Ho sempre amato il silenzio, e lo amo ogni giorno di più. Ovvio, amo anche parlare, dialogare, ma a condizione che di vero dialogo si tratti, non di scambio automatizzato di "strisce informatiche".
Molto spesso, la sensazione che provocano in me certi scambi "dialettici" è raggelante, poiché trattasi di un "parlare che non parla", di un "dire che non dice", di un flatus vocis che produce aria (fritta), null'altro.
Quale valore ha un "significante" all'interno del quale non ci sia un "significato"? Nessuno. Così, si diventa estremamente selettivi e si finisce per parlare esclusivamente con se stessi e con pochissimi interlocutori degni di stima, interesse, attenzione.
L'elenco dei dialoghi falliti è forse la cosa più terribile di una vita, tanto più man mano che essa si protrae nel tempo. E la domanda concernente il "che cos'è che li ha fatti fallire" diventa quasi angosciante. Da qui analisi, controanalisi, disamine, introspezioni, lacerazioni, vivisezioni.
E la conclusione, infine illuminante: alla base di tutto, c'è l'ascolto e, se sono solo io ad ascoltare il mio interlocutore/interlocutrice, il disastro è garantito. Ci si parla in due, è ovvio, ma ci si ascolta anche in due, poiché - nei dialoghi veri - le ragioni dell'altro non sono meno importanti delle proprie.
L'esperienza - e qualche preziosa maestra - mi hanno fatto comprendere che il dialogo è innanzi tutto ascolto di sé e dell'altro, posti sullo stesso piano, e che l'incontro ha luogo quando diventa un intercourse. Il dialogo nutre forti rapporti con il sesso, perché riempie i contenuti di un rapporto, lo affranca da una mera dimensione ginnica, ne fa un interscambio profondo, spinge due soggetti a diventare uno, uno solo, ne sublima le potenzialità olistiche.
Il dialogo è ascolto. Il silenzio, a sua volta, è ascolto di sé, ma anche degli altri, delle vibrazioni che si spandono per l'aere. Mentre ascolto il silenzio, sento le mille voci di chi mi ha parlato; odo i miei tentativi di interloquire, sento la dialettica scivolare progressivamente verso l'autoreferenzialità.
Al tempo stesso, constato con piacere che c'è anche chi parla la mia stessa lingua e che, tra mille dialoghi che falliscono, uno si apre e mi gratifica di tutto ciò che in precedenza mi era mancato. Forse il dialogo vero consiste nel parlare la stessa lingua e nella fortuna insperata di trovare chi lo faccia nel bel mezzo della Babele delle lingue.
Il dialogo, l'ascolto, l'introspezione, mi stanno salvando. Come sempre, il "conosci te stesso" è il modo migliore per conoscere gli altri. Quelli disponibili ad aprirsi, all'ascolto reciproco: di sé e anche di me, e viceversa.
Piero Visani