5. L’impero bizantino
È
possibile gestire il declino di un
impero addirittura per un millennio, facendo ricorso ad un’abile combinazione
tra superiorità tecnologica in campo militare, astuzia diplomatica e relativa
prosperità economica? La domanda, tanto cara – non a caso... – agli strateghi occidentali
odierni, consente una risposta positiva: se c’è riuscito l’impero bizantino,
perché non potrebbe riuscirci l’Occidente (inteso nell’accezione classica, con
gli Stati Uniti in posizione dominante e l’Europa in condizione subalterna),
che peraltro sta provando a farlo già da tempo?
Com’è noto, l’impero romano
d’Occidente cadde nel 476 dopo Cristo, ma il suo omologo d’Oriente (con
capitale Bisanzio e dunque conosciuto come impero bizantino) sopravvisse fino
al 1453, dando prova di una straordinaria longevità. Al momento della grandi
invasioni barbariche, la parte orientale dell’impero romano era quella
economicamente più prospera e che aveva mantenuto una maggiore solidità
dell’apparato statale. Di conseguenza, non solo non fu travolta dagli attacchi
delle popolazioni che per convenzioni sono dette barbariche, ma riuscì a
rimanere la maggiore potenza di quella parte del mondo almeno fino al sacco di
Costantinopoli ad opera dei Crociati (1204) e a sopravvivere poi ancora per 250
anni, fino alla sua caduta ad opera dei Turchi ottomani.
Questo straordinario esempio di
longevità da parte di una costruzione imperiale fu dovuto, in larga misura, ad
una efficace combinazione di fattori. Si è già detto, ad esempio, della
solidità istituzionale ed economica dell’impero romano d’Oriente al momento del
crollo di quello d’Occidente. Tale solidità strutturale, tuttavia, non sarebbe
stata sufficiente se l’impero bizantino non avesse potuto contare su un
apparato militare efficiente, su una tecnologia militare all’avanguardia e su
una visione strategica ispirata alla difensiva, essenzialmente intesa, cioè, a
garantire la perpetuazione dell’impero a dispetto dei suoi numerosi nemici.
L’apparato militare, per
cominciare, era ricalcato sull’organizzazione politico-amministrativa,
denominata “tema”, e – come tale – permetteva al potere centrale di reclutare
una parte consistente del proprio esercito su base locale, mentre il nucleo
centrale delle forze, denominato “tarmata”, era dislocato nei dintorni della
capitale. In tal modo, fu possibile ottenere una buona amalgama tra componente
militare a reclutamento locale e componente professionale, dove era rilevante
la presenza di mercenari.
In secondo luogo, dottrina e
tecnologia militare furono oggetto di un’attenzione che aveva scarsi precedenti
nel mondo romano, che aveva combattuto a lungo contro i propri nemici, ma in
una logica ben diversa da quella della mera sopravvivenza. A Bisanzio, per
contro, la classe dirigente era ben consapevole del fatto che, per affrontare
nemici che premevano da varie direzioni, occorreva poter contare su un sistema
militare che fosse, sotto ogni aspetto, superiore a quello degli avversari. Da
ciò derivò un’attenzione senza precedenti agli aspetti dottrinali della guerra,
con un fiorire di pubblicazioni sui problemi tattici e strategici del conflitto
che diventarono l’indispensabile patrimonio cognitivo di chiunque facesse parte
del corpo ufficiali. Il che non era sorprendente, se l’esistenza dello Stato
dipendeva in modo totale dalle capacità delle sue forze militari.
A livello operativo, la
consapevolezza che i nemici dell’impero erano in grado di mettere in campo
eserciti numericamente assai superiori, indusse gli strateghi bizantini non
solo a sviluppare una visione essenzialmente difensiva, basata sull’economia
delle forze (nessun generale poteva permettersi il lusso di sprecare in
battaglia le vite dei propri soldati e, per contenere le perdite, venne
addirittura sviluppato un rudimentale servizio sanitario) e su un solido sistema
di piazzeforti e fortificazioni di vario tipo, ma li indusse altresì a cercare
di sviluppare quei fattori tecnico-tattici che potessero consentire ai loro
eserciti di sopperire ad una costante inferiorità numerica.
Sul piano tattico, poiché le
armate dei nemici dell’impero erano costituite per lo più da orde di cavalieri,
grande attenzione venne rivolta alla sviluppo della cavalleria catafratta, vale
a dire di una cavalleria pesante, armata di lancia e arco, i cui componenti
erano dotati di robuste armature, così come protetti da armature erano pure i
loro cavalli. In questo modo l’esercito bizantino poteva disporre di una forza
d’urto da utilizzare a massa, la quale, in virtù di un abile impiego tattico,
poteva sempre dimostrarsi superiore ai propri nemici nel punto di gravità di
ogni battaglia.
Sul piano tecnologico, tuttora
oggetto di controversie tra gli storici è la questione dell’impiego, da parte
bizantina, del “fuoco greco”, vale a dire di un materiale incendiario che non
era certo ignoto ai contemporanei, ma che i bizantini impiegarono
massicciamente e con ottimi risultati, anche e soprattutto in ambito navale.
Taluni storici hanno sostenuto la tesi che il “fuoco greco” fosse il risultato
dell’accensione di sostanze come nafta o zolfo e calce viva. I bizantini, che
mantennero sempre una coltre di segreto intorno alla sua reale composizione,
lanciavano tale miscuglio infuocato sotto forma di proietti incendiari,
mediante sifoni di ottone, usando come propellente acqua pompata dal mare. Il
risultato doveva essere piuttosto significativo, se la memoria di quest’ “arma
speciale” è giunta fino a noi circonfusa da un’aura di invincibilità, di
superiore – e decisiva – efficienza tecnologica.
Ma non è tutto, poiché la guerra
conobbe altre importanti trasformazioni durante il periodo bizantino,
essenzialmente sotto il profilo culturale. Durante l’epoca romana, infatti, la
gestione del conflitto era stata improntata, così come era avvenuto nel periodo
greco, essenzialmente come uno scontro frontale, ispirato ad una logica di
contrapposizione aperta dove c’era poco o punto spazio per qualsiasi forma di
astuzia, di inganno deliberato del nemico. La guerra era un terreno di
confronto di valori virili, ispirati ad un’etica guerriera, dove chi combatteva
disdegnava certe pratiche che oggi definiremmo “trasversali” e dove la vittoria
era frutto di un confronto leale. Nel periodo bizantino, per contro, questa
visione subì un ridimensionamento: per un impero che doveva soprattutto
sopravvivere e che non disponeva di un potenziale umano da poter sprecare in
conflitti sanguinosi, la guerra psicologica, i tentativi di confondere il
nemico, il ricorso all’inganno, l’abile miscela tra potenza militare e arte
diplomatica si fusero nell’elaborazione di una concezione nuova, molto più
complessa e articolata, dove il semplice valore sul campo non era più l’unico
fattore da prendere in considerazione. A ciò si deve aggiungere – e la cosa
conferisce a questo quadro un ulteriore tocco di modernità – il fatto che
l’affermarsi dell’Islam inserì in questo contesto un’altra dimensione ancora,
quella della guerra di religione contro un nemico che aveva un altro Dio e
ispirava la propria condotta a un differente universo di valori.
Come si può notare, dunque, ci
sono alcune significative affinità tra l’impero bizantino e la realtà attuale;
affinità che, tuttavia, non possono e non devono essere sopravvalutate, in
quanto ogni epoca fa storia a sé. Quello che è importante sottolineare, semmai,
è la flessibilità di cui la classe dirigente politico-militare bizantina diede
prova nel momento in cui si trovò ad affrontare nutrite e sempre diverse
schiere di nemici. Ad esempio, quando la rapida diffusione dell’Islam mise gli
eserciti bizantini alle prese con quelli arabi, basati su masse di cavalleria
leggera, i catafratti subirono una riorganizzazione che consentì loro di poter
fronteggiare efficacemente i nuovi nemici sulla base di un dispositivo tattico
meno rigido.
Per quasi un millennio, dunque,
l’esercito bizantino costituì il nerbo di un impero che cercava di sopravvivere
e di mantenersi potente in un mondo ricco di insidie. Fino a che fu possibile
preservare una qualche forma di equilibrio tra le forze a reclutamento locale e
i reparti mercenari, la sua efficacia operativa fu garantita. Quando però tale
equilibrio si dissolse e la componente mercenaria (spesso straniera) divenne
sempre più importante, si manifestarono gli stessi problemi che avevano causato
la crisi dell’impero romano d’Occidente: scarsa propensione al combattimento,
esigenze economiche sempre crescenti, mancanza assoluta di disciplina,
propensione alla sedizione. Naturalmente, non fu questa l’unica causa della
caduta di Bisanzio, dal momento che l’impero romano d’Oriente aveva ormai
esaurito il suo ciclo e la sua stessa funzione storica, ma certo fu una delle
cause, e non delle meno importanti.
Quello che a noi interessa porre
in rilievo, in questa sede, è che nel periodo di Bisanzio la guerra si arricchì
di dimensioni nuove, nessuna delle quali era ovviamente priva di precedenti, ma
che forse non si erano mai trovate contemporaneamente fuse: aspetti tecnici,
aspetti culturali, dinamiche politiche e psicologiche stavano arricchendo la
natura del conflitto e conferendogli sempre maggiore complessità, in linea con
l’evoluzione del resto della società. La guerra non era mai stata – e mai
avrebbe potuto essere – un fenomeno esclusivamente tecnico, ma ora si stava
complicando vieppiù, coinvolgendo fattori che in passato le erano stati solo
parzialmente propri. Si era innescata una dinamica che prosegue ancora oggi.