Per chi – come chi scrive – l’attrazione per le cose militari risale alla
prima infanzia, in termini da poter essere definiti, parafrasando Hillman, “un
terribile interesse per la guerra”, inspiegabile se non facendo riferimento a
vite precedenti, l’incontro in età giovanile con un libro come Tempeste d’acciaio di Ernst Jünger è stato
un appuntamento cruciale. C’era infatti bisogno di qualcosa e di qualcuno che
mi aiutasse a sciogliere alcuni nodi concettuali, che mi servisse a
comprendere, in un periodo della vita in cui mancano ancora strumenti
interpretativi adeguati, in che cosa consistesse la mia personale diversità
rispetto al blando pacifismo diffuso nella società italiana degli anni
Sessanta.
Lo acquistai per caso, su una
bancarella di libri usati, attratto soprattutto dal titolo, dato che
dell’autore, all’epoca, sapevo davvero poco. E fu quasi un’eccezione, visto che
le mie preferenze di lettura andavano (allora come ora) alla saggistica. Quanto
lessi nella prima pagina mi fece capire che si sarebbe trattato di un libro
interessante: «Cresciuti in un secolo di
sicurezza e di certezze, sentivamo tutti la nostalgia dell’insolito, del grande
pericolo. Allora smaniavamo per la guerra». Io, nato pochi anni dopo la
fine del secondo conflitto mondiale, non smaniavo per la guerra, ma sentivo
l’attrazione per il “grande pericolo”, così come me l’aveva descritto mio nonno
materno in lunghi racconti delle sue esperienze sul Carso e come lo vedevo
rappresentato in mio zio, ardito, combattente di Abissina e di Spagna,
paracadutista della “Folgore” preso prigioniero ad El Alamein nel’ottobre 1942.
In maniera confusa, ma forte, sentivo che a me mancava quell’esperienza che
Alan D. Altieri ha brillantemente sintetizzato nella formula “andare dentro” e
invidiavo chi – come mio zio – l’aveva fatto volontariamente.
Sotto questo profilo, la lettura
di Tempeste d’acciaio è quasi un
percorso di formazione, compiuto per di più in compagnia di un uomo che non
solo è uno dei pilastri della cultura del Novecento, ma – fatto che nel mio
personale metro delle cose rimane a tutt’oggi più importante – è anche uno dei
pochissimi tedeschi che, nella lunga e brillante storia militare del suo Paese,
ha saputo meritare una decorazione ambitissima come la croce Pour le mérite (appena 5.430
assegnazioni dal 1740 al 1918).
Chi si aspetta di trovare in Tempeste d’acciaio l’acritica
esaltazione di una personale esperienza bellica, magari intrisa di reducismo e
di un tocco di autocompiacimento per quanto fatto in battaglia, è completamente
fuori strada. Il libro è semmai il resoconto di un itinerario personale dagli
esiti per nulla scontati. La vulgata dominante in materia, esclusa la trappola
del reducismo, vorrebbe che un’opera del genere rappresentasse l’esito classico
del divario tra teoria e realtà, dunque tra i furori bellicisti di una
generazione cresciuta nei miti del nazionalismo e dell’imperialismo e la
tragica realtà della guerra, con il suo carico di sangue, morte, sofferenze,
mutilazioni, fino alla “naturale” conclusione del rinnegare le proprie
illusioni giovanili ed il tranquillizzante approdo ad un pacifismo
“politicamente corretto”. Niente di tutto questo. L’itinerario personale c’è e
consiste in una descrizione per nulla agiografica del conflitto, con le sue
violenze e le sue distruzioni («Quel
luogo era il regno assoluto della sofferenza ed io,…, guardai come attraverso
una fessura infermale nei suoi abissi), ma accompagnata da un’incredibile
capacità di essere al tempo stesso dentro e fuori ciò che accade. Il pluridecorato
combattente Jünger è “dentro” la battaglia e – la prima volta che ciò accade –
non ha difficoltà a dichiarare che ciò lo riempie «di una gioia pazzesca»; lo scrittore ne è “fuori”, la guarda
dall’alto, ne studia gli effetti su di sé e sugli altri uomini.
È una guerra relativamente
cavalleresca, almeno negli intenti di fondo, quella che viene combattuta sul
fronte occidentale nel 1914-18, ma tende rapidamente ad evolvere in una
“battaglia di materiali” (Materialschlacht),
dove le virtù individuali cedono il posto allo scontro tra sistemi produttivi.
Su questo sfondo, gli spazi per i singoli si restringono, ma non scompaiono;
anzi, si forgia una comunità di guerrieri che del combattimento conosce più «l’esaltazione del cacciatore» che «l’angoscia della preda». Una comunità
legata da vincoli solidissimi, animata da un’assoluta lealtà reciproca,
forgiata emotivamente dal suo desiderio di “vivere di più”, capace di provare
sensazioni difficilmente descrivibili o da risultare – se descritte –
incomprensibili ai più: «In quegli attimi
non mi prese affatto la paura, ma ebbi la sensazione, quasi demoniaca, di una
estrema leggerezza; ogni tanto mi assalì anche un riso convulso, che non
riuscivo in alcun modo a frenare». Un sentimento difficile da spiegare e
che ai più potrebbe apparire altamente inquietante, ma che Jünger chiarisce con
estrema naturalezza: «Quegli uomini erano
animati da qualcosa che non negava l’atrocità della guerra, ma la
spiritualizzava, una voglia autentica di affrontare il pericolo, il desiderio
cavalleresco di vincere la propria battaglia. Nel corso di quattro anni, il
fuoco forgiò combattenti sempre più puri e audaci».
Un’esperienza estrema, dunque,
anzi quasi un percorso esoterico. Ma non fine a se stesso, bensì fondamentale
per il conflitto ed i suoi esiti, dal momento che, «per quanto colossali fossero le masse di uomini e di materiali, il
lavoro, nei punti decisivi, era sempre portato a termine da pochi uomini»
coraggiosi e disposti ad andare fino in fondo nell’assolvimento del loro compito.
Ritorna dunque con forza, quanto più il conflitto si protrae, il concetto di
una comunità di guerrieri, i «principi
delle trincee» forgiata nel ferro e nel fuoco, oltre che nel sangue, dalla
quale scaturisce un insegnamento fondamentale, quello per cui «…non si conosce nessuno se non lo si è visto
nel pericolo».
Malgrado tutti questi sforzi, le
sorti del conflitto, per la Germania guglielmina, volgono al peggio, anche se
la chiusura delle ostilità sul fronte orientale consente di concentrare su quello
occidentale tutte le risorse ancora disponibili per un’ultima disperata
offensiva, con la quale ribaltare la situazione. In una circostanza del genere,
quando l’entità della posta in gioco è altissima, non c’è spazio per la paura,
ma solo per i guerrieri: «Nell’avanzare,
un terribile furore bellico s’impadronì di noi tutti. Una smania incontenibile
di uccidere accelerava i miei passi. Avevo in corpo una tale rabbia che mi fece
piangere. L’immensa volontà di distruzione che pesava su quel campo di morte si
concentrava nei cervelli, avvolgendoli in una rossa nebbia. Singhiozzando e
balbettando ci scambiavano frasi senza senso e uno spettatore non prevenuto
avrebbe certo immaginato che fossimo sul punto di soccombere ad un eccesso di
felicità».
Sono parole forti,
straordinariamente forti, ma anche terribilmente sincere, e non privano certo
chi le ha scritte di una dimensione di umanità, se lo stesso Jünger, guardando
il corpo di un giovane inglese da lui ucciso, scrive: «Lo Stato che si solleva dalla responsabilità [per il comportamento
dei combattenti in guerra], non ci può
liberare dalla tristezza; la dobbiamo sopportare fino in fondo, sin nelle
profondità dei nostri sogni».
Personalmente poco incline alle
verità rivelate, quali che siano, la lettura giovanile di Tempeste d’acciaio mi ha ulteriormente rafforzato nelle mie
convinzioni e mi ha persuaso del fatto che persino un fenomeno estremo come la
guerra possa essere oggetto di interpretazioni “altre” rispetto a quelle
correnti e banalissime propugnateci ogni giorno dalla cultura dominante. La
guerra che emerge dalle pagine di Jünger è certamente una “festa crudele”, ma è
anche qualcosa di infinitamente superiore, è un’esperienza iniziatica che, se
nelle sue forme più rarefatte appare riservata a soggetti raffinati come lo
scrittore tedesco, nelle sue forme più generali è la cartina di tornasole di
quanto di meglio (e anche di peggio) possa offrire un popolo.
Viviamo in una civiltà
anestetizzata, dove le uniche sensazioni forti ammesse sono quelle della
“violenza rappresentata” in ambito mediatico e dove tale rappresentazione ha
raggiunto estremi talmente marcati che occorre perfino chiedersi – e in taluni
casi non sarebbe neanche infondato a livello molto concreto – se dietro la
rappresentazione ci sia violenza vera, o soltanto un impiego artificioso e
strumentale della medesima. A livello ufficiale, la violenza non esiste o, più
correttamente, è la peggior forma relazionale possibile, la più deprecata, la
più stigmatizzata. Eppure, se usciamo dalla dimensione mediatica e entriamo in
quella reale, ci accorgiamo che non di semplice rappresentazione si tratta, ma
di un qualcosa che possiamo toccare concretamente con mano e alla quale non ci
possiamo in alcun modo sottrarre, ma che siamo obbligati a subire. Viene di
continuo agitato su di noi lo spettro della più oscura e terribile delle
violenze, quella terroristica, ma la reazione ad essa varia dall’inanità totale
all’aggressività cieca e senza senso.
Il fatto è che per troppo tempo
la cultura dominante in Occidente (termine che mi repelle quasi fisicamente) ci ha spiegato che la violenza è insensata e,
ora che l’Occidente stesso ne è pesantemente oggetto, non può negare le sue
premesse, ma deve puntare sulle guerre “asettiche” dei bombardamenti a
distanza, sulle guerre “segrete” delle forze speciali o su quelle “per procura”
degli Stati clienti. Le “tempeste d’acciaio”, oggi, non sono semplicemente
ammissibili. Potrebbero far sorgere, in chi le combatte, cattivi pensieri e
“inaccettabili” interrogativi. Potrebbero indurre il “consumatore indifferenziato”
ad “andare dentro”, e non necessariamente solo nei supermercati. Potrebbero far
nascere una nuova comunità di guerrieri. Non sia mai. Ma siamo vicini ad "albe tragiche", non necessariamente dorate, e dobbiamo con forza sperare nell'eterogenesi dei fini; anzi, dobbiamo darci da fare per determinarla.
Piero
Visani
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