Seconda puntata di questa piccola "Storia della guerra"
2. Il mondo greco
La società greca - anche se spesso si
preferisce dimenticarlo, poiché è ritenuto “politicamente scorretto” che il
mondo occidentale possa avere radici di questo tipo – fu essenzialmente una
società guerriera, che riconosceva, con Eraclito, l’importanza del conflitto
nella vita degli uomini. Come ha fatto notare Victor Davis Hanson in un’opera
fondamentale (L’arte occidentale della
guerra, Milano 1990), l’esistenza stessa delle poleis che caratterizzavano il panorama politico della Grecia
antica dipendeva dal momento supremo dello scontro armato, uno scontro al quale
partecipavano tutti i cittadini di sesso maschile abili alle armi, dai più
giovani fino a uomini di età più che matura. Si trattava di una prova suprema,
quasi una forma di duello, basata su regole tattiche elementari, dove, a parità
di armamento e di organizzazione militare, ciò che contava erano la vigoria
fisica, il coraggio e soprattutto la volontà di vittoria dei contendenti.
Due eserciti di milizia,
composti da cittadini soldati, risolvevano forme di antagonismo politico ed
economico con uno scontro militare. Non è sorprendente, su questo sfondo, che
un ruolo centrale sia stato acquisito con il tempo da Sparta, una città-Stato
dove un’élite dominante, quella degli “Uguali”, basandosi sulla possibilità di
sfruttare a proprio vantaggio il lavoro delle classi inferiori, aveva
progressivamente sviluppato un modello di civiltà guerriera che ha acquisito
fama imperitura per il livello di perizia e valore raggiunto.
All’età di sette anni, i giovani
“uguali” iniziavano l’agogé, il
processo di educazione individuale e collettiva che li avrebbe trasformati in
impareggiabili combattenti. Si trattava di un complesso di prove fisiche sempre
più dure (rapidamente ma efficacemente sintetizzate nel film 300 di Zack Snyder), in cui i giovinetti
spartani venivano abituati a resistere al freddo, al caldo, alla fame, e
venivano addestrati al maneggio delle armi, alle lunghe marce, ai movimenti
tattici d’insieme.
L’ossessione per l’addestramento
individuale e collettivo fece di quella spartana una fanteria di eccezionale
valore, com’è ampiamente dimostrato dalla battaglia delle Termopili (480 a .C.), combattuta contro
i Persiani in condizioni di disperata inferiorità numerica. La potenza di
Sparta, tuttavia, risultò ben presto minata dalla sua stessa struttura sociale
e dalla debolezza demografica della sua classe dirigente. Gli Spartani,
infatti, dovevano stare molto attenti a non sprecare in combattimento il loro
ristretto potenziale umano, che era difficile da ricostruire e lungo da
addestrare.
Come si è accennato, in quel
periodo la gestione tattica dello scontro era ancora relativamente elementare.
L’unità tattica di base era la falange e lo scontro avveniva, eccezion fatta
per i casi in cui si dovevano affrontare gli eserciti persiani, essenzialmente
tramite un urto frontale. Le prime innovazioni tattiche si ebbero, a cavallo
tra il V e il IV secolo a.C., ad opera di Senofonte, il quale, guidando
diecimila mercenari greci in fuga dall’Asia minore, introdusse una serie di
innovazioni intese a conferire maggiore flessibilità operativa ai suoi reparti.
Il vero, grande innovatore della
tattica nel mondo greco fu tuttavia il tebano Epaminonda, che nella battaglia
di Leuttra (371 a .C.)
riuscì a sconfiggere i temuti Spartani alterando lo schieramento tradizionale
della falange, rafforzando poderosamente l’ala sinistra e adottando un ordine
obliquo che sorprese e sconfisse il nemico.
Il IV e III secolo a.C. furono
un periodo di progressivo indebolimento delle città-Stato greche. Era sempre
più difficile mobilitare i cittadini per lo scontro armato, mentre le divisioni
interne rendevano le poleis un
obiettivo sempre più appetibile per un potenziale aggressore esterno. Questo
venne infine dal nord, dalla Macedonia, dove il re Filippo, salito al trono nel
359 a .C.,
stava forgiando un nuovo esercito, che non può essere definito veramente professionale,
in termini moderni, ma che poteva contare sulle forze di rudi montanari, poco
avvezzi alle piacevolezze della civiltà ellenica. A Cheronea, nel 338 a .C., Filippo sconfisse
rovinosamente i Greci e si ritrovò in controllo dell’intero Paese. Solo due
anni dopo, tuttavia, egli venne assassinato a seguito di una congiura di
palazzo e gli successe il figlio Alessandro.
La storia di Alessandro il
Grande e delle sue campagne (334-323
a .C.) rappresenta il momento più alto dell’evoluzione
della guerra nell’antichità greca. Il giovane figlio di Filippo di Macedonia
aveva a disposizione uno strumento militare che per certi versi era simile e
per altri profondamente diverso dagli eserciti delle città-Stato greche. Alla
base dell’organizzazione della fanteria c’era sempre la falange, che tuttavia,
nella versione macedone, era molto più compatta che in quella greca, se non
altro per il fatto che la superiore lunghezza (da 4 a 7 metri ) delle “sarisse”,
le lance di cui era dotata, permetteva il ricorso ad uno schieramento più
denso, dotato di maggiore capacità di penetrazione negli attacchi e più solido
e consistente nella difesa.
La vera novità, tuttavia, era
rappresentata dal genio tattico e strategico del sovrano: sul piano tattico,
infatti, egli sottrasse centralità al ruolo della falange, il cui compito
divenne quello di limitarsi ad agganciare il grosso dello schieramento nemico,
mentre grande importanza venne conferita al ruolo della cavalleria, la cui
mobilità era sfruttata per aggirare il nemico e fiaccarlo, per poi
precipitarvisi sopra non appena avesse cominciato a dare segni di cedimento.
Come ha fatto giustamente notare
il grande storico militare britannico John Keegan (La maschera del comando, Milano 2003), lo stile di comando di
Alessandro fu ispirato alla più classica heroic
leadership: egli, infatti, era sempre alla testa dei suoi soldati e più
volte rischiò di essere gravemente ferito o ucciso in battaglia. Le sue doti
militari, tuttavia, eccelsero soprattutto a livello di strategia e di condotta
del combattimento: insofferente agli schemi precostituiti e consapevole della
loro rigidità, preferì molto spesso affidarsi all’improvvisazione, adattandosi
alle circostanze e costruendo le sue grandi vittorie esclusivamente grazie al
suo genio tattico e strategico.
La lunga campagna che lo
condusse dalle montagne della Macedonia all’Afghanistan e all’India, oltre a
procurargli fama imperitura, dimostrò al mondo che la guerra doveva essere
condotta sempre e comunque mirando – come primo obiettivo – alla distruzione
dell’esercito nemico, poiché la conquista di nessun vantaggio territoriale, per
quanto grande, era superiore all’abbattimento definitivo del potenziale
militare dell’avversario. Per questa ragione, egli fu sempre attento a
soddisfare, per quanto possibile, le esigenze dei suoi soldati, badando a che,
pur in mezzo a grandi sacrifici, essi potessero costantemente contare su
condizioni di vita accettabili.
Nello scontro contro le grandi
masse dell’esercito persiano e poi contro gli sconosciuti eserciti dell’India,
il dispositivo militare macedone – che con il passare degli anni aveva perso le
sue caratteristiche d’origine e si era trasformato nella classica armata
multinazionale tipica di un grande impero – poté comunque vantare, come indiscutibili
fattori di superiorità, la sua migliore struttura di comando, la più efficiente
organizzazione e la grande flessibilità operativa.
All’aspetto pratico-fattuale, fin qui abbozzato per sommi capi, si
devono ovviamente aggiungere l’importanza della funzione guerriera nel mondo
greco, l’esaltazione del valore personale e delle virtù belliche, e la serenità
con cui ci si accostò ad essa a livello filosofico, riconoscendo che il
conflitto tra gli opposti è alla radice di tutte le cose (Eraclito). Lo stesso
Aristotele ebbe a scrivere (Etica
nicomachea): «Tutto si separa e tutto si riunisce. Quel che produce
l’armonia è il contrasto di una cosa con se stessa… La guerra è la madre di
ogni cosa. Omero ha sbagliato quando si è augurato la fine di tutti i dissidi,
di quelli tra gli dei e di quelli tra gli uomini, perché, se ciò accadesse,
tutto perirebbe… Siccome nel nostro mondo tutte le forme sono via via prodotte
e distrutte, questo mondo somiglia a quel che fa il bambino quando gioca sulla
sabbia».
Già molto prima che Roma assurgesse al ruolo di potenza centrale del
mondo antico, dunque, la guerra aveva assunto un ruolo di primaria importanza
sul piano culturale, politico-strategico e ovviamente militare nel mondo greco
(per non parlare di tutte le altre realtà storiche e geografiche di cui in
questa sede, per ragioni di spazio, non è possibile trattare). Un approccio non
demonizzante ne aveva riconosciuto la centralità nella vicenda umana, ciò che
si era dimostrato molto utile a contrastarne ogni possibile forma di
degenerazione o di escalation verso
gli estremi. La guerra era profondamente inserita all’interno della vita degli
uomini, con tutte le sue implicazioni, positive e negative.
Piero Visani
Piero Visani