La
guerra, malgrado esorcismi e demonizzazioni varie, rimane saldamente al centro
dell’immaginario collettivo occidentale. E, al centro di questo immaginario, si
pone la rappresentazione della guerra. Esercizio tutt’altro che neutrale,
tutt’altro che casuale, se – come ha sottolineato Jean-Michel Valantin nel
volume Hollywood, le Pentagone et
Washington – tale rappresentazione può addirittura essere inserita
all’interno di una strategia globale, diventare una modalità di fare politica.
Il filone pare inesauribile, un
po’ perché non cessano di esserci guerre, un po’ perché si continua a fare
politica attraverso la rappresentazione del conflitto e un po’ perché il tema
continua a destare notevole interesse nel pubblico. Sul canale a pagamento Fox
Tv si è appena conclusa, ad esempio, Over
There, la celebrata instant Tv series
sull’attuale conflitto iracheno, mentre si è da poco affacciato nelle sale il
film Jarhead, opera di un regista
affermato come Sam Mendes.
Over There, realizzata da una specialista di produzioni seriali
televisive come Steven Bochco e diretta da Chris Gerolmo, ha scelto la strada
rischiosa, ma certo non casuale, della rappresentazione fittizia di un
conflitto ancora in corso, destando polemiche e reazioni di vario genere.
Volutamente ambigua, si è posta in una posizione di quasi completa astensione
di giudizio, preoccupandosi di dare (o di sembrare di voler dare…) più una
rappresentazione della realtà che un’interpretazione della medesima. Ha colpito
nel segno soprattutto nel descrivere quanto l’attuale esercito professionale
statunitense rappresenti, più che uno spaccato della società americana nel suo
complesso, uno spaccato di quei ceti disagiati e marginali che cercano
nell’Esercito una via per risolvere i loro problemi personali e sociali. E, a ben
guardare, si è dimostrata convincente, poiché dalle sue immagini escono più
cittadini (di seconda e di terza classe) in uniforme che militari di
professione, e la mentalità dominante è molto più quella dei civili che quella
dei soldati di mestiere. Non a caso, ha riscosso critiche sostanzialmente
positive anche tra tutti coloro che sono stati o sono tuttora militari in Iraq,
salvo che per un solo aspetto, quello della rappresentazione della parte più
specificamente tecnica, quella operativa o di combattimento, giudicata dai più
assolutamente insoddisfacente. Ma non era probabilmente questo il suo
obiettivo, come, per una volta, il suo obiettivo non era di carattere
giustificatorio, in particolare in direzione del mondo esterno. Semmai, la finalità
sembrava piuttosto descrittiva: ricordare alle decine di milioni di americani
che, in un’epoca di esercito di mestiere, non sono transitati e non
transiteranno mai nelle Forze Armate, che cosa la società militare sia e
quanto, al di là di certi aspetti formali, essa sia intrisa di valori civili e
popolata da soggetti – uomini e donne – che sono di fatto nient’altro che underdog in uniforme. Non guerrieri
tirati a lucido, tardivi epigoni di Rambo, ma un’umanità dolente, talvolta
professionalmente valida talaltra neppure tale, ma solo spinta a migliaia di
chilometri da casa dal peso dell’emarginazione sociale e delle circostanze.
Nessuna denuncia sociale – sia chiaro – ma un quadro larvatamente polemico,
inteso a rappresentare il carattere di ordinary
people dei "nuovi centurioni", che tutto sembrano meno che credibili
difensori di un impero.
Diverso è il quadro che
scaturisce invece da Jarhead, dove la
tematica della rappresentazione della guerra ha un impianto di tipo più tradizionale.
La prima differenza di fondo sta forse nella Forza Armata di riferimento: non
più, come in Over There, i civili in
uniforme della 3° Divisione di Fanteria dell’U. S. Army, ma i superprofessionisti di uno dei corpi più elitari
del mondo, i Marines. Gente che si suppone sia dov’è per una scelta precisa,
anche se poi si scopre che molti sono lì perché hanno dovuto scegliere tra il
carcere e l’arruolamento; altri appartengono al sempiterno bacino di
riferimento dei diseredati e degli spostati di ogni razza, risma e natura; altri
ancora – come probabilmente Anthony Swofford, autore del libro omonimo, da cui
il film è tratto – perché in crisi di identità e alla ricerca di se stessi.
Girato con un’impostazione assai
simile a quella di Full Metal Jacket di
Stanley Kubrick, dunque con una prima parte che descrive nei dettagli un
addestramento di tipo ossessivo, palesemente inteso (ma questo non è sempre
adeguatamente percepito dal pubblico e tanto meno dalla critica) a conferire
caratteri di normalità e di assuefazione a situazioni al limite del parossismo,
che però – e qui sta il punto e la loro ragion d’essere – saranno abituali sul
campo di battaglia, Jarhead si
trasforma in una sorta di coitus
interruptus militare: la guerra tanto attesa, la sublimazione di tanto duro
addestramento finalmente arriva (ed è la prima guerra del Golfo), l’enorme
carica ormonale artatamente immagazzinata nei soldati dovrebbe esplodere, ma
non riesce a farlo. Non riesce perché gli errori commessi da Saddam Hussein la
trasformano in una passeggiata militare per le forze alleate, in un conflitto
dove il dominio del cielo rende inutile ed obsoleto il ricorso alla fanteria,
compresi i celeberrimi marines.
Sotto questo profilo, in verità,
il film non è particolarmente convincente, in quanto sostiene una tesi
palesemente indifendibile, vale a dire la sostanziale superfluità, nel
conflitto moderno, del combattente di tipo tradizionale. Poiché è stato girato
di recente, ad esempio dopo che il secondo conflitto iracheno ha dimostrato la
perdurante validità del ruolo del fante, forse il regista avrebbe potuto essere
più cauto; ma è probabile che abbia voluto rimanere fedele al testo originale,
ignaro degli sviluppi successivi.
Come in American Beauty, l’intento principale di Mendes pare quello di
condurre una critica dissacrante della società americana: non soltanto, in
questo caso, della società militare (obiettivo fin troppo facile, visto che
abbonda di stereotipi), ma di come quest’ultima sia in fondo uno spaccato e al
tempo stesso un ricettacolo di buona parte delle caratteristiche, comunque le
si voglia giudicare, della prima. L’intento di fondo, poi, resta a nostro
giudizio complessivamente apologetico. È vero che il quadro della società
militare che emerge dal film è un concentrato di ossessioni e di depravazioni,
è vero che la rappresentazione della guerra è indiscutibilmente cruda, dunque
realistica, magari con qualche strizzatina d’occhi all’iperrealismo. Eppure,
per tutti questi uomini, la loro esperienza di soldati è ancora il massimo
delle esperienze compiute; un’esperienza indelebile, alla quale cominciare un
giorno, forse abbastanza presto, a guardare con una forma di irrefrenabile
nostalgia, che non è solo nostalgia di gioventù, ma di una vita diversa, di
un’esistenza “altra”, della capacità di “vivere di più” che, una volta
ripiombati nella banalità del quotidiano, può anche cominciare a pesare per la
sua mancanza.
Il cerchio si chiude, ma alcuni
interrogativi cruciali rimangono aperti: la rappresentazione della guerra, così
come si è sedimentata nel mondo occidentale, tende a privarla di una dimensione
razionale e provvista di senso, negando in tal modo la possibilità che la
guerra stessa possa ancora essere – nella tradizionale accezione clausewitziana – “la
continuazione della politica con altri mezzi”. In realtà, la cronaca ci
dimostra che così non è, anche se talvolta i nomi possono cambiare per ragioni
di political correctness. L’”inutile
strage”, la sua presunta insensatezza si muovono nella dimensione del politico,
dove peraltro non mancano i tentativi di trovarvi una giustificazione a livello
mediatico, con tutte le varie forme di rappresentazione del conflitto, cinema
compreso. Ma se il problema fosse un altro; se cioè la società occidentale
fosse in verità percorsa – come titola un noto libro di James Hillman – da Un terribile amore per la guerra? Se
essa fosse, come sempre Hillman ha scritto, al tempo stesso «…un’opera umana e
un orrore inumano, e un amore che nessun altro amore è riuscito a vincere»? Si
spiegherebbero meglio certe nostalgie reducistiche e il senso di una passione
che, in mezzo a tutti gli esorcismi di prammatica ed alle condanne di rito, non
accenna minimamente a calare.
Piero Visani