Qualche anno fa, scrissi questa "Storia della guerra" a puntate che mi è venuta voglia di riproporre, con qualche aggiornamento.
Scrivere
un abbozzo di storia della guerra dall’antichità ad oggi, sia pure senza
pretese di esaustività e completezza scientifica, può sembrare un’operazione
oziosa: la cultura dominante, infatti, ha da tempo espunto dai suoi valori di
riferimento il fenomeno bellico. Non che la guerra non esista più; anzi, è una
presenza costante nelle nostre vite, sia che le si intenda in una dimensione
pubblica (quanti conflitti armati ci sono stati dopo il 1945?), sia che ci si
limiti a considerarle in una dimensione privata (quanta e quale carica di
violenza è presente nelle nostre società?). Per non parlare della dimensione
economica: spesso, con compiaciuta aria di sufficienza, i maîtres à penser della cultura dominante ci distillano gocce del
loro illuminato pensiero spiegandoci che, in un’epoca evoluta(!?) come l’attuale,
i conflitti, anche quelli tra gli Stati, non sono più armati, non possiedono
una dimensione militare, ma si svolgono a livello economico e finanziario. E
naturalmente, pensando a questo, ci sentiamo tutti più tranquilli e anche
fortunati, perché le nostre vite non sono distrutte dagli spari o dalle bombe,
ma “soltanto” dall’impossibilità di avere un lavoro, o di averlo tale per cui
sia decentemente remunerato, o esposto all’insidie di popoli più disgraziati
del nostro, disposti ad accontentarsi di un pugno di riso per lavorare più e
magari meglio di quanto non facciamo noi.
In una parola, se dovessimo credere a queste lusinghe, potremmo pensare
di vivere nel migliore dei mondi possibili, quello dove la guerra non c’è: ma
(c’è sempre un ma…) purtroppo non tutti la pensano in questo modo, non tutti
vivono illuminati da questo straordinario e misericordioso “pensiero unico”. A
carico di costoro – i reprobi – la violenza è ancora possibile e tuttora
accettabile. Non è guerra – sia chiaro – perché non c’è un nemico da
affrontare; piuttosto, è un’operazione di polizia, nazionale o internazionale,
da condurre a carico di quanti non si vogliono piegare, non si sa perché, alla
logica razionale e razionalistica di chi ne sa più di loro, degli illuminati,
degli ottimati, dei beati possidentes.
Contro costoro, la cui natura recalcitrante è francamente inammissibile,
poiché si dimostrano riluttanti a riconoscere l’“innegabile bontà” delle tesi dei
padroni del mondo, qualsiasi forma di violenza, anche la più radicale, è accettabile.
Ma non è guerra, è semplice mantenimento dell’ “ordine costituito”.
Se la realtà attuale potesse essere spiegata nei termini testé
descritti, la prima reazione di una persona di media intelligenza non potrebbe
essere che il riconoscimento che la guerra esiste ancora, ma ha semplicemente
cambiato nome; che una certa cultura ha preferito espellerla dal proprio
universo di valori, ma poi, resasi conto di non poterne fare concretamente a
meno, ha preferito cambiarle nome, sia perché il processo di demonizzazione del
conflitto che aveva avviato era stato spinto troppo in là e dunque non era più
possibile tornare indietro, sia perché non poteva permettersi di praticare nei
fatti ciò che aveva negato (e continuava a negare) in teoria, senza il rischio
di incorrere in una contraddizione dilacerante. E tuttavia c’è di più, molto di
più: quello citato è semplicemente il retroterra culturale di un fenomeno
complesso e articolato, che potrebbe essere sintetizzato come segue: se la
guerra non esiste più (e sappiamo fin troppo bene che non è vero), il conflitto
gode di ottima salute – se così si può dire – e assume continuamente nuove
dimensioni, che investono tutti i campi e tutte le attività umane, in una
logica di privatizzazione dello scontro
che rischia davvero di dare concretamente corpo ad uno dei peggiori incubi
della storia umana: il bellum omnium
contra omnes, la “guerra di tutti contro tutti”, che è quella che da
qualche tempo è facile sperimentare in qualunque attività umana, anche –
ahinoi! – la più banale, quella che un tempo era oggetto di regole formali, di
un’educazione alla convivenza civile che pare tramontata con la stessa celerità
con cui ci dicono (e sappiamo che non è vero) che è scomparsa la guerra.
Ecco, se un’ambizione ha la presente serie di articoli, essa consiste
proprio nel cercare di ricostruire come, dalla notte dei tempi ad oggi, si sia
arrivati a tutto questo, magari accompagnandolo con qualche ipotesi, inevitabilmente
azzardata, su come potrebbe configurarsi il futuro. Per fare ciò, occorre
sottrarsi alla tentazione di considerare la guerra come un fenomeno puramente
tecnico-militare e guardare ad essa in una prospettiva più ampia, che non è
soltanto quella del grande teorico prussiano Carl von Clausewitz e della sua
ben nota (e abusata) affermazione per cui «la guerra non è che la continuazione
della politica con altri mezzi», ma è anche quella della sua dimensione
culturale e sociale, e della sua presentazione sul piano comunicativo, poiché
la rappresentazione del conflitto è, probabilmente da sempre, una componente
essenziale della conflittualità stessa ed è stata oggetto, ben prima che i
media assumessero l’importanza che hanno nelle società contemporanee, di massicci
interventi di manipolazione.
Naturalmente, scrivendo una serie di articoli a tema sarà palesemente impossibile andare al di là di un certo livello di
approfondimento e occorrerà inevitabilmente procedere “a volo d’uccello”, dando
per scontati salti spaziali e temporali che probabilmente tali non sono e non
potrebbero (e dovrebbero) essere, ma si rendono indispensabili nel contesto in
cui la narrazione si svolge.
Allo stesso modo, risulterà fondamentale il ruolo dell’autore, che
palesemente indirizzerà le sue scelte verso ciò che gli appare più importante e
più utile alla costruzione di una determinata tesi. Chi scrive ritiene che
un’impostazione del genere possa essere rivendicata senza particolari problemi
né infingimenti: non c’è niente di peggio di quelle ricostruzioni storiche che
si ammantano di falsa oggettività, facendo finta di ignorare che la storia, per
sua intima essenza, è una disciplina costantemente soggetta a revisioni, e guai
se non fosse così, se nuovi apporti scientifici non andassero a sottoporre ad
accurata verifica certezze in apparenza incrollabili (e non scalfibili). Com’è
ovvio, a questo punto lo storico accademico penserà (o dirà) che chi appartiene
alla sottospecie giornalistica, per la quale nutre un aperto disprezzo, non ha
titolo per occuparsi di ciò che non gli compete. Ne prendiamo atto, senza
nutrire la speranza di riuscire a smentirlo.
In termini di organizzazione del testo, l’obiettivo è quello di partire
dall’antichità greca per procedere rapidamente verso l’era moderna, con una
serie di approfondimenti a partire dal 1750 in avanti, legati essenzialmente al fatto
che è da quella data – nell’opinione di chi scrive – che entrano in gioco
fattori che continuano ad esercitare un notevole effetto anche oggi. I temi
saranno trattati da un punto di vista in prevalenza cronologico, ma non
mancherà la possibilità di ampie variazioni (o divagazioni, se si preferisce)
tematiche legate alla necessità di approfondimento di argomenti bisognosi di
una trattazione propria, connessa alla problematica generale ma al tempo stesso
provvista di una propria individualità e specificità, talmente forti da non
poter essere gestite altrimenti.
L’intento di fondo è quello di non imbarcarsi nell’ennesimo esercizio di
demonizzazione del conflitto, per il quale davvero non c’è che l’imbarazzo
della scelta, ma di avviare sommessamente un tentativo di capire la natura del
fenomeno bellico, le sue molteplici identità, le vie – più o meno misteriose – attraverso
le quali il genere umano, pur conoscendone e pagandone il costo e gli orrori,
sia comunque riuscito a sviluppare – per dirla con James Hillman - «un
terribile amore per la guerra». Non c’è e non ci vuole essere compiacimento in
tutto questo, ma soltanto una ricerca di verità. L’obiettivo è quello di
contestare alla radice la tesi che vuole la cultura occidentale sempre più
affrancata dalle guerra, sempre meno disposta ad accettarla a livello teorico
e, al tempo stesso, sempre assai incline a farne uso sul piano pratico, magari
chiamandola con altro nome.
L’obiettivo vero, tuttavia, è un altro, vale a dire sollecitare ad una
riflessione sul fatto se una civiltà possa davvero fare a meno di possedere una
“cultura del conflitto”. Non c’è niente di peggio, infatti, che ricorrere alla
guerra mascherandola sotto nomi di comodo, magari come “operazione di polizia
internazionale”, e poi rifiutare di riconoscerne l’esistenza a livello
culturale, lasciando che l’opinione pubblica e soprattutto le giovani generazioni
non conoscano o addirittura rifiutino di conoscere la dimensione conflittuale,
con la conseguenza di risultare sempre più alla mercé – soprattutto per
ignoranza – di chi, in forme sempre più evolute e subdole – li vuole solo
aggredire, per farli oggetto di conquista dapprima sul piano intellettuale, poi
su quello economico-materiale e infine su quello fisico (da intendersi come
possesso effettivo dei luoghi in cui essi vivono).
L’impresa è ambiziosa e proprio per questo riteniamo che valga la pena
di tentarla.
Piero Visani
Piero Visani
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