6. Gli arabi
Tra le varie minacce che l’impero bizantino
dovette affrontare nel corso della sua millenaria esistenza, l’Islam – come si
è accennato nella puntata precedente – fu quella che più spostò verso nuove
direzioni l’evoluzione della guerra. Fino a quella data, infatti, anche se il
nemico era spesso stato percepito dai combattenti come un “altro da sé”, nei
confronti del quale nessuna pietà era auspicabile (prima ancora che possibile),
non era in pratica mai accaduto che questo nemico fosse mosso da motivazioni
diverse da quelle tradizionali di conquista: ricerca di nuove terre, espansione
del proprio impero, abbattimento dei propri avversari.
L’affermazione dell’Islam, a
partire dal VII secolo dopo Cristo, apre una fase e una dimensione nuove nella
storia del conflitto. Purtroppo, nella realtà odierna, è difficile parlare sine ira nec studio dell’Islam, che da
qualche tempo è diventato, per ragioni ben note e per nulla condivisibili, una
delle tante reincarnazioni del “Male assoluto” che i padroni del mondo, quando
fa loro comodo, sono soliti evocare ogni volta che vedono seriamente messa in
crisi la loro indiscussa (e indiscutibile) posizione di primato. Tale
atteggiamento, tuttavia, è inaccettabile dal punto di vista scientifico e si
nutre di esigenze di propaganda che in questa sede non possono ovviamente
trovare ospitalità. Tenendosi lontani da queste ultime, è innegabile che, a
partire dal 600 d. C., l’Islam appare come una forza nuova, spinta da una
motivazione potentissima, quella religiosa. Dalla penisola arabica, i seguaci
di Maometto, pur non disponendo di una dottrina militare propria e potendo
contare su forze numericamente modeste, cominciano ad espandere rapidamente i
loro territori per la gloria di Allah e la propagazione dell’Islam. Un’ardente
fede religiosa costituisce il loro principale motore e li spinge ad affrontare
rischi notevolissimi, nella serena coscienza – come è scritto sulla spada
stessa del Profeta – che “La viltà non salva dal destino” (un’affermazione, sia
detto per inciso, sulla quale anche molti europei di oggi farebbero bene a
riflettere, perché riassume in poche parole il loro, anzi il nostro, triste
futuro).
La vulgata corrente vuole che,
ogni volta che si parla di espansione islamica, sia di prammatica il
riferimento alla jihad, cioè alla
“guerra santa”, vale a dire a un tipo di guerra che, per come viene
rappresentata, sembrerebbe un esercizio di follia isterica condotto da bande di
assatanati. In realtà, nella sua accezione originale, il termine sta piuttosto
ad indicare la lotta che ogni musulmano autentico deve condurre, tanto
all’interno del suo animo quanto nel mondo, per rendere più forte l’Islam.
Nulla di trascendentale o di particolarmente innovativo, dunque, ma
probabilmente nessuno, in passato, aveva trovato nella motivazione religiosa un
così poderoso fattore di espansione e conquista.
Stretti tra l’impero bizantino,
da una parte, e quello persiano, dall’altra, i musulmani d’Arabia non
disponevano di forze organizzate lontanamente paragonabili, in termini
qualitativi e quantitativi, a quelle dei loro avversari, ma seppero presto fare
tesoro degli insegnamenti dedotti dalla pratica del conflitto. In una fase
iniziale, il tradizionale metodo di guerra arabo consisteva essenzialmente
nell’effettuazione di incursioni, anche a lunga e lunghissima distanza, che
avevano lo scopo di indebolire la capacità del nemico di sopravvivere in un
clima assai difficile. Sotto questo punto di vista, fondamentale per le forze
arabe fu la loro capacità di sfruttamento del deserto, grazie alla superiore
conoscenza delle scarse sorgenti d’acqua disponibili e degli altrettanto scarsi
pascoli; per non parlare del fatto che il loro consumo medio di acqua era assai
inferiore a quello degli eserciti nemici. Grazie a tale conoscenza, infatti,
era consentita ai loro reparti una mobilità strategica che le condizioni
geografiche e climatiche avrebbero indotto ad escludere (e che troppo spesso i
comandanti degli eserciti avversari furono erroneamente indotti ad escludere).
Tale mobilità era resa possibile dalla disponibilità di cammelli e dromedari
per gli spostamenti di tutto l’esercito, fanteria compresa, mentre i cavalli
dei reparti equestri erano risparmiati con grande cura e utilizzati solo
nell’imminenza dei combattimenti.
A livello tattico, costanti
erano l’estrema mobilità, la ricerca della sorpresa (la soluzione tattica più
diffusa era il cosiddetto karr wa farr,
una sorta di anticipazione di un espediente moderno come il ben noto hit and run della tradizione militare
anglosassone, vale a dire colpire di sorpresa e sottrarsi rapidamente alla
reazione dell’avversario), l’impiego della cavalleria a massa e il ricorso al
condizionamento psicologico del nemico mediante l’utilizzo costante e ossessivo
del suono dei tamburi. Molta attenzione era prestata pure all’armamento: l’arma
per eccellenza era la spada, leggera e piuttosto corta, ma molto usati erano
anche le lance e gli archi. La protezione del corpo dei combattenti era
relativamente leggera, in quanto le condizioni climatiche non consentivano
soluzioni diverse. Tuttavia, con il passare del tempo e con il perfezionamento
dell’organizzazione militare e della struttura logistica, la cavalleria – la
cui importanza sul campo di battaglia stava diventando costantemente crescente
– venne organizzata in modo da poter fare ricorso, al momento del
combattimento, su armature decisamente più pesanti.
In battaglia, gli eserciti arabi
erano soliti sfruttare alla perfezione le caratteristiche del terreno. Inoltre,
consapevoli della loro superiore adattabilità climatica, erano soliti attaccare
il nemico nelle ore più torride della giornata, al fine di sfiancarlo più
facilmente. La tradizione occidentale ha attribuito loro una reputazione di
grande ferocia, che in realtà non è pienamente riscontrabile nelle fonti e che
potrebbe in una certa misura dipendere dalla sensazione di paura diffusa dalla
straordinaria espansione dell’Islam. Di sicuro, come è tipico di quell’epoca
storica (e purtroppo anche di quelle successive), è probabile che i
comportamenti più estremi siano stati superiori a quelli di autolimitazione.
Un aspetto che è importante
sottolineare è il ruolo attivo riservato dai primi eserciti musulmani alle
donne in battaglia, un comportamento che in una certa misura le avvicina alle
Amazzoni della mitologia greca. A questo proposito, val la pena di raccontare
un gustoso episodio: durante la fondamentale battaglia di Yarmuk (636), che
sancì la conquista islamica della Siria, un contrattacco bizantino riuscì
inaspettatamente ad irrompere nell’accampamento delle forze musulmane, dove
però si trovò di fronte ad un’orda di donne, armate di tutto punto e ben decise
a tradurre in pratica l’ordine dell’anziana signora che le guidava, che nelle
fonti viene eufemisticamente (e pudicamente) tradotto con le parole “Accorciate
la terza gamba del nemico!”. Di fronte a tanta determinazione, ed ai rischi
conseguenti per la loro virilità, non sorprende che i Bizantini preferissero
battere rapidamente in ritirata...
Al di là dei tocchi di colore,
resta il fatto che la grande espansione geografica dei popoli arabi (dall’Indo
ai Pirenei, passando per il Medio Oriente e l’Africa del Nord), dopo la loro
conversione alla fede musulmana nel VII secolo, rimane uno degli eventi più
straordinari della storia mondiale. Naturalmente non si trattò di un impero
unitario, ma di una realtà alquanto frazionata, spesso divisa da rivalità interne,
nella quale i soli veri legami erano rappresentati dalla religione musulmana e
dalla lingua e dalla scrittura arabe. Come tutti gli imperi destinati ad
un’esistenza non effimera, anche quello musulmano si preoccupò di consolidare
la propria struttura, dotandosi di un sistema politico-amministrativo e di
un’organizzazione militare permanente, ma soprattutto badò a fare opera di
proselitismo religioso e culturale, spesso operando con mano tutt’altro che
leggera.
L’evoluzione del fenomeno
bellico non risultò particolarmente condizionata, nei suoi aspetti
fondamentali, durante l’espansione islamica, anche se la mobilità strategica
evidenziata dagli eserciti musulmani, la loro flessibilità operativa, il
ricorso a soluzioni tattiche in grado di sopperire agli elementi di debolezza e
a valorizzare i fattori di forza, devono essere tutte considerate novità di
notevole rilievo. La discriminante fondamentale, tuttavia, fu rappresentata
dalla sovrarappresentazione della componente religiosa, in termini che fino a
quel momento nessun esercito aveva praticato. I guerrieri dell’Islam erano
spinti da una fede profonda, da convincimenti apparentemente incrollabili, e
stavano spostando il conflitto da una dimensione essenzialmente politica, nella
quale era rimasto circoscritto fino a quella data, ad una dimensione “altra”,
nella quale nuovi e diversi fattori diventavano cruciali, e dove l’ostilità
reciproca si allargava a territori nuovi, in buona parte inesplorati. La guerra
tra avversari che si riconoscevano, per quanto talvolta a fatica, una
legittimità reciproca, tendeva a mutare natura, a configurarsi come un gioco al
massacro tra nemici implacabili, dove l’altro era sempre un “altro da sé”, con
il quale nessuna reale mediazione era possibile. Si delineavano i contorni di
una dinamica che aveva ancora molta strada da fare e che, purtroppo per noi,
l’avrebbe percorsa fino in fondo.
Piero Visani
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