giovedì 12 marzo 2015

La rappresentazione della guerra

       La guerra, malgrado esorcismi e demonizzazioni varie, rimane saldamente al centro dell’immaginario collettivo occidentale. E, al centro di questo immaginario, si pone la rappresentazione della guerra. Esercizio tutt’altro che neutrale, tutt’altro che casuale, se – come ha sottolineato Jean-Michel Valantin nel volume Hollywood, le Pentagone et Washington – tale rappresentazione può addirittura essere inserita all’interno di una strategia globale, diventare una modalità di fare politica.
          Il filone pare inesauribile, un po’ perché non cessano di esserci guerre, un po’ perché si continua a fare politica attraverso la rappresentazione del conflitto e un po’ perché il tema continua a destare notevole interesse nel pubblico. Sul canale a pagamento Fox Tv si è appena conclusa, ad esempio, Over There, la celebrata instant Tv series sull’attuale conflitto iracheno, mentre si è da poco affacciato nelle sale il film Jarhead, opera di un regista affermato come Sam Mendes.
          Over There, realizzata da una specialista di produzioni seriali televisive come Steven Bochco e diretta da Chris Gerolmo, ha scelto la strada rischiosa, ma certo non casuale, della rappresentazione fittizia di un conflitto ancora in corso, destando polemiche e reazioni di vario genere. Volutamente ambigua, si è posta in una posizione di quasi completa astensione di giudizio, preoccupandosi di dare (o di sembrare di voler dare…) più una rappresentazione della realtà che un’interpretazione della medesima. Ha colpito nel segno soprattutto nel descrivere quanto l’attuale esercito professionale statunitense rappresenti, più che uno spaccato della società americana nel suo complesso, uno spaccato di quei ceti disagiati e marginali che cercano nell’Esercito una via per risolvere i loro problemi personali e sociali. E, a ben guardare, si è dimostrata convincente, poiché dalle sue immagini escono più cittadini (di seconda e di terza classe) in uniforme che militari di professione, e la mentalità dominante è molto più quella dei civili che quella dei soldati di mestiere. Non a caso, ha riscosso critiche sostanzialmente positive anche tra tutti coloro che sono stati o sono tuttora militari in Iraq, salvo che per un solo aspetto, quello della rappresentazione della parte più specificamente tecnica, quella operativa o di combattimento, giudicata dai più assolutamente insoddisfacente. Ma non era probabilmente questo il suo obiettivo, come, per una volta, il suo obiettivo non era di carattere giustificatorio, in particolare in direzione del mondo esterno. Semmai, la finalità sembrava piuttosto descrittiva: ricordare alle decine di milioni di americani che, in un’epoca di esercito di mestiere, non sono transitati e non transiteranno mai nelle Forze Armate, che cosa la società militare sia e quanto, al di là di certi aspetti formali, essa sia intrisa di valori civili e popolata da soggetti – uomini e donne – che sono di fatto nient’altro che underdog in uniforme. Non guerrieri tirati a lucido, tardivi epigoni di Rambo, ma un’umanità dolente, talvolta professionalmente valida talaltra neppure tale, ma solo spinta a migliaia di chilometri da casa dal peso dell’emarginazione sociale e delle circostanze. Nessuna denuncia sociale – sia chiaro – ma un quadro larvatamente polemico, inteso a rappresentare il carattere di ordinary people dei "nuovi centurioni", che tutto sembrano meno che credibili difensori di un impero.



         Diverso è il quadro che scaturisce invece da Jarhead, dove la tematica della rappresentazione della guerra ha un impianto di tipo più tradizionale. La prima differenza di fondo sta forse nella Forza Armata di riferimento: non più, come in Over There, i civili in uniforme della 3° Divisione di Fanteria dell’U. S. Army, ma i superprofessionisti di uno dei corpi più elitari del mondo, i Marines. Gente che si suppone sia dov’è per una scelta precisa, anche se poi si scopre che molti sono lì perché hanno dovuto scegliere tra il carcere e l’arruolamento; altri appartengono al sempiterno bacino di riferimento dei diseredati e degli spostati di ogni razza, risma e natura; altri ancora – come probabilmente Anthony Swofford, autore del libro omonimo, da cui il film è tratto – perché in crisi di identità e alla ricerca di se stessi.
          Girato con un’impostazione assai simile a quella di Full Metal Jacket di Stanley Kubrick, dunque con una prima parte che descrive nei dettagli un addestramento di tipo ossessivo, palesemente inteso (ma questo non è sempre adeguatamente percepito dal pubblico e tanto meno dalla critica) a conferire caratteri di normalità e di assuefazione a situazioni al limite del parossismo, che però – e qui sta il punto e la loro ragion d’essere – saranno abituali sul campo di battaglia, Jarhead si trasforma in una sorta di coitus interruptus militare: la guerra tanto attesa, la sublimazione di tanto duro addestramento finalmente arriva (ed è la prima guerra del Golfo), l’enorme carica ormonale artatamente immagazzinata nei soldati dovrebbe esplodere, ma non riesce a farlo. Non riesce perché gli errori commessi da Saddam Hussein la trasformano in una passeggiata militare per le forze alleate, in un conflitto dove il dominio del cielo rende inutile ed obsoleto il ricorso alla fanteria, compresi i celeberrimi marines.
          Sotto questo profilo, in verità, il film non è particolarmente convincente, in quanto sostiene una tesi palesemente indifendibile, vale a dire la sostanziale superfluità, nel conflitto moderno, del combattente di tipo tradizionale. Poiché è stato girato di recente, ad esempio dopo che il secondo conflitto iracheno ha dimostrato la perdurante validità del ruolo del fante, forse il regista avrebbe potuto essere più cauto; ma è probabile che abbia voluto rimanere fedele al testo originale, ignaro degli sviluppi successivi.
          Come in American Beauty, l’intento principale di Mendes pare quello di condurre una critica dissacrante della società americana: non soltanto, in questo caso, della società militare (obiettivo fin troppo facile, visto che abbonda di stereotipi), ma di come quest’ultima sia in fondo uno spaccato e al tempo stesso un ricettacolo di buona parte delle caratteristiche, comunque le si voglia giudicare, della prima. L’intento di fondo, poi, resta a nostro giudizio complessivamente apologetico. È vero che il quadro della società militare che emerge dal film è un concentrato di ossessioni e di depravazioni, è vero che la rappresentazione della guerra è indiscutibilmente cruda, dunque realistica, magari con qualche strizzatina d’occhi all’iperrealismo. Eppure, per tutti questi uomini, la loro esperienza di soldati è ancora il massimo delle esperienze compiute; un’esperienza indelebile, alla quale cominciare un giorno, forse abbastanza presto, a guardare con una forma di irrefrenabile nostalgia, che non è solo nostalgia di gioventù, ma di una vita diversa, di un’esistenza “altra”, della capacità di “vivere di più” che, una volta ripiombati nella banalità del quotidiano, può anche cominciare a pesare per la sua mancanza.
          Il cerchio si chiude, ma alcuni interrogativi cruciali rimangono aperti: la rappresentazione della guerra, così come si è sedimentata nel mondo occidentale, tende a privarla di una dimensione razionale e provvista di senso, negando in tal modo la possibilità che la guerra stessa possa ancora essere – nella tradizionale accezione clausewitziana – “la continuazione della politica con altri mezzi”. In realtà, la cronaca ci dimostra che così non è, anche se talvolta i nomi possono cambiare per ragioni di political correctness. L’”inutile strage”, la sua presunta insensatezza si muovono nella dimensione del politico, dove peraltro non mancano i tentativi di trovarvi una giustificazione a livello mediatico, con tutte le varie forme di rappresentazione del conflitto, cinema compreso. Ma se il problema fosse un altro; se cioè la società occidentale fosse in verità percorsa – come titola un noto libro di James Hillman – da Un terribile amore per la guerra? Se essa fosse, come sempre Hillman ha scritto, al tempo stesso «…un’opera umana e un orrore inumano, e un amore che nessun altro amore è riuscito a vincere»? Si spiegherebbero meglio certe nostalgie reducistiche e il senso di una passione che, in mezzo a tutti gli esorcismi di prammatica ed alle condanne di rito, non accenna minimamente a calare.

                                        Piero Visani