendo naturalmente dotato di un elevato senso estetico, con quel mondo, con quella olezzante fogna a cielo aperto, io c'entravo e c'entro nulla, e ce lo siamo sempre detti, reciprocamente. Centinaia di persone, nel saperlo, hanno scosso la testa con commiserazione (per me, ça va sans dire...). Io ho sorriso, con infinito orgoglio. E' l'unico lascito che mi resti e ne vado fiero.
Piero Visani