Seguo con interesse lo stillicidio quotidiano dei "suicidi da crisi" e ho notato che l'interpretazione fornita dai media è spesso incentrata sul fatto che questi soggetti "deboli" si sono dati la morte in quanto incapaci di reggere il confronto con l'evoluzione economica.
A parte il fatto che fare impresa in uno Stato che ti grava sulle spalle con un peso dell'87% appare quanto meno difficile, quello che sorprende maggiormente è la mancanza di qualsiasi riflessione seria su questo darsi la morte.
In un Paese dove se uno uccide tre persone con l'auto va ai domiciliari; dove la pena di morte è giustamente considerata una crudeltà ingiustificabile e dunque non praticata neppure contro gli acclarati autori dei delitti più efferati, magari a carico di bambini; dove stai in galera se hai commesso reati del peso di quelli commessi da Fabrizio Corona, altrimenti puoi star sicuro che o esci subito o esci presto, questa totale "nonchalance" nei confronti di chi si dà la morte per disperazione è davvero interessante e istruttiva.
Al di là delle "lacrime di coccodrillo" di prammatica, non credo manchi molto al giorno in cui i commenti dei media nei riguardi dei poveri "suicidi per disperazione" saranno: "Te la sei cercata? E ora te la tieni!". Sei un "debole" in un mondo di "forti", peggio per te!".
Il terribile problema del "buonismo" contemporaneo è che è buono solo con se stesso e con chi condivide le sue perversioni culturali e ideologiche; con gli altri, per contro, un po' meno, anzi è molto selettivo e discriminatorio. L'assoluzione è concessa a tutti, dai pluriomicidi agli assassini di minori. I suicidi, invece, qualche colpa ce l'hanno. Non erano all'altezza dei tempi, non ne avevano colto lo spirito spregevole, mistificatore e criminale. Dunque meritano la morte.
La grande saggezza della cultura dominante sta nel non comminargliela, ma nel costringerli a darsela da sé: forma diversa, sostanza uguale. E verginità "buonista" ovviamente salva.
Salva...?
Piero Visani
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