venerdì 2 maggio 2014

Di là dal fiume e tra gli alberi

       Il 2 maggio 1863, a Chancellorsville (Virginia), dopo aver condotto una splendida manovra di aggiramento delle forze unioniste, conclusasi con la disfatta delle medesime, il generale Thomas "Stonewall" Jackson, di ritorno da una ricognizione avanzata, venne colpito da "fuoco amico" mentre rientrava nelle linee confederate. Raggiunto da due pallottole al braccio sinistro e una alla mano destra, la gravità delle sue condizioni fu subito evidente ai suoi soccorritori. Trasportato nelle retrovie, morì 8 giorni dopo, il 10 maggio 1863, per una polmonite sviluppatasi a seguito delle ferite riportate e delle carenze dei trattamenti medici dell'epoca.
       Le sue ultime parole, pronunciate in piena agonia e raccolte da numerosi testimoni, furono: "Let us cross over the river, and rest under the shade of the trees". Questa bella immagine, raccolta e riportata da molta letteratura, ha ispirato il titolo di un romanzo di Ernest Hemingway (Across the river and into the trees), pubblicato nel 1950 ed edito in Italia solo nel 1965, con il titolo di Di là dal fiume e tra gli alberi.
       In esso, si racconta la fase terminale dell'esistenza di un colonnello statunitense, Richard Cantwell, impegnato a rivisitare i luoghi delle sue passiate esperienze militari nel primo conflitto mondiale, e del suo amore per la giovane aristocratica veneziana Renata. Proprio la facile identificazione di questo personaggio con Adriana Ivancich, giovane nobildonna veneziana con cui lo scrittore intrattenne una lunga relazione, indusse Hemingway a vietare per parecchio tempo la pubblicazione del romanzo in Italia.
          Quando lessi questo romanzo, avrò avuto 14 o 15 anni, e mi piacque molto, anche se la critica non è stata sempre della mia idea. Ma trovai molto bello l'abbinamento concettuale tra l'ultima frase conosciuta di Thomas "Stonewall" Jackson e il titolo di un romanzo in cui si narra il lento distacco dalla vita di un militare di professione, un uomo che sente avvicinarsi la fine, che vorrebbe trovare nuove ragioni di vita nell'amore e che - come personale epitaffio - sceglie la rivisitazione di una citazione assai nota in ambito militare.
       Ho sempre amato, fin dall'adolescenza, queste forme di intreccio di concetti. Mi danno il senso della vitalità intellettuale di persone che compiono i loro percorsi esistenziali sapendo quel che fanno e dando a tutto un nome. Un ottimo modo, a mio giudizio, per sfuggire alla natura magmatica di coloro che non vogliono mai dare un nome a niente, non solo perché non saprebbero farlo, ma perché preferiscono non farlo. Occorrono grande onestà intellettuale e coraggio, infatti, per autodefinirsi bari, o cinici, o falsi, o mendaci, o turlupinatori.

                               Piero Visani

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