3. Il mondo romano – La repubblica
Il passaggio più naturale, procedendo a volo
d’uccello come stiamo facendo in questa serie di brevi scritti, è ovviamente quello
dal mondo greco a quello romano. Abbiamo scelto tuttavia di dividere la
trattazione in due parti, una dedicata al periodo repubblicano e l’altra a
quello imperiale, onde evitare un eccesso di sintesi.
In origine, proprio come nelle
città-Stato della Grecia, l’esercito romano, composto da tutti coloro che
disponevano di un censo e avevano la possibilità di pagarsi l’armamento, veniva
formato solo quando la situazione politico-militare lo richiedeva, e combatteva
le sue battaglie basandosi sulla potenza della massa, proprio come aveva fatto
e stava facendo la falange greca. Ben presto, però, le condizioni stesse del
territorio italiano persuasero la dirigenza militare romana del fatto che si
rendeva necessaria un’organizzazione più flessibile, più adatta ad adeguarsi ad
un terreno rotto, sovente montuoso, dove un apparato militare operante
eccessivamente a massa sarebbe stato alla mercé di qualsiasi avversario. Su
questo sfondo nacque il primo abbozzo di legione romana, formata dai veliti (i
cittadini più giovani, più poveri e dotati di conseguenza di armamento più
leggero, i quali stavano davanti allo schieramento e svolgevano compiti di fanteria
leggera), dagli astati (anch’essi giovani e vigorosi, ma provvisti di armamento
più pesante e in grado di formare le prime file dello schieramento legionario),
dai principi (uomini più maturi, con esperienza bellica, destinati a formare il
nucleo centrale della legione) e infine dai triari (veterani induriti dalle
campagne, esperti ma ovviamente non più vigorosi come i loro commilitoni).
Il pregio principale della
legione era la sua grande flessibilità tattica, che le permetteva di adeguarsi
alle situazioni operative più diverse. L’unità di base che la componeva – il
manipolo, forte di circa 200 uomini – poteva essere rapidamente staccato e
altrettanto celermente riattaccato al nucleo centrale dello schieramento
legionario, con ottimi risultati: potenza e massa, infatti, si abbinavano nel
migliore dei modi alla capacità di essere efficaci nelle più disparate
condizioni tattiche.
Anche l’armamento dei soldati
romani era una testimonianza di tale capacità di fare propri sistemi d’arma di
cui si era verificata, magari a proprie spese, l’efficacia sul campo di
battaglia: dai Galli era stato preso ad esempio lo scudo, dai Sanniti il
giavellotto, dagli Iberici il gladio, dai Greci e dai Cartaginesi le armi della
cavalleria e le macchine da assedio. L’esercito romano, di conseguenza, era
fornito di quanto di meglio era tecnicamente disponibile all’epoca.
Oltre a ciò, la disciplina era
tenuta con estremo rigore, un rigore che spesso sfociava nella brutalità a
carico di non fosse pronto nell’adeguarvisi, mentre l’addestramento era
estremamente curato, sia a livello individuale sia per quanto concerneva i
movimenti tattici.
Le carenze, tuttavia, non
mancavano. La prima e forse più grave era il sistema di comando. L’alternanza
dei consoli impediva infatti l’esercizio continuo di una funzione direttiva,
per non parlare del fatto che la carica consolare era aperta anche a molti che
non erano militari di professione e non avevano esperienza di combattimento, ma
semmai erano più rotti alle battaglie politiche… Nel periodo repubblicano, Roma
pagò a carissimo prezzo questa grave criticità del suo sistema di comando: è
sufficiente pensare alla seconda guerra punica, quando consoli di scarsa o
nulla capacità militare si trovarono alle prese con uno dei più grandi condottieri
della storia, il cartaginese Annibale, il quale inflisse loro sconfitte
devastanti come quelle del Trasimeno (217 a . C.) o di Canne (216 a .C.). In circostanze del
genere, peraltro, ebbe modo di emergere il grande pragmatismo romano e il
sistema consolare di comando, di fronte a una minaccia mortale per le sorti
della Repubblica, venne rapidamente abbandonato in favore della scelta di un
capo che potesse garantire doti militari elevate e continuità di esercizio
delle medesime. Nella circostanza, tale capo fu Scipione, detto successivamente
l’Africano, il vincitore di Annibale nella battaglia di Zama (202 a .C.).
La seconda carenza
dell’organizzazione militare romana era invece data dal fatto che le continue e
sempre più lunghe guerre stavano rendendo vieppiù impraticabile il sistema
della coscrizione dei soli cittadini possidenti. Non era possibile, infatti,
tenere lontani dalle proprie case, per anni, persone che spesso avevano
famiglia e che, in un’economia quasi esclusivamente agricola, venivano in tal
modo sottratte alla cura dei campi, con gravi danni per il sistema produttivo
in generale. Per non parlare del fatto che questi cittadini-soldati anelavano a
fare ritorno al più presto alle loro case e ai loro affetti.
Fu Gaio Mario, tra il 107 e il 104 a .C., a far entrare nelle
file dell’esercito molti proletari, equipaggiati a spese dello Stato,
regolarmente pagati e autorizzati a fare bottino di guerra, nel caso se ne
presentasse l’opportunità. Questa decisione segnò l’inizio della transizione ad
un sistema militare di tipo professionale: coloro che si arruolavano in questa
forma volontaria erano tenuti a prestare servizio per 16 anni e, se riuscivano
ad arrivare al termine della ferma (cosa non facile, stanti le frequenti
campagne), avevano diritto ad una pensione e all’assegnazione di un
appezzamento di terra.
Le riforme di Mario, tuttavia,
non si limitarono a questo, ma riguardarono anche l’organica e la tattica: gli
effettivi delle legioni vennero portati a 6-7.000 uomini, che in genere tendevano
a farne parte in forma permanente, ciò che contribuiva all’aumento
dell’identità delle medesime e favoriva la nascita dello spirito di corpo. Sul
piano tattico, invece, la legione non venne più divisa in manipoli, ma in
coorti (unità di base forte di 600 uomini), ciò che consentì di aumentare
ancora l’efficacia del binomio flessibilità-solidità operativa. La coorte,
infatti, dava potenza e compattezza alla struttura della legione, rendendola
più adatta a sostenere le battaglie campali contro eserciti numerosi e di
ottimo livello quali quelli che le armate romane si trovavano ad affrontare
sempre più di frequente.
Con Mario, l’organizzazione
militare di Roma repubblicana raggiunse il suo apogeo, come venne dimostrato
dalla grande efficacia evidenziata nel corso delle guerre galliche e di quelle
civili. Tuttavia, la crescente professionalizzazione dello strumento militare
romano ebbe come conseguenza non trascurabile di spostare la fedeltà dei
soldati dallo Stato repubblicano ai generali sotto il cui comando diretto essi
erano posti. Il rapporto reciproco, infatti, divenne molto più solido: i
generali si fidavano essenzialmente solo delle truppe che conoscevano o con le
quali riuscivano a sviluppare un rapporto personale. Questa situazione,
moltiplicata nei suoi effetti dalle guerre civili, ebbe in Giulio Cesare un
grandissimo protagonista, non solo in termini di genio militare (unanimemente
riconosciuto), ma anche del modo in cui riuscì a riformare una catena di
comando che, fino a quel momento, era stata uno degli anelli deboli del sistema
militare romano. Sotto questo punto di vista, è del tutto evidente che la
professionalizzazione dell’esercito non poteva procedere disgiunta da quella
del corpo ufficiali. Se in passato gli ufficiali superiori dell’esercito romano
erano stati, in buona misura, degli uomini politici prestati per periodi più o
meno lunghi al mestiere delle armi, con Cesare la professionalizzazione degli
alti gradi crebbe al pari (se non in misura superiore) di quella dei legionari,
fino a raggiungere livelli di assoluta eccellenza. Solido nei suoi componenti
di base – i legionari – e ben comandato, l’esercito romano si trasformò così in
quella potente macchina da guerra capace di lasciare un’impronta indelebile
sulla storia del mondo.
Com’è ovvio, dietro uno
strumento militare così efficiente c’era un’ideologia ben precisa, che potrebbe
essere riassunta con la nota frase «si
vis pacem para bellum» (“se vuoi la pace, prepara la guerra”). Anche se si
tratta di parole mutuate, in forma relativamente libera, da un passo di un noto
autore militare romano di epoca posteriore (metà del V secolo d.C.), Vegezio,
essa è passata alla storia perché mostra con chiarezza il binomio su cui Roma
repubblicana (e – lo vedremo presto – anche quella imperiale) si preoccupò di
fondare il proprio sistema di potere: dissuasione e deterrenza. Il “preparare”
la guerra, tenendo sempre pronto e perfettamente addestrato un grande esercito,
era un modo assolutamente eloquente per dissuadere qualsiasi potenziale nemico
dal nutrire propositi ostili; al tempo stesso, la disponibilità di tale potente
macchina militare esercitava, a carico degli avversari, reali o presunti che
fossero, un’efficace azione di deterrenza. In tal modo, nella concezione
romana, era molto più facile mantenere la pace, senza contare il fatto che
poter contare su un così poderoso strumento autorizzava a nutrire anche meno
miti pensieri, come quello di utilizzarlo ovunque possibile per creare quella
che veniva chiamata la pax romana e
che consisteva in una pace imposta a tutti coloro che non erano disposti ad
accettare il primato di Roma in forme meno conflittuali. Una nuova potenza era
nata, pronta per costruire un impero.