venerdì 27 settembre 2013

Teoria del partigiano


   Quando, nel 1963, il grande giurista e politologo tedesco Carl Schmitt diede alle stampe un aureo libretto intitolato Teoria del Partigiano (tradotto in italiano solo nel 1981 dal Saggiatore e ripubblicato nel 2005 da Adelphi), l’intento di fondo del suo breve scritto pareva essenzialmente quello di completare e integrare il suo concetto di “politico”, per di più in un’ottica alquanto legata agli eventi di quegli anni, dalla “guerra rivoluzionaria” di matrice comunista ai tentativi di contrastarla ad opera di quelli che Giorgio Galli ebbe modo di definire “i colonnelli della guerra rivoluzionaria”, vale a dire quegli ufficiali – prevalentemente francesi – che cercarono di batterla in breccia rovesciandone principi e metodi. Riletto oggi, per contro, e sfrondato dai richiami agli eventi coevi, l’agile volumetto di Schmitt acquista un valore ben più profondo e apre significativi squarci anche sull’interpretazione del terrorismo.

   Il punto di partenza del grande politologo è che, nella classica concezione europea della guerra fra Stati, il partigiano non poteva che rimanere una figura periferica, capace di manifestarsi a più riprese ma mai di consolidarsi, perché il conflitto interstatale era caratterizzato dal fatto che i contendenti non erano nemici assoluti, ma solo relativi, capaci sì di farsi la guerra ma anche di intavolare trattative di pace non appena se ne manifestasse l’opportunità.

   Escluso dall’ambito dell’inimicizia convenzionale tipica della guerra controllata e circoscritta caratteristica dello ius publicum europaeum, il partigiano opera in un’altra dimensione, quella dell’inimicizia reale, un ambito a forte componente politica e “di parte” (termine da cui trae la sua stessa etimologia).

   Il concetto classico di “politico”, stabilito nel XVIII e XIX secolo, poggiava sullo Stato inteso secondo il diritto internazionale europeo e, in esso, la guerra era considerata come un puro conflitto interstatuale. A partire dal XX secolo, tuttavia, questa guerra fra Stati, con le sue regole ben codificate, viene messa da parte e sostituita con un conflitto di tipo nuovo. Fu Lenin il primo a convincersi del fatto che il partigiano era destinato a diventare una figura cruciale di un nuovo tipo di conflitto, nazionale e internazionale, in cui il nemico veniva privato di qualsiasi tipo di legittimità e diventava un vero e proprio criminale con il quale non ci si poteva porre alcun obiettivo di futura pacificazione, ma solo una prospettiva di annientamento. In quest’ottica, l’esplosiva efficacia rivoluzionaria della criminalizzazione del nemico era tale da trasformare il partigiano nel vero protagonista della nuova tipologia bellica.

   Solo la “guerra rivoluzionaria”, per Lenin, era guerra vera, poiché era l’unica a fondarsi sull’inimicizia assoluta, l’unica in grado di trasformarsi in uno strumento efficace agli ordini del comunismo internazionale. Tutto il resto era puro gioco convenzionale, assai prossimo alla guerre en dentelles dell’epoca dei sovrani assoluti. La guerra dell’inimicizia assoluta, per contro, non conosce alcuna limitazione e il partigiano è chiamato a darle concretamente corpo. Fu Mao a spingersi ulteriormente oltre in questa visione, interpretando la pace stessa come semplice aspetto esteriore di un’inimicizia reale, da gestire con mezzi diversi da quelli apertamente violenti, ma con finalità sempre molto aggressive.

   Per Schmitt, in definitiva, il partigiano è la figura centrale di una guerra di justa causa che non riconosce uno justus hostis. La bontà della causa per cui combatte è talmente elevata e indiscutibile che, per affermarla, nessun prezzo è troppo alto da pagare. Ed è proprio in questo totale misconoscimento delle ragioni del nemico che risiede la causa dell’ascensione della guerra verso i più terribili estremi, una realtà sempre più tristemente nota man mano che il conflitto è uscito dalla dimensione dei rapporti interstatali per entrare in una dimensione “altra”, molto più ideologizzata.

   Quello che è importante notare è che, sebbene scritta all’inizio degli anni Sessanta, quando il fenomeno del terrorismo aveva dimensioni ben più limitate di quelle attuali, Teoria del partigiano apre interessanti prospettive di indagine proprio sul terrorismo e la “guerra asimmetrica”. Operando da irregolare come è proprio della sua condizione di combattente atipico – scrive infatti Schmitt – il partigiano crea un nuovo e diverso ambito di azione e costringe il suo avversario ad entrare in questa dimensione diversa, che da un lato è spaziale, ma dall’altro è molto più indefinibile, oscura, profonda. Tale mutamento di dimensione dà origine a quello che Raymond Aron ha definito un etrange paradoxe e produce gravi difficoltà per chi è abituato ad operare nello spazio tradizionale ed a dominarlo. L’avversario diventa infatti impalpabile, usa una logica e una grammatica del conflitto che sono completamente diverse e – se davvero si intende sconfiggerlo – occorrerebbe fare proprio l’insegnamento che Napoleone diede al maresciallo Lefebvre nel settembre del 1813: «il faut opérer en partisan partout où il y a des partisans». Facile a dirsi ma non facile a farsi per uno Stato dotato di un esercito regolare. Non a caso, quando diventa evidente – e in genere, nella storia recente, lo è diventato molto presto – che la soluzione napoleonica è inapplicabile o risulta fallimentare, l’unica possibilità che resta a chi combatte in forma regolare contro elementi irregolari è quella di deplorare tale nuova forma di conflittualità, di cercare di criminalizzarla. Proprio tale tentativo di criminalizzazione rappresenta, alla lunga, un pericolo mortale per l’operato del partigiano, il quale ha bisogno di una legittimazione se intende restare nella sfera del “politico” e non sprofondare in quella criminale, dove la sua azione risulterebbe gravemente indebolita. Tale legittimazione – per quanto paradossale ciò possa sembrare – può venire al partigiano solo dall’esistenza di quello che Schmitt chiama un “terzo interessato”, cioè di una realtà “regolare” (in genere uno Stato) che gli offra aiuto e protezione, e magari anche riconoscimento formale. Tale riconoscimento, ottenuto dall’esterno o conquistato con le sole proprie forze, è un viatico indispensabile per acquisire una nuova “regolarità”, in quanto – come accennato – la dimensione irregolare non può essere mantenuta in eterno, pena lo scivolamento nella sfera criminale.

   Alla luce di queste considerazioni, non è una forzatura affermare che il terrorista è il partigiano di questi anni convulsi. In effetti, l’uomo della galassia del terrore è il portatore di un’inimicizia talmente assoluta che non solo non è disposta a concedere la benché minima legittimità all’oggetto del suo odio, ma non discrimina nemmeno più tra combattenti e non combattenti, tra militari e civili, e vede di fronte a sé solo bersagli da colpire con qualsiasi mezzo, anche il più atroce. In secondo luogo, la dimensione in cui opera è incredibilmente dilatata, è uno spazio di conflittualità nuovo, nel quale il terrorista si muove come un pesce nell’acqua, animato unicamente dal desiderio di creare ambiti di scontro nuovi. In terzo luogo, la sua natura “partigiana”, in senso etimologico, è dimostrata dal fatto che il terrorista è molto spesso eterodiretto e, anche se ama presentarsi come membro di un universo a sé stante, in realtà è sovente la longa manus di potentati di varia natura, statali ma anche no. Dunque è anch’esso un “irregolare alla ricerca di regolarità”, nel senso che sa bene che l’esito finale della sua lotta non può che essere quello di ritrovare una dimensione regolare che lo restituisca alla politica, sottraendolo alla trappola dell’emarginazione criminale.

   Se una differenza c’è, tra il partigiano e il terrorista, essa risiede nel fatto che il primo aveva un legame molto più stretto con un territorio di provenienza, un legame definibile appunto come “tellurico”, mentre il secondo è il combattente occulto e misterioso di un pianeta ormai globalizzato, dove queste appartenenze di tipo tradizionale sono ormai superate da altri legami, altre connivenze, altre contiguità.

   Il partigiano e il terrorista, in quanto portatori di un’inimicizia assoluta, sanno bene chi sia il loro nemico reale e si comportano di conseguenza. Non altrettanta lucidità paiono possedere i poteri statali, i quali sono invischiati da tempo in un circolo vizioso privo di sbocchi concreti: da un lato, infatti, denunciano l’idra terroristica in forme apocalittiche con evidenti intenti di rafforzamento del fronte interno, ma con risultati dubbi a causa di un eccessivo ricorso a forzature psicologiche e mediatiche; dall’altro non hanno ancora elaborato una strategia controffensiva che non sia basata sulla semplice potenza militare e sulla criminalizzazione di un nemico la cui identità resta però talmente vaga da renderne impossibile l’effettiva individuazione. Bisognerebbe avere il coraggio di dire di più, di identificare chiaramente connessioni e connivenze, ma spesso si preferisce non farlo perché si ritiene che una scelta del genere indebolirebbe la coesione delle nostre società. Così, alla lucida individuazione del nemico reale si preferisce la semplicistica rappresentazione mediatica di un nemico ipotetico che spesso è una caricatura, non una precisa raffigurazione della realtà. Ne consegue che, mentre il partigiano operava all’interno di una nuova e poco esplorata dimensione spaziale, il terrorista si situa al centro di una dimensione iperreale e addirittura onirica che ne amplifica – invece che limitarne – le potenzialità effettive. Carl Schmitt purtroppo è morto, ma se fosse ancora tra noi non potrebbe mancare di aggiornare le sue riflessioni scrivendo una Teoria del terrorista, che è proprio quanto ci manca.

                                                                           Piero Visani

Nessun commento:

Posta un commento