Quando, nel 732 dopo Cristo, l’espansione
araba verso l’Europa occidentale raggiunse la Francia e venne fermata a
Poitiers dai Franchi, guidati da Carlo Martello, il Vecchio Continente era già
da tempo in preda ad una trasformazione di carattere politico-militare, oltre
che economico-sociale, destinata a durare per parecchi secoli, ben oltre l’anno
Mille.
È impossibile tracciare un
quadro unitario, specie nei ridotti spazio qui disponibili, di un fenomeno
complesso e multiforme come il Medioevo. Si può solo accennarne, molto a grandi
linee, le caratteristiche essenziali, che sono comunque di grande importanza
per la storia della guerra.
Tutto il sistema feudale, a ben
guardare, è dominato da esigenze di carattere militare e di sicurezza. Nella
parte occidentale dell’Europa, infatti, la caduta dell’impero romano ha
determinato una frammentazione di poteri alla quale non è facile porre rimedio.
Gli Stati che nascono in quel periodo sono strutture fragili, alquanto
frammentate, dove il potere centrale ha difficoltà a fare sentire la propria
presenza sulle periferie e dove la rudimentale struttura amministrativa, se e
quando è presente, non riesce ad organizzare un sistema che consenta ai vari
monarchi di reclutare eserciti anche solo per periodi relativamente brevi e a
dotarli di un armamento adeguato. La più efficace soluzione che viene trovata
per risolvere questo problema consiste nella concessione a un certo numero di
signorotti locali, da parte del potere centrale, di appezzamenti terrieri,
denominati “feudi”, all’interno dei quali i feudatari instaurano la loro
autorità. In cambio, essi si impegnano a servire il loro sovrano per un
limitato periodo di tempo (in genere non più di 40 giorni), mettendosi a sua
disposizione a livello personale come cavalieri e aggiungendovi una porzione
più o meno vasta di milizie a piedi (le quali devono tenere conto, nella loro
composizione, del fatto che, per ogni uomo che va in guerra, ne devono rimanere
almeno altri due o tre nei campi a coltivare la terra al posto di costui). In
conseguenza di questo fenomeno, molti Stati europei cominciano a
caratterizzarsi per la nutrita presenza di feudi, in genere contraddistinti da
un insediamento fortificato – dapprima rudimentale e in legno, poi sempre più
raffinato e in pietra o in muratura.
Acquisire il diritto a diventare
titolari di un feudo è un’operazione alquanto onerosa. Gli storici hanno
infatti calcolato che un proprietario terriero dovesse poter disporre di almeno
160-180 ettari
di terra per riuscire a fornire al proprio signore un singolo cavaliere (in
genere sé medesimo). Con queste premesse, non è certo sorprendente che il
potere e la ricchezza si fondino sulla proprietà terriera e sui castelli che ne
testimoniano la presenza.
Le conseguenze di questo
fenomeno sull’arte della guerra sono notevoli e tutt’altro che positive: se
quello che conta è riuscire a mettere a disposizione del sovrano una forza di
cavalleria e dei contingenti di fanteria, e se la cavalleria è l’arma di cui
fanno parte, per scelta di prestigio sociale e valenza militare, tutti i
feudatari, è naturale che essa diventi l’arma più diffusa, relegando la
fanteria in un ruolo subalterno. Si tratta di una cavalleria che viene
impiegata, nella logica che si era affermata dopo le invasioni barbariche,
essenzialmente come cavalleria corazzata, ma il suo numero è in genere talmente
modesto da non consentire di parlare di un suo impiego a massa. Più
semplicemente, siamo di fronte alla “regina della battaglia” medievale, nei cui
confronti la fanteria svolge nulla più che un ruolo di supporto.
Non si tratta di un’evoluzione
casuale, ma è frutto del fatto che, nell’VIII secolo, con l’introduzione della
staffa, muta radicalmente la tecnica del combattimento a cavallo: fino a quella
data, infatti, il cavaliere aveva avuto non pochi problemi nel controllo
dell’animale; con la staffa, per contro, egli non è più costretto a stringere
con forza le proprie cosce al costato del cavallo, può ergersi sulle staffe e –
soprattutto – può maneggiare con molta maggiore libertà armi decisamente più
pesanti, flettendo anche il corpo in varie direzioni, ciò che gli permette
altresì di accrescere la forza che conferisce ai fendenti che mena.
L’invenzione della staffa
conferisce alla cavalleria, che già godeva di un superiore prestigio sociale,
anche una superiorità tecnica sulla fanteria, destinata a durare, pur con
qualche incidente di percorso su cui ritorneremo, fino al 1300. Questa
convergenza socio-tecnica si rivela irresistibile ai fini della supremazia tattica
e strategica della cavalleria, anche se si tratta di una supremazia monocorde,
che nell’impiego sul campo si traduce in soluzioni assolutamente primitive e
prevedibili, come l’impiego a massa contro cavallerie di composizione e
condotta analoga, o contro fanterie che si sentono socialmente inferiori, prima
ancora che militarmente, ai loro avversari. Non è un caso che, quando questa
condizione di subalternità non è percepita – come a Legnano nel 1176 – e quando
i fanti sono liberi cittadini decisi a combattere per la difesa delle loro
terre e delle libere istituzioni che si sono date, la fanteria si dimostra un
difficile ostacolo per la cavalleria, dal momento che è praticamente
impossibile indurre i cavalli ad attaccare i quadrati di fanti, irti di lance,
spade e picche.
Tuttavia, la strenua difesa del
Carroccio a Legnano, da parte dei fanti della Lega lombarda, è un’eccezione che
conferma la regola, e la regola è che, per buona parte del Medioevo, la guerra
è soprattutto una guerra di cavalleria e, in subordine, di assedio, poiché i
numerosissimi centri fortificati che costellano la geografia di ogni territorio
di buona parte dell’Europa devono essere conquistati per non vedersi bloccato
lo svolgimento di qualsiasi tipo di operazione a largo raggio. Non sorprende,
dunque, che quello medievale sia il periodo per eccellenza della guerra
d’assedio e delle macchine che ne costituiscono l’essenza.
Sotto il profilo culturale, come
ha egregiamente dimostrato Franco Cardini in un’opera magistrale quale Quell’antica festa crudele (Firenze, 1982),
l’interazione fra il ruolo politico, sociale e militare della cavalleria, e
quello religioso del cristianesimo (e la sua concezione della “guerra giusta”),
ha contribuito in larga misura alla nascita di quel codice d’onore che è
passato alla storia con la denominazione di “cavalleresco”. Come ha fatto
notare il grande storico fiorentino, con l’affermazione del concetto di
“cavalleria” si sviluppa una dimensione della guerra che presuppone una
drastica limitazione del ricorso alla violenza e una forma di autolimitazione
nel comportamento bellico. Tutto questo non è ovviamente frutto del caso, ma di
un’omogeneità socioculturale che è generata dal riconoscimento, su versanti
geografici e politici diversi, del medesimo status di “cavaliere”, figura da
identificare con quella di un guerriero di professione che combatte con onore,
rispetto del nemico e rifiuto della crudeltà. Come ha riconosciuto lo stesso
Cardini, non sempre i comportamenti sul campo risultavano in linea con i
solenni principi del codice d’onore, ma è molto importante sottolineare,
proprio trattando di storia della guerra, che il codice cavalleresco continuerà
a vivere (e in una certa misura vive tuttora) nel mondo militare.
Altro aspetto che dimostra l’importanza
della Chiesa in quei secoli sono le Crociate, cioè le varie spedizioni militari
con cui i guerrieri cristiani tentarono di salvaguardare la Terrasanta
dall’occupazione musulmana. Nel corso di esse, si poté assistere
all’applicazione, da parte cristiana, del concetto di “guerra giusta”, cioè di
conflitto sostenuto da motivazioni che erano talmente elevate da essere per ciò
stesso giustificabili agli occhi di chi, come la dottrina cristiana, si è
sempre dimostrata assai poco comprensiva nei riguardi del fenomeno bellico
latamente inteso. Naturalmente, proprio per la loro natura intrinsecamente
religiosa, le Crociate si distinsero per un elevato contenuto di violenza, dal
momento che il nemico non era un avversario in qualche modo riconosciuto, ma un
“altro da sé” nei confronti del quale, in quanto “infedele”, ogni violenza era
legittima. Sul piano militare, tuttavia, esse dimostrarono che l’arte della
guerra medievale, pur se primitiva rispetto ai vertici toccati ad esempio in
epoca romana, era pur sempre sufficiente ad affrontare con buone prospettive di
successo, per di più in un terreno relativamente poco noto, gli eserciti
musulmani. Sicuramente non ci fu, da parte dei Crociati, una dimostrazione di
superiore capacità tattico/strategica rispetto agli Arabi, ma ci furono grande
esibizione di coraggio e valore personali, e il manifestarsi di un sistema di
guerra che, per quanto imperfetto, quasi sempre si dimostrò superiore a quello
dei loro avversari.
Per concludere, nel corso del
Medioevo la storia della guerra andò avanti, anche se talvolta l’arte della
guerra parve andare indietro, ma si deve sottolineare che si tratta di un
giudizio – quello sull’arretramento dell’arte militare – che un sempre maggior
numero di storici non riconosce come fondato, preferendo evidenziare il fatto
che la pratica bellica, confermando una volta di più gli stretti rapporti che
la legano all’evoluzione politica, economica, sociale e culturale, assunse
forme che erano quelle peculiari del suo tempo. Grandi mutamenti, del resto,
erano alle porte.
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