sabato 14 settembre 2013

Storia della guerra - 2: Il mondo greco


Seconda puntata di questa piccola "Storia della guerra"


2. Il mondo greco

   La società greca - anche se spesso si preferisce dimenticarlo, poiché è ritenuto “politicamente scorretto” che il mondo occidentale possa avere radici di questo tipo – fu essenzialmente una società guerriera, che riconosceva, con Eraclito, l’importanza del conflitto nella vita degli uomini. Come ha fatto notare Victor Davis Hanson in un’opera fondamentale (L’arte occidentale della guerra, Milano 1990), l’esistenza stessa delle poleis che caratterizzavano il panorama politico della Grecia antica dipendeva dal momento supremo dello scontro armato, uno scontro al quale partecipavano tutti i cittadini di sesso maschile abili alle armi, dai più giovani fino a uomini di età più che matura. Si trattava di una prova suprema, quasi una forma di duello, basata su regole tattiche elementari, dove, a parità di armamento e di organizzazione militare, ciò che contava erano la vigoria fisica, il coraggio e soprattutto la volontà di vittoria dei contendenti.

   Due eserciti di milizia, composti da cittadini soldati, risolvevano forme di antagonismo politico ed economico con uno scontro militare. Non è sorprendente, su questo sfondo, che un ruolo centrale sia stato acquisito con il tempo da Sparta, una città-Stato dove un’élite dominante, quella degli “Uguali”, basandosi sulla possibilità di sfruttare a proprio vantaggio il lavoro delle classi inferiori, aveva progressivamente sviluppato un modello di civiltà guerriera che ha acquisito fama imperitura per il livello di perizia e valore raggiunto.

   All’età di sette anni, i giovani “uguali” iniziavano l’agogé, il processo di educazione individuale e collettiva che li avrebbe trasformati in impareggiabili combattenti. Si trattava di un complesso di prove fisiche sempre più dure (rapidamente ma efficacemente sintetizzate nel film 300 di Zack Snyder), in cui i giovinetti spartani venivano abituati a resistere al freddo, al caldo, alla fame, e venivano addestrati al maneggio delle armi, alle lunghe marce, ai movimenti tattici d’insieme.

   L’ossessione per l’addestramento individuale e collettivo fece di quella spartana una fanteria di eccezionale valore, com’è ampiamente dimostrato dalla battaglia delle Termopili (480 a.C.), combattuta contro i Persiani in condizioni di disperata inferiorità numerica. La potenza di Sparta, tuttavia, risultò ben presto minata dalla sua stessa struttura sociale e dalla debolezza demografica della sua classe dirigente. Gli Spartani, infatti, dovevano stare molto attenti a non sprecare in combattimento il loro ristretto potenziale umano, che era difficile da ricostruire e lungo da addestrare.

   Come si è accennato, in quel periodo la gestione tattica dello scontro era ancora relativamente elementare. L’unità tattica di base era la falange e lo scontro avveniva, eccezion fatta per i casi in cui si dovevano affrontare gli eserciti persiani, essenzialmente tramite un urto frontale. Le prime innovazioni tattiche si ebbero, a cavallo tra il V e il IV secolo a.C., ad opera di Senofonte, il quale, guidando diecimila mercenari greci in fuga dall’Asia minore, introdusse una serie di innovazioni intese a conferire maggiore flessibilità operativa ai suoi reparti.

   Il vero, grande innovatore della tattica nel mondo greco fu tuttavia il tebano Epaminonda, che nella battaglia di Leuttra (371 a.C.) riuscì a sconfiggere i temuti Spartani alterando lo schieramento tradizionale della falange, rafforzando poderosamente l’ala sinistra e adottando un ordine obliquo che sorprese e sconfisse il nemico.

   Il IV e III secolo a.C. furono un periodo di progressivo indebolimento delle città-Stato greche. Era sempre più difficile mobilitare i cittadini per lo scontro armato, mentre le divisioni interne rendevano le poleis un obiettivo sempre più appetibile per un potenziale aggressore esterno. Questo venne infine dal nord, dalla Macedonia, dove il re Filippo, salito al trono nel 359 a.C., stava forgiando un nuovo esercito, che non può essere definito veramente professionale, in termini moderni, ma che poteva contare sulle forze di rudi montanari, poco avvezzi alle piacevolezze della civiltà ellenica. A Cheronea, nel 338 a.C., Filippo sconfisse rovinosamente i Greci e si ritrovò in controllo dell’intero Paese. Solo due anni dopo, tuttavia, egli venne assassinato a seguito di una congiura di palazzo e gli successe il figlio Alessandro.

   La storia di Alessandro il Grande e delle sue campagne (334-323 a.C.) rappresenta il momento più alto dell’evoluzione della guerra nell’antichità greca. Il giovane figlio di Filippo di Macedonia aveva a disposizione uno strumento militare che per certi versi era simile e per altri profondamente diverso dagli eserciti delle città-Stato greche. Alla base dell’organizzazione della fanteria c’era sempre la falange, che tuttavia, nella versione macedone, era molto più compatta che in quella greca, se non altro per il fatto che la superiore lunghezza (da 4 a 7 metri) delle “sarisse”, le lance di cui era dotata, permetteva il ricorso ad uno schieramento più denso, dotato di maggiore capacità di penetrazione negli attacchi e più solido e consistente nella difesa.

   La vera novità, tuttavia, era rappresentata dal genio tattico e strategico del sovrano: sul piano tattico, infatti, egli sottrasse centralità al ruolo della falange, il cui compito divenne quello di limitarsi ad agganciare il grosso dello schieramento nemico, mentre grande importanza venne conferita al ruolo della cavalleria, la cui mobilità era sfruttata per aggirare il nemico e fiaccarlo, per poi precipitarvisi sopra non appena avesse cominciato a dare segni di cedimento.

   Come ha fatto giustamente notare il grande storico militare britannico John Keegan (La maschera del comando, Milano 2003), lo stile di comando di Alessandro fu ispirato alla più classica heroic leadership: egli, infatti, era sempre alla testa dei suoi soldati e più volte rischiò di essere gravemente ferito o ucciso in battaglia. Le sue doti militari, tuttavia, eccelsero soprattutto a livello di strategia e di condotta del combattimento: insofferente agli schemi precostituiti e consapevole della loro rigidità, preferì molto spesso affidarsi all’improvvisazione, adattandosi alle circostanze e costruendo le sue grandi vittorie esclusivamente grazie al suo genio tattico e strategico.

   La lunga campagna che lo condusse dalle montagne della Macedonia all’Afghanistan e all’India, oltre a procurargli fama imperitura, dimostrò al mondo che la guerra doveva essere condotta sempre e comunque mirando – come primo obiettivo – alla distruzione dell’esercito nemico, poiché la conquista di nessun vantaggio territoriale, per quanto grande, era superiore all’abbattimento definitivo del potenziale militare dell’avversario. Per questa ragione, egli fu sempre attento a soddisfare, per quanto possibile, le esigenze dei suoi soldati, badando a che, pur in mezzo a grandi sacrifici, essi potessero costantemente contare su condizioni di vita accettabili.

   Nello scontro contro le grandi masse dell’esercito persiano e poi contro gli sconosciuti eserciti dell’India, il dispositivo militare macedone – che con il passare degli anni aveva perso le sue caratteristiche d’origine e si era trasformato nella classica armata multinazionale tipica di un grande impero – poté comunque vantare, come indiscutibili fattori di superiorità, la sua migliore struttura di comando, la più efficiente organizzazione e la grande flessibilità operativa.

   All’aspetto pratico-fattuale, fin qui abbozzato per sommi capi, si devono ovviamente aggiungere l’importanza della funzione guerriera nel mondo greco, l’esaltazione del valore personale e delle virtù belliche, e la serenità con cui ci si accostò ad essa a livello filosofico, riconoscendo che il conflitto tra gli opposti è alla radice di tutte le cose (Eraclito). Lo stesso Aristotele ebbe a scrivere (Etica nicomachea): «Tutto si separa e tutto si riunisce. Quel che produce l’armonia è il contrasto di una cosa con se stessa… La guerra è la madre di ogni cosa. Omero ha sbagliato quando si è augurato la fine di tutti i dissidi, di quelli tra gli dei e di quelli tra gli uomini, perché, se ciò accadesse, tutto perirebbe… Siccome nel nostro mondo tutte le forme sono via via prodotte e distrutte, questo mondo somiglia a quel che fa il bambino quando gioca sulla sabbia».

   Già molto prima che Roma assurgesse al ruolo di potenza centrale del mondo antico, dunque, la guerra aveva assunto un ruolo di primaria importanza sul piano culturale, politico-strategico e ovviamente militare nel mondo greco (per non parlare di tutte le altre realtà storiche e geografiche di cui in questa sede, per ragioni di spazio, non è possibile trattare). Un approccio non demonizzante ne aveva riconosciuto la centralità nella vicenda umana, ciò che si era dimostrato molto utile a contrastarne ogni possibile forma di degenerazione o di escalation verso gli estremi. La guerra era profondamente inserita all’interno della vita degli uomini, con tutte le sue implicazioni, positive e negative.

                          Piero Visani