Quando, nel 1963, il grande giurista e politologo tedesco Carl Schmitt
diede alle stampe un aureo libretto intitolato Teoria del Partigiano (tradotto in italiano solo nel 1981 dal
Saggiatore e ripubblicato nel 2005 da Adelphi), l’intento di fondo del suo
breve scritto pareva essenzialmente quello di completare e integrare il suo
concetto di “politico”, per di più in un’ottica alquanto legata agli eventi di
quegli anni, dalla “guerra rivoluzionaria” di matrice comunista ai tentativi di
contrastarla ad opera di quelli che Giorgio Galli ebbe modo di definire “i
colonnelli della guerra rivoluzionaria”, vale a dire quegli ufficiali –
prevalentemente francesi – che cercarono di batterla in breccia rovesciandone
principi e metodi. Riletto oggi, per contro, e sfrondato dai richiami agli
eventi coevi, l’agile volumetto di Schmitt acquista un valore ben più profondo
e apre significativi squarci anche sull’interpretazione del terrorismo.
Il punto di partenza del grande
politologo è che, nella classica concezione europea della guerra fra Stati, il
partigiano non poteva che rimanere una figura periferica, capace di
manifestarsi a più riprese ma mai di consolidarsi, perché il conflitto
interstatale era caratterizzato dal fatto che i contendenti non erano nemici
assoluti, ma solo relativi, capaci sì di farsi la guerra ma anche di intavolare
trattative di pace non appena se ne manifestasse l’opportunità.
Escluso dall’ambito
dell’inimicizia convenzionale tipica della guerra controllata e circoscritta
caratteristica dello ius publicum
europaeum, il partigiano opera in un’altra dimensione, quella
dell’inimicizia reale, un ambito a forte componente politica e “di parte”
(termine da cui trae la sua stessa etimologia).
Il concetto classico di
“politico”, stabilito nel XVIII e XIX secolo, poggiava sullo Stato inteso
secondo il diritto internazionale europeo e, in esso, la guerra era considerata
come un puro conflitto interstatuale. A partire dal XX secolo, tuttavia, questa
guerra fra Stati, con le sue regole ben codificate, viene messa da parte e
sostituita con un conflitto di tipo nuovo. Fu Lenin il primo a convincersi del
fatto che il partigiano era destinato a diventare una figura cruciale di un
nuovo tipo di conflitto, nazionale e internazionale, in cui il nemico veniva privato
di qualsiasi tipo di legittimità e diventava un vero e proprio criminale con il
quale non ci si poteva porre alcun obiettivo di futura pacificazione, ma solo
una prospettiva di annientamento. In quest’ottica, l’esplosiva efficacia
rivoluzionaria della criminalizzazione del nemico era tale da trasformare il
partigiano nel vero protagonista della nuova tipologia bellica.
Solo la “guerra rivoluzionaria”,
per Lenin, era guerra vera, poiché era l’unica a fondarsi sull’inimicizia
assoluta, l’unica in grado di trasformarsi in uno strumento efficace agli
ordini del comunismo internazionale. Tutto il resto era puro gioco
convenzionale, assai prossimo alla guerre
en dentelles dell’epoca dei sovrani assoluti. La guerra dell’inimicizia
assoluta, per contro, non conosce alcuna limitazione e il partigiano è chiamato
a darle concretamente corpo. Fu Mao a spingersi ulteriormente oltre in questa
visione, interpretando la pace stessa come semplice aspetto esteriore di
un’inimicizia reale, da gestire con mezzi diversi da quelli apertamente
violenti, ma con finalità sempre molto aggressive.
Per Schmitt, in definitiva, il
partigiano è la figura centrale di una guerra di justa causa che non riconosce uno justus hostis. La bontà della causa per cui combatte è talmente elevata
e indiscutibile che, per affermarla, nessun prezzo è troppo alto da pagare. Ed
è proprio in questo totale misconoscimento delle ragioni del nemico che risiede
la causa dell’ascensione della guerra verso i più terribili estremi, una realtà
sempre più tristemente nota man mano che il conflitto è uscito dalla dimensione
dei rapporti interstatali per entrare in una dimensione “altra”, molto più
ideologizzata.
Quello che è importante notare è
che, sebbene scritta all’inizio degli anni Sessanta, quando il fenomeno del
terrorismo aveva dimensioni ben più limitate di quelle attuali, Teoria del partigiano apre interessanti
prospettive di indagine proprio sul terrorismo e la “guerra asimmetrica”.
Operando da irregolare come è proprio della sua condizione di combattente
atipico – scrive infatti Schmitt – il partigiano crea un nuovo e diverso ambito
di azione e costringe il suo avversario ad entrare in questa dimensione
diversa, che da un lato è spaziale, ma dall’altro è molto più indefinibile,
oscura, profonda. Tale mutamento di dimensione dà origine a quello che Raymond
Aron ha definito un etrange paradoxe
e produce gravi difficoltà per chi è abituato ad operare nello spazio
tradizionale ed a dominarlo. L’avversario diventa infatti impalpabile, usa una
logica e una grammatica del conflitto che sono completamente diverse e – se
davvero si intende sconfiggerlo – occorrerebbe fare proprio l’insegnamento che
Napoleone diede al maresciallo Lefebvre nel settembre del 1813: «il faut opérer en partisan partout où il y a
des partisans». Facile a dirsi ma non facile a farsi per uno Stato dotato
di un esercito regolare. Non a caso, quando diventa evidente – e in genere,
nella storia recente, lo è diventato molto presto – che la soluzione
napoleonica è inapplicabile o risulta fallimentare, l’unica possibilità che
resta a chi combatte in forma regolare contro elementi irregolari è quella di
deplorare tale nuova forma di conflittualità, di cercare di criminalizzarla.
Proprio tale tentativo di criminalizzazione rappresenta, alla lunga, un
pericolo mortale per l’operato del partigiano, il quale ha bisogno di una
legittimazione se intende restare nella sfera del “politico” e non sprofondare
in quella criminale, dove la sua azione risulterebbe gravemente indebolita.
Tale legittimazione – per quanto paradossale ciò possa sembrare – può venire al
partigiano solo dall’esistenza di quello che Schmitt chiama un “terzo
interessato”, cioè di una realtà “regolare” (in genere uno Stato) che gli offra
aiuto e protezione, e magari anche riconoscimento formale. Tale riconoscimento,
ottenuto dall’esterno o conquistato con le sole proprie forze, è un viatico
indispensabile per acquisire una nuova “regolarità”, in quanto – come accennato
– la dimensione irregolare non può essere mantenuta in eterno, pena lo
scivolamento nella sfera criminale.
Alla luce di queste
considerazioni, non è una forzatura affermare che il terrorista è il partigiano
di questi anni convulsi. In effetti, l’uomo della galassia del terrore è il
portatore di un’inimicizia talmente assoluta che non solo non è disposta a
concedere la benché minima legittimità all’oggetto del suo odio, ma non
discrimina nemmeno più tra combattenti e non combattenti, tra militari e
civili, e vede di fronte a sé solo bersagli da colpire con qualsiasi mezzo,
anche il più atroce. In secondo luogo, la dimensione in cui opera è
incredibilmente dilatata, è uno spazio di conflittualità nuovo, nel quale il
terrorista si muove come un pesce nell’acqua, animato unicamente dal desiderio
di creare ambiti di scontro nuovi. In terzo luogo, la sua natura “partigiana”,
in senso etimologico, è dimostrata dal fatto che il terrorista è molto spesso
eterodiretto e, anche se ama presentarsi come membro di un universo a sé
stante, in realtà è sovente la longa
manus di potentati di varia natura, statali ma anche no. Dunque è anch’esso
un “irregolare alla ricerca di regolarità”, nel senso che sa bene che l’esito
finale della sua lotta non può che essere quello di ritrovare una dimensione
regolare che lo restituisca alla politica, sottraendolo alla trappola
dell’emarginazione criminale.
Se una differenza c’è, tra il
partigiano e il terrorista, essa risiede nel fatto che il primo aveva un legame
molto più stretto con un territorio di provenienza, un legame definibile appunto
come “tellurico”, mentre il secondo è il combattente occulto e misterioso di un
pianeta ormai globalizzato, dove queste appartenenze di tipo tradizionale sono
ormai superate da altri legami, altre connivenze, altre contiguità.
Il partigiano e il terrorista,
in quanto portatori di un’inimicizia assoluta, sanno bene chi sia il loro
nemico reale e si comportano di conseguenza. Non altrettanta lucidità paiono
possedere i poteri statali, i quali sono invischiati da tempo in un circolo
vizioso privo di sbocchi concreti: da un lato, infatti, denunciano l’idra
terroristica in forme apocalittiche con evidenti intenti di rafforzamento del
fronte interno, ma con risultati dubbi a causa di un eccessivo ricorso a
forzature psicologiche e mediatiche; dall’altro non hanno ancora elaborato una
strategia controffensiva che non sia basata sulla semplice potenza militare e
sulla criminalizzazione di un nemico la cui identità resta però talmente vaga
da renderne impossibile l’effettiva individuazione. Bisognerebbe avere il coraggio
di dire di più, di identificare chiaramente connessioni e connivenze, ma spesso
si preferisce non farlo perché si ritiene che una scelta del genere
indebolirebbe la coesione delle nostre società. Così, alla lucida
individuazione del nemico reale si preferisce la semplicistica rappresentazione
mediatica di un nemico ipotetico che spesso è una caricatura, non una precisa
raffigurazione della realtà. Ne consegue che, mentre il partigiano operava
all’interno di una nuova e poco esplorata dimensione spaziale, il terrorista si
situa al centro di una dimensione iperreale e addirittura onirica che ne
amplifica – invece che limitarne – le potenzialità effettive. Carl Schmitt
purtroppo è morto, ma se fosse ancora tra noi non potrebbe mancare di
aggiornare le sue riflessioni scrivendo una Teoria
del terrorista, che è proprio quanto ci manca.
Piero Visani
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