4. Il mondo romano – L’impero
La storia dell’impero romano, da Augusto a
Romolo Augustolo, è centrale nella storia della guerra perché dimostra come il
fenomeno bellico non sia una realtà univoca, fatta unicamente di soldati e
armamenti, ma un problema di estrema complessità, nel quale lo strumento
militare, per quanto importante, è solo una componente in mezzo ad altri
fattori, politici, economici, culturali e psicologici, i quali devono essere
analizzati nella loro globalità, onde evitare un approccio puramente tecnico,
che sarebbe del tutto insufficiente a comprendere la vastità delle questioni
sul tappeto.
Com’è stato ampiamente
dimostrato da Edward Luttwak ne La grande
strategia dell’impero romano (Milano, 1981), nel periodo imperiale lo strumento
militare venne utilizzato da Roma – sia pure con modalità e fasi diverse –
essenzialmente come forza di dissuasione. In una prima fase, corrispondente al
dominio della dinastia Giulio-Claudia (dunque da Augusto fino al 70 d.C.), il
potere imperiale era talmente forte da potersi permettere di utilizzare le
legioni come semplice supporto delle forze militari degli Stati “clienti”, alle
quali era affidato in prima istanza il compito di difendere i confini
dell’impero. Da questo punto di vista, fu proprio Augusto a completare il
processo di professionalizzazione dell’esercito romano, confermandone la natura
di istituzione stabile, dove chi vi entrata restava in servizio per un periodo
di 20 anni. Un esercito di mestiere, dunque, i cui membri percepivano uno
stipendio fisso, potevano sviluppare una carriera e vedersi riconosciuta, al
termine della stessa, la concessione di un appezzamento di terra. Un esercito
solido, ben addestrato, reclutato prevalentemente in Italia e nelle province
più romanizzate, in grado di svolgere nel migliore dei modi i suoi compiti.
Nell’età dei Flavi e degli
Antonimi (70-180 d.C.), gli alleati furono gradualmente esclusi dai compiti di
difesa delle frontiere e vennero sostituiti dalle forze militari romane. Questa
scelta ebbe due conseguenze: da un lato, consentì all’imperatore Traiano
(98-116 d.C.) di svolgere azioni militari che valsero a Roma importanti
guadagni territoriali, come la conquista della Dacia, utile alla difesa della
frontiera danubiana, e l’annessione di Armenia, Mesopotamia e Assiria. Queste
tre province, tuttavia, dovettero essere volontariamente abbandonate dal suo
successore, Adriano, in quanto la loro occupazione si rivelò eccessivamente
onerosa sul piano finanziario e rischiosa su quello strategico. Dall’altro
lato, la scelta di affidare alle legioni compiti di difesa statica del limes, invece che tenerle pronte ad
agire come massa di manovra per intervenire nei punti minacciati, ebbe
conseguenza notevoli sulla natura stessa dell’esercito romano. Da forza mobile,
dotata di grande efficacia operativa, esso si trasformò infatti in armata
stanziale, e tale trasformazione non fu priva di conseguenze. Se una legione,
ad esempio, poteva rimanere per anni, quando non per decenni, di stanza in una
remota provincia dell’impero, non era sorprendente che i suoi membri
sviluppassero relazioni con donne locali e formassero famiglie. Quanto tutto
questo potesse nuocere allo spirito combattivo è facilmente comprensibile, per
non parlare del fatto che lo sviluppo di rapporti privilegiati tra i
comandanti locali e le proprie truppe favorì anche l’insorgere di fenomeni di
sedizione e di conseguente instabilità politica.
Non fu soltanto lo spirito
guerriero, tuttavia, a deteriorarsi. Anche la composizione dell’esercito, a partire
da Traiano, subì modifiche significative: fino a quella data, l’ingresso nelle
legioni era stato riservato ai cittadini romani; Traiano, per contro, bisognoso
di rafforzare lo strumento militare per le sue imprese di conquista, aprì
l’arruolamento anche ad elementi provenienti dalle province, conferendo loro la
cittadinanza nel momento in cui si arruolavano. L’esercito, così, iniziò un
processo di trasformazione in armata multinazionale che ne peggiorò
progressivamente il livello qualitativo. Si trattava peraltro di una scelta
quasi obbligata: la natura professionale della funzione militare e il fatto che
il servizio si fosse trasformato in tediosi compiti di guarnigione a migliaia
di chilometri dai luoghi di origine, stavano mutando la natura della componente
militare, che ormai era il punto di approdo solo degli elementi più disagiati
sotto il profilo economico o più in difficoltà sotto quello dell’inserimento
sociale. Con una parabola che altri imperi hanno vissuto successivamente, i
primi indizi di decadenza cominciarono a manifestarsi nel momento in cui venne
meno lo spirito civico, si svilupparono gli egoismi individuali (peraltro
stimolati dai cattivi esempi di vertice), crebbe l’edonismo e diminuì, in forma
speculare all’incremento di quest’ultimo, la volontà di combattere.
Fino a circa la metà del III
secolo dopo Cristo, questo strumento militare, per quanto minato nelle
fondamenta, riuscì ad assolvere complessivamente i propri compiti, ma poi esso
tese a diventare sempre più rigido. La stessa creazione, ovunque possibile, di
linee di difesa fortificate (si pensi al Vallo di Adriano nell’Inghilterra
settentrionale) stava a dimostrare l’affermarsi di una concezione strategica
errata, troppo statica e soprattutto incapace di fare fronte ad offensive
sempre più massicce. In questa fase di progressivo logoramento, stava venendo
meno la visione stessa che era stata alla base dell’affermazione dell’impero
romano, vale a dire una concezione flessibile, capace di usare l’apparato
militare essenzialmente come forza di dissuasione e in grado di farsi
promotrice della pax romana non solo
con il ricorso alle armi ma anche e soprattutto con il vigore delle sue
concezioni politiche e culturali.
L’impero romano del periodo
della decadenza, per contro, è una grande costruzione che ha smarrito (o
dimenticato) i valori e gli strumenti che lo avevano fatto grande, e che, per
di più, affida la propria difesa ad eserciti dove cresce anno dopo anno la
presenza di soggetti che romani non sono e che si comportano e combattono sulla
base di quella che è la loro cultura, profondamente diversa da quella romana.
Anche sul piano tattico, ad esempio, la grande flessibilità operativa della
legione, la sua capacità di adattarsi alle situazioni di combattimento più
diverse, cede il posto ad un ritorno alla massa che è frutto della necessità e
che, di fronte alle masse numericamente ben più consistenti dei barbari che
premono, ai confini prima e poi dentro gli stessi confini dell’impero, si
dimostra una scelta palesemente suicida.
Nella seconda metà del III
secolo d. C., l’esercito romano soffre delle stesse tare che affliggono il
resto dell’impero: l’ideale imperiale, il senso della missione romana nel
mondo, eccezion fatta per un formale ossequio alle tradizioni, è ormai venuto
meno; la crisi della funzione guerriera ha messo l’esercito ai margini della
società, mentre la pesante crisi demografica gli rende impossibile poter
contare su una solida riserva numerica; isolata e costretta a scelte
autoreferenziali, la classe militare, per le ragioni che sono state in
precedenza descritte, è forse quanto di meno romano possa esistere, anche se il
peso che la tradizione esercita su di essa è talmente forte da indurla, in
parecchie occasioni, a percepirsi come la sola e unica in grado di difendere
l’impero dai suoi nemici. Tuttavia, la frammentazione dell’apparato militare su
scala provinciale ha creato una serie di potentati che non sviluppano
un’identità collettiva, ma si mettono in lotta fra loro per dividersi la
supremazia all’interno di un impero che sta morendo, ciò che contribuisce a
indebolirlo ulteriormente.
La riorganizzazione dell’impero,
intrapresa da Diocleziano (284-305 d.C.) e Costantino (306-337 d.C.), cercò di
porre rimedio a questo processo di disgregazione dell’esercito, ma la forza
armata di composizione prevalentemente germanica che i due imperatori
riuscirono a mettere insieme, pur svolgendo egregiamente il proprio compito,
era qualcosa di estremamente diverso dall’esercito romano di tipo classico e
assomigliava molto di più alle orde barbariche che la stavano attaccando. Non
c’è migliore attestazione di questa del fatto che l’impero romano crollò molto
più per dissoluzione interna che per spinte esterne, le quali si limitarono ad
accelerare una dinamica di disfacimento.
Quando Roma era stata all’apogeo
della sua potenza, l’esercito aveva interpretato al meglio la sua concezione
imperiale, sviluppando una propria forma di guerra e imponendola agli
avversari, ma facendosi altresì fattore di civiltà, strumento di ampliamento di
un potere che aveva obiettivi ben più ampi di quelli puramente militari e
mirava alla diffusione di una cultura e di una visione politica. Peculiarmente
romano, l’esercito dei secoli del predominio imperiale era provvisto di una
fortissima identità propria, a tutti i livelli. Questa identità, tuttavia, era
venuta progressivamente meno man mano che lo spirito guerriero si attenuava e
la funzione militare acquistava caratteristiche diverse, più
burocratico-professionali che strettamente tecniche. La sua sorte era segnata
nel momento stesso in cui il suo destino non era più nelle mani dei cittadini,
ma di “barbari” cooptati.
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