venerdì 29 dicembre 2017

"Fermi tutti, questa è una...politica!"

       L'Istat se ne fa un cruccio, ma perché mai gli italiani dovrebbero interessarsi e occuparsi di politica? Non è da tutti dedicarsi alla criminalità organizzata, nella quale notoriamente si entra per cooptazione. Di conseguenza, coloro i quali a tale cooptazione non sono interessati, naturalmente non si interessano di politica. Semplice, no? Ovvio che, se avessi voglia di prendere parte alla spoliazione legalizzata dei miei concittadini, di politica mi interesserei, ma, dal momento che depredare il prossimo per mantenere me stesso, la mia famiglia i miei amici e le mie (eventuali) amanti non fa parte dei miei programmi, è del tutto naturale che NON mi occupi di quell'attività di acquisizione più o meno legalizzata di piccoli e grandi privilegi (e di piccole e grandi somme) che in Italia, con spiccatissimo senso dello humour, viene chiamata "politica".
       Fine della storia e della politica. E inizio della rapina, legalizzata...

                             Piero Visani



La battaglia di Majuba Hill, 27 febbraio 1881

       Nella seconda metà di febbraio del 1881, mentre era in corso la ribellione dello Stato boero del Transvaal contro il dominio britannico, una piccola forza inglese composta da parti di vari reggimenti, tra cui i Gordon Highlanders (appena arrivati dall'India e primo reparto ad operare in Africa con le nuove divise kaki), venne spinta in avanti dal generale Sir George Pomeroy Colley, alto commissario di Sua Maestà per l'Africa Sudorientale. Colley non aveva alcuna esigenza immediata di avanzare, visto che era annunciato l'arrivo di cospicui rinforzi dalla madrepatria, ma era consapevole del fatto che essi erano guidati da un generale di anzianità superiore alla sua, Sir Frederick Roberts, il quale ovviamente lo avrebbe sostituito nel comando.
       Colley decise quindi di spingersi imprudentemente in avanti, alla ricerca di un successo militare che illustrasse la sua persona. Tuttavia, egli scelse di marciare verso le posizioni boere con meno di 650 uomini al suo comando. Grazie allo slancio dei Gordon Highlanders, egli riuscì a raggiungere la vetta della Majuba Hill, da dove contava di attaccare i Boeri. Tale attacco, tuttavia, non venne mai lanciato e i Boeri, perfetti conoscitori del terreno, partirono al contrattacco, utilizzando una tecnica di combattimento al momento sconosciuta dagli eserciti europei. I loro reparti, di consistenza più o meno simile a quella britannica, si mantennero infatti costantemente al coperto e fortemente dispersi, e si preoccuparono di colpire gli inglesi solo grazie alla potenza, alla frequenza e soprattutto alla mortifera precisione del loro fuoco di fucileria. In pratica, grazie ai fucili molto efficienti di cui erano dotati, i Boeri non ebbero bisogno di lanciarsi allo scoperto nella loro ascesa verso il culmine della Majuba Hill, ma si preoccuparono soprattutto di infliggere ai britannici il maggior numero di perdite possibili sparando da posizioni ben protette; perdite moltiplicate anche dal fatto che, in un teatro operativo come quello sudafricano, quasi tutti i reparti inglesi vestivano ancora le loro tradizionali giacche rosse, mentre i Boeri potevano mimetizzarsi alla perfezione nel terreno essendo tutti vestiti con abiti civili di colore marron.
       Questo tipo di tattica sorprese e sconcertò profondamente i britannici, i quali si aspettavano un assalto frontale in piena regola e subirono invece una terribile grandinata di colpi sparati da considerevole distanza, ma estremamente precisi. Nel mentre il computo delle perdite saliva, la determinazione a resistere delle truppe inglesi venne progressivamente meno, il panico si diffuse e i soldati cominciarono a correre il più rapidamente possibile giù dalla sommità della collina, onde trovare scampo. Il generale Colley tentò di fermarli, ma venne ucciso da alcuni tiratori scelti boeri, mentre ben 283 uomini, su un totale di meno di 650, caddero uccisi, feriti o prigionieri (al confronto, i Boeri ebbero solo un morto e 6 feriti, indizio inequivocabile dell'efficacia delle loro tattiche). Al momento del collasso delle truppe inglesi, il tenente MacDonald, dei Gordon Highlanders, raccolse intorno a sé una ventina di membri del suo reggimento (vedere l'illustrazione) e tenne la posizione fino a che solo lui e un altro soldato non vennero uccisi o feriti. A quel punto, decise di arrendersi.
       Scosso dall'esito di quel piccolo scontro e dai modi con cui esso si era sviluppato, il governo di Londra preferì fare la pace con le repubbliche boere. Molto stranamente, nessuno, in ambito militare, parve soffermarsi granché sulla singolare modalità con cui i Boeri avevano attaccato la Majuba Hill, cioè puntando tutto sull'intensità e la precisione del fuoco di fucileria a lunga e media distanza. In quel combattimento, in effetti, erano presenti, in nuce, caratteristiche tipiche di conflitti futuri, ma agli Stati Maggiori delle più importanti potenze europee, fatta forse parziale eccezione per quello tedesco, le più significative peculiarità dello scontro di Majuba Hill parvero completamente sfuggire.

                       Piero Visani




giovedì 28 dicembre 2017

La decrescita infelice o... il disastro pianificato

       Ormai è chiarissimo che i prossimi anni saranno quelli del disastro definitivo di questo Paese e del collasso economico di quanti non saranno riusciti a sottrarsi all'espropriazione collettiva di denari dai (pochi) produttori ancora rimasti in favore dei percettori che di tale espropriazione collettiva intendono pascersi.
       Programmi siffatti ormai fanno capolino dalle indicazioni "economiche" di molti partiti e non vi sono indizi che si andrà o si potrà andare in altre direzioni. Il futuro è chiaro: una DDR fittizziamente mascherata come liberista, nel senso che potrà anche essere tale per quanti ne profitteranno, mentre sarà solo un enorme Euro-lager per tutti gli altri. Questo è quanto le classi dirigenti intendono imporci, questo è quanto subiremo, anche perché TUTTE le formazioni politiche italiane di un certo rilievo sono perfettamente in linea con questa visione, che consente loro di occupare remunerative poltrone e lasciare tutto il resto del Paese nel fango, a cercare dove e come poter fuggire, o ad affogarvi dentro. Se qualcuno dei cittadini - per grandi capacità personali e/o fortuna - dovesse riuscire a sottrarsi a questo iniquo destino, saranno loro a preoccuparsi di metterlo in riga, con gli opportuni provvedimenti.
       Ormai è del tutto evidente che non ci resta altro che l'allineamento, la cooptazione, la fuga o la miseria. Del resto, per chi ha avuto la ventura di lavorare (non di fare il turista...) all'Est negli anni del comunismo sovietico, nelle periferie italiane riconosce le stimmate di un sistema politico-economico fallimentare in tutto, ma abilissimo nel sovrapporsi come una sanguisuga a tutto ciò che conserva ancora una vaga parvenza di vita, e a sopprimerlo. Del resto, per molti, vivere "le vite degli altri" e trasformarle in esperienze di morte, quando non in morte "tout court" è un'ambizione da soddisfare con urgenza. De gustibus...

                         Piero Visani



domenica 24 dicembre 2017

Bruce L. Gudmundsson, "Sturmtruppen. Origini e tattiche" - Recensione

       Capita che ci si accosti ad un libro con grandi aspettative, come se esso potesse in qualche modo squarciare un velo su argomenti di cui non si conosce abbastanza o di cui si vorrebbe sapere di più, e capita altresì che ci si ritrovi - al termine della lettura del medesimo - in una condizione di insoddisfazione profonda, poiché oltre tre centinaia di pagine lasciano perplessi, visto che ogni aspetto delle tecniche di assalto adottate dall'esercito tedesco nel corso della Prima Guerra Mondiale è stato sviscerato, ma non per il tramite di un'analisi che possa lasciare davvero qualcosa al lettore. Secondo una tecnica assai consolidata, in particolar modo nelle opere a forte contenuto specialistico, si viene informati di tutto senza che spesso si riesca a capire granché o - peggio - senza che si riesca a comprendere la ragione per cui una disamina sia stata condotta tanto a fondo, senza che però si sia riusciti a produrre una lettura in cui testo e contesto confluiscano insieme e, dall'analisi del primo, si riesca a capire di più del secondo.
       Questa è la sensazione che ho tratto da un'attenta lettura del libro di Bruce L. Gudmundsson, Sturmtruppen. Origini e tattiche, trad. it., LEG - Libreria Editrice Goriziana, Gorizia 2005, 330 pp., 21 euro. Mi aspettavo infatti un'analisi approfondita e minuziosa, e l'ho trovata nelle pagine del libro, ma mi aspettavo anche delle valutazioni in merito a ciò che è descritto nel testo, e al riguardo sono rimasto abbastanza deluso. Per fortuna mia e dei lettori, il libro può godere di una attenta e come sempre approfondita valutazione del curatore del medesimo, il generale Fabio Mini e questi, grazie alla sua sensibilità non meramente tecnica in materia, riesce perfettamente ad inquadrare il ruolo delle truppe d'assalto nei conflitti del passato, del presente e del futuro, consentendoci di comprenderne le cospicue e multiformi valenze, che non sono - tanto per essere chiari - più limitate al semplice campo di battaglia, ma investono le dimensioni ormai sempre più invasive della guerra e delle modalità di condurla, in un'epoca in cui la forma Stato è ormai entrata in grave crisi e il ruolo del combattente è chiamato a scelte delicate tra le figure di guerriero, militare e soldato, ed a rendersi conto delle notevolissime differenze che intercorrono tra le medesime, in un'epoca in cui l'aspetto dominante non è più la realtà, ma le continue manipolazioni che vengono operate sulla percezione della medesima. Oggi i cittadini, non meno che gli uomini in uniforme, sono immersi in una "virtualità reale" che solo i più ingenui indugiano ancora a chiamare "realtà virtuale". E le Sturmtruppen sono più importanti che mai - civili o militari che siano - perché il conflitto è diventato incredibilmente olistico e la prima cosa da fare, per combatterlo con profitto, sarebbe rendersi infine conto di questa fondamentale realtà e degli enormi cambiamenti che essa comporta.

                   Piero Visani


giovedì 21 dicembre 2017

Il caso Ustica

       Bella trasmissione di Andrea Purgatori, ieri sera su LA7, sul caso Ustica. Per ragioni legate alla mia attività professionale, ho avuto la ventura di seguire questo caso fin dal 1988. Avevo 38 anni ed ero figlio, per educazione familiare, di una "cultura istituzionale", ma non mi ero mai accostato agli arcana imperii da dentro, per cui la mia impreparazione in materia era totale.
       La tragedia del DC-9 dell'Itavia caduto al largo di Ustica mi appassionò e, in breve, anche se stavo "al di là del muro", mi accorsi che il "muro di gomma" c'era, eccome. Mi feci un'opinione, sulla questione, anche se ovviamente ero impossibilitato ad esternarla. Poi le vicende della vita mi hanno portato lontano da quelle sedi e da quegli ambienti, alla ricerca (per ora parzialmente vana) di un'isola deserta dove poter vivere lontanissimo dal mondo, ma è maturato in me il fermo convincimento che lo Stato sia - à la Nietzsche - "il più gelido dei mostri".
        Assistendo alla trasmissione di ieri sera di Andrea Purgatori, un giornalista che si è sempre battuto in prima persona per la ricerca della verità, ho avuto conferma che quel mostro non fa altro che uccidere, che innumerevoli sono le vittime delle sue carneficine politiche, morali, fiscali, comportamentali. Lo Stato è il più grande nemico che il singolo cittadino possa avere e il suo unico obiettivo è schiacciarlo. Come ottenere questo obiettivo è un fatto meramente strumentale, ma l'obiettivo resta fisso ed eguale a se stesso, nel corso del tempo e della Storia.
       Tra gli 81 morti di Ustica ci sono 16 bambini, ma allo Stato non importa alcunché, di quei morti. Sono vite spezzate - è vero - ma sono anche vite sacrificabili perché, anche se loro non lo sapevano, c'era qualche padrone da ossequiare, qualche alleanza cui leccare le terga, qualche amico innominabile da tutelare, nel mentre - come sempre in tutta la sua storia unitaria - l'Italia faceva parte di uno schieramento politico-militare e, al tempo stesso, aveva un piede (e forse più...) anche in quello avverso al primo.
       Alla fine della trasmissione, ero soffocato dal senso di nausea, dallo schifo profondo per un'"espressione geografica" così profondamente malata a livello politico ed etico, e bene ha fatto Purgatori a tracciare un parallelismo tra il caso Ustica e la vicenda di Giulio Regeni. Nei due casi, lo Stato italiano avrebbe dovuto spiegare, ai parenti delle vittime, le ragioni dei suoi comportamenti, delle sue acclarate viltà, dei suoi enormi silenzi e delle sue grandi omissioni. Niente di tutto questo: in Italia, i diritti di cittadinanza si esercitano pagando una tassazione folle. Per il resto, puoi tacere e/o morire, a tua "libera" scelta. Se poi riesci a fare entrambe le cose e a non rompere le scatole alla classe politica, sei pure potenzialmente degno di una mancia, che so, magari di 80 euro, con cui cercare di ripianare il patrimonio, in genere molto modesto, che nel frattempo ti avranno sfilato per via bancaria e/o fiscale.
       Viva la democrazia, viva la libertà, e naturalmente - per quelli cui è capitata, per "incidente" o per suicidio - "Viva la muerte!, a condizione che sia la loro e non quella della classe cleptocratica che ci governa, con il solido consenso dei suoi servi prezzolati.

                           Piero Visani



martedì 19 dicembre 2017

Ali Babà e i 40 (solo 40?) ladroni

       Mattinata passata ad effettuare pagamenti vari: paga qui, paga là; paga questo, paga quello. Se avessi un retroterra ideologico cristiano, potrei essere contento, perché avrei fatto felice il mio prossimo, anzi i miei padroni e sfruttatori.
       Se fossi masochista, sarei contento e potrei abbeverarmi alle teorie del pensiero unico dominante, quelle che - sostenute da teorici ben prezzolati - pretendono che la democrazia sia il migliore dei mondi possibili. Siccome di natura sono un "esploratore", mi chiedo - à la De André in "Giugno '73": "Sono questi stasera i migliori che abbiamo?".
       Depredato di ogni avere, potrò passare un "Natale francescano", ma siccome delle festività natalizie, come di tutte le altre, non mi è mai importato assolutamente alcunché, prendo atto del fatto che "Non finirò così" (o forse sì...?).
       E' bello, sul declinare dell'esistenza, continuare ad odiare i propri nemici come all'inizio della medesima. In ogni caso, subisco il minimo indispensabile; renderò (o farò rendere) il massimo possibile. Devo scrivere di più, devo diffondere maggiore "amore" per i sistemi politici che si pretendono NON basati sul latrocinio ed evidenziano le loro virtù da peripatetiche.

                             Piero Visani



lunedì 18 dicembre 2017

In gran segreto

       Le classi dirigenti italiane non si smentiscono mai: fanno tutto in gran segreto. Fuggono in gran segreto (non prima di aver preso le opportune precauzioni affinché la loro fuga possa risultare sicura); ritornano in gran segreto. La loro non visibilità è corretta, in quanto conforme alla loro statura etica e politica (nel caso di specie, anche fisica...).
       Lo zio di mia moglie, Roberto Botta, capitano degli Alpini in Jugoslavia, monarchico convinto, il 9 settembre 1943 cercò di impedire ai tedeschi, in base all'ordine del governo Badoglio di "respingere gli attacchi, da qualunque parte provenissero", di impossessarsi delle attrezzature radio del suo reparto. Venne ucciso a freddo, perché opporsi a quello che vuole il Reich (sia esso il Secondo, il Terzo o il Quarto), gli italiani lo pagano spesso con la vita... Molti anni dopo, gli dedicarono una caserma e mio suocero si batté a lungo per impedire una farsa di tale portata; invano.
       Oggi alle vecchie farse se ne aggiungono di nuove, sempre in gran segreto, perché la statura del potere, in Italia, è un po' più bassa della Fossa delle Marianne. Lo zio di mia moglie è morto, dopo aver lasciato una sposa giovanissima e una figlia mai conosciuta. L'onore è salvo (o quasi...) e possiamo vivere felici e contenti. Se ci siamo riusciti, a suo tempo, a vivere... Soggetti francamente impresentabili si aggiungono alla lunga lista dei "Padri della Patria" e chi scrive sente ancora più forte l'anelito ad essere apolide e orfano.

                             Piero Visani



sabato 16 dicembre 2017

Storia della guerra nel XX secolo

       E' un lavoraccio, scrivere questo secondo volume di "Storia della guerra", mentre si prepara la pubblicazione del primo. Ma è pure una bella impresa, una di quelle che si affrontano per lasciarsi dietro qualcosa di sé. Una sorta di filiazione intellettuale, uno sforzo per cercare di diventare memoria. Meglio farlo prima che sia anagraficamente troppo tardi. Probabilmente, è un qualcosa che devo a me stesso e alla mia visione del mondo, ergo devo scriverlo.

                 Piero Visani



venerdì 15 dicembre 2017

La giovane arpista

       Centro di Torino. Primo pomeriggio. Non c'è nulla di meglio che compiere una passeggiata a piedi tra via Roma, piazza San Carlo e piazza Castello per trovare le tante similitudini tra questa città e quelle dei Paesi dell'Est al momento della crisi finale del comunismo o di città come Detroit nei momenti di svolta della produzione capitalistica: molti negozi chiusi, un'aria da mean streets, torme di homeless accampati alla bell'e meglio lungo la direttrice che dovrebbe essere quella del "salotto buono" della città. Rari "Vopos" che la percorrono impegnati a sorvegliarla digitando sui telefonini... e un'aria complessiva da "decrescita (in)felice" che la nuova amministrazione grillina non ha fatto che accentuare, dopo decenni di disastri di Pci-Ds-Pd. Per fortuna del capoluogo subalpino, in Comune non è mai riuscito ad insediarsi un sindaco di Centrodestra, altrimenti in centro non ci sarebbero nemmeno più le statue...
       Si respira una "bellissima" aria da "fine dei tempi": l'età media delle persone che si muovono (a fatica) in mezzo a questo concentrato di miserie è sui 115 anni. "Giovani" coppie nate ai tempi di Giolitti e ora ancora qui, a godersi la meritata pensione. Intorno a loro ruotano molti stranieri: un discreto numero di turisti e una abbondante quantità di cinesi, spesso dall'aria agiata. Il modo con cui i cinesi stanno conquistando il mondo è degno di ammirazione: in silenzio, da dentro e da sotto, muovendosi con discrezione, secondo un piano strategico ben concepito e meglio applicato. Lo sguardo che riservano ai non cinesi è marcatamente razzista, ma occorre saperlo cogliere. Se credi all'eguaglianza, non ci riuscirai e sarà molto peggio per te...
       Risiedo in questa città dal 1955, all'interno di essa o nei pressi. Molte cose sono cambiate, da allora, alcune anche in meglio, ma sempre più forte si è fatta l'aria da Berlino Est. Certo, i monumenti sono belli; la storia locale ricca, ma il senso che ti accompagna resta sempre quello di chi sta vivendo "le vite degli altri", guardandole da fuori, come un bambino povero con il nasino schiacciato contro la vetrina di un negozio di balocchi che non potrà mai comprare o farsi comprare, e che al tempo stesso sente che qualcuno lo sta osservando, perché è grazie al rubarti la tua - di vita - che quegli "altri" riescono a vivere e a prosperare alle tue spalle. Un "Goodbye Lenin" non è mai stato pronunciato davvero, almeno non per quanto concerne il trasferimento di ricchezze dai produttori ai percettori.
       Completo il mio giro, abbeverandomi di questo senso di morte che non è di morte imminente, ma di agonia protratta oltre ogni accettabile limite, di accanimento "terapeutico" intento a fare sì che tu e le persone senza potere come te vengano progressivamente strangolate, con studiata lentezza, di modo che i "beati possidentes" possano vivere nell'agiatezza qualche anno in più, grazie al sangue che ti avranno continuato a succhiare.
       Come è tipico di una città intimamente monarchica (dai Savoia, agli Agnelli, al Pci - mai più reazionario e codino che qui), forte è il senso di disciplina e di subordinazione gerarchica ai capi, tanto più forte quanto più i capi sono dediti alla sodomia, pratica che alle masse piace molto e dà soddisfazione. Dunque nessuno o quasi nota che i negozi più ricchi e scintillanti di luci spesso dispongono di più ingressi, alcuni riservati a coloro che girano in Cinquecento e con un giubbottone da mercato periferico, ma che poi vi entrano di soppiatto per svuotarli, salvo ovviamente reindossare il giubbottone prima di uscire. Meglio tenere un profilo basso, non sia mai che gli schiavi si rendano contro delle prese per i fondelli a loro carico... Ci saranno molte occasioni, lontano dalla Mole, per fare sfoggio di reale ricchezza.
       Nel bel mezzo di questa "Morte a Torino", di questo concentrato di "gioventù" affine a certe scene di "Youth", di Paolo Sorrentino, nemmeno interrotte dall'improvvisa comparsa di un fulgore giovanilmente fisico à la Madalina Ghenea, sotto le volte della Galleria San Federico mi colpisce il suono senza tempo di un'arpa. Per qualche minuto non mi preoccupo nemmeno di stabilirne la provenienza, lasciandomi cullare da un pezzo classico e da varie melodie celtiche. Poi il suono si interrompe e, nel farlo, mi richiama nel mondo. Constato così che, proprio nel centro della Galleria, davanti al cinema Lux e ai piedi di un albero di Natale, una giovanissima arpista sta accordando il suo strumento. Si è interrotta proprio per sistemarlo, ma le sono bastati pochi tocchi sapienti per rimetterlo a posto e riprende a suonare, ancora un'aria celtica.
       E' un'artista di strada e, davanti a sé, ha sistemato un contenitore per chi volesse gratificarla di un obolo. Il contenitore è disposto con cura e grazia, esattamente come molta grazia emana da quella donna molto giovane, i cui gesti più semplici sono ispirati a un'estrema armonia estetica.
       Mi avvicino e deposito nel contenitore, piuttosto vuoto, una banconota. Non deve esserci granché abituata, ad un obolo del genere, perché smette di suonare e mi ringrazia con grande partecipazione. Mi chiede se sono anch'io un musicista e vorrei dirle che sono "un musico fallito, un teorete", uso soprattutto a "sparare cazzate", ma temo che prenderebbe questa citazione gucciniana come una provocazione, per cui le rispondo di aver suonato qualche strumento, in passato, ma mai nessuno bene come lei suona l'arpa.
       Mi sorride, stringe a sé il suo strumento e confessa di amarlo molto, come una parte di sé. "L'ho notato" - le dico - "e mi ha colpito, così come mi hanno colpito le arie che suonava".
       "E' tutto frutto di un percorso interiore" - mi risponde lei - "Seguo la mia strada, guidata da ciò che mi suggerisce il cuore".
       "Continui così!" - la esorto - "mi ha offerto per un attimo l'immagine e l'atmosfera di un mondo che amo".
       E' colpita dalle mie parole e mi ringrazia nuovamente. "Per arrivare dove si vuole" - aggiungo - "la guida migliore è il proprio percorso interiore. Il resto è roba da economisti, o da capitalisti...".
       Si illumina di una risata argentina, mi ringrazia nuovamente e riprende a suonare, non prima di avermi fatto gli auguri, che ricambio.
       "In interiore homine habitat veritas". E dove, se no?

                       Piero Visani





mercoledì 13 dicembre 2017

Louis Antoine de Saint-Just

       Ci sono personaggi storici che esercitano un fascino a volte incomprensibile sul nostro animo. Sul mio, in particolare, tali personaggi sono molti, ma una delle figure che mi ha colpito di più, per la sua complessità e le sue innumerevoli sfaccettature, è quella di Louis Antoine de Saint-Just de Richebourg.
      Nato nell'agosto 1767 a Decize, in Borgogna, figlio primogenito di Louis Jean, capitano di cavalleria ed esponente della piccola nobiltà di provincia, ebbe una gioventù relativamente turbolenta, nel corso della quale si distinse per la sua capacità di piantare grane e di mostrarsi ribelle a qualsiasi forma di restrizione. 
       Spirito fortemente trasgressivo, libertino, consapevole del suo personale carisma, dopo una delusione amorosa nell'estate del 1786 si recò improvvisamente a Parigi, non prima di aver sottratto alla madre, rimasta vedova, una non indifferente quantità di argenteria. La madre reagì facendolo arrestare e chiudere in un riformatorio, dove rimase dal settembre 1786 al marzo 1787.
       Nell'ottobre 1787 si iscrisse alla Facoltà di Diritto dell'Università di Reims, dove si laureò in meno di un anno, dando prova di voler almeno parzialmente modificare la propria condotta. Dopo avere personalmente assistito agli inizi della Rivoluzione francese, si convinse che la nobiltà non avrebbe potuto essere facilmente convertita ai nuovi orientamenti politici e sviluppò quindi una visione molto radicale, che lo portò a conoscere Robespierre e a diventare una delle persone a lui più vicine. Eletto all'Assemblea legislativa il 5 settembre 1792, di cui divenne il membro più giovane, si unì al gruppo dei Montagnardi, dei quali condivideva la visione politica assai radicale. Eccellente oratore, ideologicamente molto estremista, Saint-Just divenne in breve una figura di spicco dei Montagnardi stessi.
       L'insurrezione parigina del 10 agosto 1792, che abbatté la monarchia, pose il problema del processo a Luigi XVI, che i Girondini (rivoluzionari moderati) non volevano assolutamente, temendo che un atto del genere non avrebbe fatto altro che rinforzare il radicalismo dei loro avversari Giacobini. Proprio sul tema del processo al sovrano, il 13 novembre di quell'anno Saint-Just pronunciò il suo primo discorso alla Convenzione, dove assunse subito un atteggiamento fortemente radicale: "Gli uomini che stanno per giudicare Luigi hanno una repubblica da fondare: ma coloro che attribuiscono una qualche importanza alla giusta punizione di un re, non fonderanno mai una repubblica [...]. Cosa non temeranno da noi i buoni cittadini, vedendo la scure tremare nelle nostre mani, e vedendo un popolo che fin dal primo giorno della sua libertà rispetta il ricordo delle sue catene?" Di conseguenza, la sua richiesta fu quella di mettere immediatamente il re a morte e il suo discorso suscitò una notevole impressione tanto tra i suoi sodali politici quanto tra gli avversari, i quali furono costretti ad ammettere il suo notevolissimo talento oratorio. La sua richiesta fu di fatto approvata, visto che Luigi XVI venne ghigliottinato il 21 gennaio 1793.
       Dopo l'approvazione della Costituzione del 1793, Saint-Just appoggiò incondizionatamente Robespierre nel suo tentativo di non "ammorbidire" lo spirito rivoluzionario, che culminò nell'approvazione della "Legge dei Sospetti" (17 settembre 1793), la quale conferì al Comitato di Salute Pubblica ampi poteri di repressione di ogni forma di opposizione.
       A quel punto, Giacobini e Montagnardi assunsero il controllo della Convenzione e lo stesso Saint-Just venne eletto presidente della medesima (19 febbraio 1794). Egli si batté subito in favore della redistribuzione delle ricchezze degli aristocratici al popolo, ma senza che le sue idee venissero mai messe concretamente in atto.
       Nel corso della primavera del 1794, il Comitato di Salute Pubblica controllava di fatto la politica francese e diede avvio alla fase del Terrore, scatenata contro tutti i suoi nemici, di destra e di sinistra. In tale azione, Saint-Just svolse un ruolo di assoluta preminenza, distinguendosi per il suo estremo radicalismo, che tuttavia cominciò ad allarmare i molti nemici che si stava facendo a tutti i livelli.
       Inviato in missione a fine aprile 1794 presso l'Armata del Nord, onde esercitare una sorta di ruolo di commissario politico, ebbe subito modo di manifestare la sua fiducia incondizionata nell'offensiva ad oltranza, oltre ad imporre una dura disciplina all'esercito rivoluzionario, cui non mancava certo lo slancio ma difettava la capacità di gestirlo in maniera militarmente efficace. Pur incontrando l'opposizione di molti generali, egli riuscì ad assumere di fatto il comando delle operazioni, a riscuotere molta simpatia fra la truppa (che era solito guidare con l'esempio personale) ed ebbe un ruolo di rilievo nella vittoria di Fleurus (26 giugno 1794).
       Ritornato a Parigi alla fine di quello stesso mese, a causa della dura lotta che si era aperta tra fazioni rivoluzionarie rivali, si batté per mantenere una certa armonia all'interno del Comitato di Salute Pubblica, sempre più ostile alla politica di Robespierre e ai suoi sanguinosi eccessi. Il suo intervento, tuttavia, venne duramente contrastato da Tallien ed egli, invece che reagire, si chiuse in uno sdegnoso silenzio. Arrestato insieme ai principali sostenitori di Robespierre, venne con costoro ghigliottinato nel pomeriggio del 28 luglio 1794, all'età di soli 26 anni.
       La leggenda vuole che un suo insegnante abbia detto, di Saint-Just: "Questo ragazzo diventerà un grande uomo o uno scellerato". Ammesso e per nulla concesso che tra le due figure testé citate esista una qualche possibile differenza, quello che mi ha sempre affascinato - di lui - è la sua fame di vita abbinata a una non meno ardente bramosia di morte, e anche la capacità di intendere alla perfezione il suo ruolo di politico, che - quando rettamente inteso - gli consentì di salire alla ghigliottina in perfetto silenzio, come se l'intera vicenda riguardasse un altro, mentre già prima, nei suoi Frammenti sulle istituzioni repubblicane, aveva scritto alcune parole che letteralmente adoro: "Io disprezzo la polvere di cui sono fatto e che vi parla; si potrà perseguitare e far morire questa polvere, ma sfido a strapparmi la libertà e la vita indipendente che mi sono dato nei secoli e nei cieli". Quando ho letto queste parole, mi ha fatto piacere sapere di aver condiviso con lui una specifica concezione dell'esistenza.

                   Piero Visani





martedì 12 dicembre 2017

Destra e cultura (minima animalia...)

       I riferimenti dell'amico Amerino Griffini ai difficili (uso un eufemismo...) rapporti tra Destra politica e cultura, e il susseguente mini-dibattito che si è acceso, mi hanno richiamato alla mente un gustoso episodio avvenuto intorno alla metà degli anni Novanta. Ero consulente del Ministero della Difesa per la comunicazione e l'informazione in materia militare; avevo da poco chiuso il mio biennio (l'ultimo della presidenza Cossiga) di consulenza comunicativa presso il Segretariato Generale della Presidenza della Repubblica ed ero editorialista del "Secolo d'Italia", quotidiano nel Msi ormai in procinto di trasformarsi in Alleanza Nazionale. I miei editoriali venivano regolarmente citati nelle rassegne stampa radiofoniche e televisive dell'epoca, e - per quanto ne so - all'interno del partito nessuno li aveva mai criticati.
       Abitavo all'epoca in un complesso di palazzine sulla collina di Torino, in un Comune di cui era consigliere per il Msi un signore che - a quanto ne sapevo io - faceva di professione il vivaista, non l'intellettuale, il giornalista, lo scrittore, il linguista o - più semplicemente - il correttore di bozze. Costui pare fosse in buoni rapporti con la portinaia del mio complesso, per cui, un bel giorno, arrivò da lei con una serie di fotocopie di miei editoriali, con ben evidenziate le cose (poche o pochissime) che condivideva e quelle (molte o moltissime) che gli davano fastidio.
       Da disciplinata costode di un complesso residenziale, la portinaia me li consegnò e io, non sapendo di che si trattasse, li lessi e mi resi rapidamente conto che avevo a che fare con una "maestrina dalla penna rossa". Non mi sorpresi più di tanto. Non ero ben visto dalla dirigenza regionale del partito, penso per una semplicissima questione di Q.I., e dunque mi resi subito conto che i "Leporelli" (ovvero i servi sciocchi) della medesima, forse ipotizzavano - con tali "pensate" - di operare qualche captatio benevolentiae a loro favore.
       La cosa andò avanti per tre-quattro settimane, poi - siccome la pazienza è una virtù che non mi interessa - mi recai in portineria e dissi alla custode di non ritirare le "correzioni" del singolare consigliere comunale. La solerte custode mi chiese che cosa dovesse dirgli per giustificare il mancato ritiro di quei "parti di sapienza" e io - sebbene ostilissimo a qualsiasi forma di giustificazione (è una pratica democratica, io la detesto) - la pregai di dirgli che, siccome io non andavo al di lui vivaio a insegnargli il suo mestiere, lui cortesemente non venisse a casa mia ad insegnarmi il mio.
       L'aneddoto è modesto, ma spiega molto su una certa attitudine mentale: "hai fatto attacchinaggio? No. E allora non sei nessuno!". E infatti io ero e sono nessuno, e non pretendo di insegnare alcunché ad alcuno, tanto meno dalle iperboree altezze di un vivaio, che tra l'altro dovrebbe essere pure professione prettamente tellurica...
       La cosa comunque mi servì a capire che la politica italiana non faceva per me e quindi cominciai ad interessarmi di tutt'altro. Da allora, ho avuto molti maestri di scrittura e di politica, ma vivaisti - ahimè - più nessuno...

                            Piero Visani



lunedì 11 dicembre 2017

"Sympathy for the Devil" compie cinque anni

       Quando creai questo blog, l'11 dicembre 2012, speravo che sarebbe stato un piacevole compagno nel mio lungo "viaggio al termine della notte". Pia illusione! Quella notte non è mai finita, è ben lontana dal finire e mi ha fatto capire - anche se in realtà lo sapevo già... - che non è vero che "più buio che a mezzanotte non viene". Viene, viene...
       Non faccio bilanci, non ne ho mai fatti. Che senso ha fare il curatore fallimentare? Posso solo dire che il blog mi ha aiutato a scrivere un'opera cui tengo parecchio - una Storia della guerra in due volumi, all'uscita del primo dei quali non manca più molto - e ad abbozzare due romanzi che ho deciso di fondere insieme, lavorandoci ancora parecchio su, per illustrare al meglio "la tragedia di un uomo ridicolo" all'interno di una democrazia totalitaria.
       A parte questo, il blog mi è servito a conoscere o a ritrovare molti amici. E anche quello è un merito che gli devo riconoscere, amici che gli hanno fatto cumulare quasi 161.000 visualizzazioni, ad oggi, e che ringrazio sentitamente. Non ho fatto miracoli, non mi sono spiegato meglio, non mi sono fatto capire. Il più delle volte, anzi, ho raccontato solo una piccola parte di quelle che reputo verità. Ma, in definitiva, ho fatto bene, perché per me - ma questo l'ho inteso tardi - è utile soprattutto tacere. Non interessano ad alcuno le verità ineffabili, non creano solidarietà, comportano solo dolore, più ancora di quello che già abitualmente si prova nel "migliore dei mondi possibili".

                        Piero Visani



domenica 10 dicembre 2017

Storia della guerra, voll. I e II

       Il primo volume di quest'opera si intitolerà Storia della guerra dall'Antichità al Novecento e si articolerà in 27 capitoli, che copriranno il periodo che va dall'antica Grecia fino agli anni immediatamente precedenti alla Prima Guerra Mondiale. Esso è attualmente in lavorazione presso Oaks Editrice, Milano, e la sua pubblicazione è prevista per la primavera 2018.
       Il secondo volume sarà invece intitolato Storia della guerra nel XX secolo e si articolerà in 16 capitoli, che copriranno il periodo che va dalla Prima Guerra Mondiale ai conflitti attuali, con alcune "incursioni" nelle possibili forme dei conflitti futuri. Questo volume è in fase di scrittura e di predisposizione della bibliografia di supporto. Il capitolo sulla Grande Guerra è già stato scritto e gli altri sono in fase di preparazione.

                  Piero Visani






sabato 9 dicembre 2017

Piccoli trucchi...

       Per poter usufruire dell'altissimo privilegio di entrare a far parte del 1° Reggimento dei Granatieri della Guardia Imperiale napoleonica, Jean-Roch Coignet, valoroso soldato della 96a demi-brigade di fanteria di linea, dovette sottoporsi ad una visita che certificasse che la sua statura era davvero di 1 metro e 80 centimetri, altezza minima richiesta - a parte tutte le attestazioni di valore raccolte in combattimento - per entrare a far parte di quel reparto di assoluta élite.
       Ben consapevole di essere relativamente lontato da quel dato minimo, Coignet si recò al controllo dopo aver adottato uno stratagemma assai diffuso all'epoca: infilarsi nelle calze, sotto i piedi, due mazzi di carte ben bilanciati, sufficienti a donargli i centimetri che gli mancavano. Gli ufficiali medici del 1° Granatieri della Guardia non se ne accorsero, o fecero finta di non accorgersene, e Coignet fu ammesso a quel prestigiosissimo reparto, dove trascorse gran parte della sua carriera, come racconta nei suoi celebri Cahiers.

                                Piero Visani



Sense of humour

       Il fatto che un ex-vicepresidente degli Stati Uniti lamenti interferenze russe sulla politica italiana è una barzelletta neppure troppo ben riuscita. Si capisce il senso di fastidio di un padrone per eventuali ingerenze non gradite nelle colonie o nei protettorati USA, ma, al di là di questo, con quale faccia vengono fatte talune affermazioni? L'unica preoccupazione che è sempre esistita in questo Paese, a livello di classe politica, è stata costantemente quella di leccare le terga a Washington, a meno che non si volesse fare la fine di Enrico Mattei, Aldo Moro o Bettino Craxi. Come avvertimenti sulla "giusta linea" da seguire, erano un pochino di più che semplici interferenze. O no?

                          Piero Visani



venerdì 8 dicembre 2017

"Ma è un'ingiustizia, però..."

       Da buon sostenitore dei Calimeri, i "pulcini neri", mi sto rileggendo a tutta velocità il numero speciale di Limes - Rivista italiana di geopolitica sul Texas (n. 8/2016). Visto che Israele ha diritti su Gerusalemme, io sto analizzando i diritti del Messico sul Texas, che mi paiono molto ampi, a meno che il diritto, anche in democrazia, non si basi sulla forza delle armi e sulla conquista manu militari. Ma sono cresciuto nell'Italia democratica del secondo dopoguerra e a scuola ho imparato che questi sono semplici e assoluti abomini. Ergo studio affinché il Messico possa riacquisire quanto prima - e legittimamente - il Texas e altri Stati e parti di Stato degli USA, in base al "diritto del più debole", che in democrazia, per una questione di legittimità, vale molto di più di quello del più forte... Ovvio, no? O sono diventato anch'io, come tutti quelli che mi intrattengono "dottamente" sul tema, un formidabile ipocrita e coglione? O un "realista politico", cioè di quelli che per "realismo" intendono "io so' io e voi non siete etc. etc.". "Realismo" e bullismo, in politica, paiono somigliarsi assai...
       La concezione del diritto dei "democrats" è una stracca barzelletta, di quelle che neppure fanno ridere...

                  Piero Visani



lunedì 4 dicembre 2017

L' "onda nera"

       Cresce, cresce, cresce l'"onda nera". E con quale singolare tempismo cresce. Cresce talmente bene e così rapidamente che appare eterodiretta. Quando c'è da salvare una nave che fa acqua da tutte le parti e non è in procinto di affondare, perché è già completamente affondata, ecco l'"onda nera" che arriva, a prendersi le colpe di tutto. E' il suo ruolo. La farsa si è già da tempo trasformata in tragedia, tragedia per tutti coloro che non hanno nemmeno più da mangiare e sono in povertà assoluta.
        "Ci salveranno le vecchie zie?", si chiedeva Leo Longanesi in una sua celebre opera. La risposta - aggiornata - a questo fondamentale interrogativo potrebbe essere: "sì, purché non in gramaglie"...

                        Piero Visani



venerdì 1 dicembre 2017

Analisi (vagamente) incomplete


        Leggo sui quotidiani di oggi che in Europa cresce il pericolo delle estreme destre. Innegabile. Non leggo analisi altrettanto allarmate - e me ne dolgo - sul pericolo dei governi imbelli, ladri, tassatori e privi di un qualsiasi progetto politico che non sia la sopravvivenza tramite la malversazione e la subordinazione alla grande finanza (quando non anche alla grande criminalità...).
        In una parola, la chiave di tutto è: PER CHI rappresentano un pericolo queste "estreme destre"? Per il sottoproletariato ridotto alla miseria? Per il proletariato deprivato di tutto, lavoro compreso? Per la borghesia impoverita e costretta a cercare le soluzioni più diverse per sbarcare il lunario? O per i "beati possidentes", tronfi di prebende che si scambiano amichevolmente?
        E' un peccato che lo studio della storia non vada più di moda, perché avrebbe tante piccole cosette da insegnare, a chi ancora sa leggere e riesce a distinguere tra comprensione e ossequio ai potenti e ai potentati di turno...
        Finirà male? E' ovvio. Voi vedete premesse perché possa finire bene?

                                   Piero Visani



giovedì 30 novembre 2017

Il "vero crimine" e la "giustizia dei vincitori"

          Nella quarta di copertina dell'aureo libro La giustizia dei vincitori. Da Norimberga a Baghdad (Laterza, Roma-Bari 2006), scritto dal professor Danilo Zolo, noto esperto di diritto internazionale, si leggono queste parole: "C'è una 'giustizia su misura' per le grandi potenze occidentali, che godono di un'assoluta impunità per le guerre di aggressione di questi anni, giustificate come guerre umanitarie o come guerre preventive contro il terrorismo. E c'è una 'giustizia dei vincitori' che si applica agli sconfitti e ai popoli oppressi, con la connivenza delle istituzioni internazionali, l'omertà di larga parte dei giuristi accademici e la complicità dei mass media. In realtà solo la guerra persa è un crimine internazionale" [la sottolineatura è mia].
       Non è un caso di tornare qui su temi ben noti come la "criminalizzazione della guerra", tipica delle società occidentali, dove tutto è guerra, ma è guerra di tutti contro tutti, il che favorisce le procedure di controllo di chi sta in alto a carico dell'obbligato ossequio di chi sta in basso. Ma si può facilmente fare riferimento all'attuale totalitarismo umanitario, quello per cui, se non ti adegui alle falsità occidentalocentriche, sei passibile di qualsiasi sanzione, meglio se capitale... Perché hai dimenticato un fatto fontamentale: i morti che fanno gli occidentali MUOIONO MENO di quelli che fanno gli altri. E tu sei un criminale non in quanto tale (quante volte l'Occidente si è avvalso e si avvale di criminali? Rivedersi - per rinfrescarsi la memoria - il film completo della soppressione del colonnello Gheddafi...) ma semplicemente perché hai perso, perché sei inferiore, perché sei contrario a quello che pensiamo noi".
       Di fronte a tutto questo, a parte l'opposizione armata, non resta molto altro da fare, se gli esiti sono stati negativi, che testimoniare con la propria vita, di fronte all'occidentalismo, che non tutto può essere ridotto a merce, magari a merce di scambio e che il terrorismo umanitario va bene per le gigantesche farse che esso è in grado di mettere in scena in tribunali PRIVATI spacciati per internazionali. NON TUTTO, INFATTI, E' MERCE; NON TUTTO E' FINZIONE. LA VITA E' VERA E LA SI PUO' SACRIFICARE TRANQUILLAMENTE COME ATTO DI SUPREMO SPREGIO PER COLORO CHE ANCHE DELLA VITA E DEL DIRITTO SONO RIUSCITI A FARE MERCE. Era ed è conforme alla loro infinita bassezza, dunque nulla di cui sorprendersi. E' un nuovo "Gott mit uns", ma le "anime belle" che lo appoggiano (quelle che lo propugnano non sono per niente "anime belle"...) corrono felici verso l'abisso. Il nuovo pifferaio di Hamelin emette la sua musica "melodiosa" e loro corrono ovinamente felici verso l'abisso del nuovo terrorismo "umanitario".

                  Piero Visani



martedì 28 novembre 2017

Dalla "realtà virtuale" alla "virtualità reale" - 2

       Mi ero già soffermato su questo tema in passato, sempre nel mio blog, ma sono indotto a ritornarvi su sulla scorta delle assurde polemiche di questi giorni sulle "fake news" e sulla necessità, propugnata da molte parti, di combattere le "bufale".
        Una prima, inevitabile riflessione è che i falsi giornalistici e propagandistici sono sempre esistiti e hanno caratterizzato la storia umana, dalla notte dei tempi alla nascita della stampa moderna, per poi assumere forme sempre più complicate e raffinate. Già nel 1998, nel mio saggio Lo stratega mediatico (Roma, Cemiss - Rivista Militare), avevo delineato le linee di fondo di una situazione in continua evoluzione. Da allora la situazione si è ulteriormente complicata e oggi, affrontarla in una semplice logica di confronto tra vero e falso, o di utilizzazione strumentale di vero e falso, non ha più senso alcuno, perché fa astrazione di un interrogativo cruciale, che non viene posto mai abbastanza: quale significato ha oggi - nella società della virtualità più totale - parlare di "vero" e "falso"? Che cosa è "VERO"? Che cosa è FALSO"?
     La corsa verso la modernità è una corsa verso un costante incremento della complessità, accompagnata - ahinoi! - da una costante perdita degli strumenti atti ad interpretare tale complessità e fiancheggiata - doppio ahinoi! - dalla crescente diffusione dei "geni da Internet", coloro i quali, alla stessa stregua dei politici, discettano di tutto senza sapere (e capire...) niente di niente.
       Premessa fondamentale di questo tipo di approccio è che esso equivale, nel caso ad esempio si parlasse di guerra, a lodare - nel 2017...!!!! - l'utilità pratica futura della "guerra di trincea". A mio giudizio, per contro, occorre dotarsi di strumenti nuovi e, in primo luogo, di una FONDAMENTALE ACQUISIZIONE: nella realtà contemporanea, vero e falso hanno cessato da tempo di esistere, e ad essi si è sostituità una VIRTUALITA' REALE, in cui questi due concetti hanno perso qualsiasi consistenza, dal momento che siamo sprofondati in un'epoca di puro nominalismo, dove le definizioni di "vero" e "falso" sono affermazioni assolute (talmente assolute da risultare relative...), prive di qualsiasi riscontro con la realtà.
       Non sussiste nemmeno più spazio per il verosimile, perché ha ceduto posto all'unica cosa che conti oggi: LA COSTRUZIONE DI REALTA'. Su questo tema occorrerebbe soffermarsi molto di più di quanto non si sia fatto finora, poiché LA "VIRTUALITA' REALE" COSTITUISCE IL TERRENO IDEALE PER QUALSIASI TIPO DI MANIPOLAZIONE, che agli uni apparirà "vera" e agli altri "falsa".
       In una parola, sarebbe bello se si smettesse di parlare di tutto questo in termini di vero e falso. DALLA POLITICA, COME DALLA GUERRA, "VERO" E "FALSO" SONO STATI COMPLETAMENTE E DEFINITIVAMENTE ESPULSI. Nella "guerra per bande" che caratterizza ormai il nostro pianeta, l'unica cosa che conta è la banda di cui uno fa parte (o alla quale ritiene di appartenere o semplicemente si sente di appartenere). Null'altro ha importanza.  LA POLITICA E' OGGI LA PIU TERRIBILE DELLE GUERRE, CHE CONTINUA CON ALTRI MEZZI, conferendo al fondamentale assunto clausewitziano ("la guerra è la politica che continua con altri mezzi") nuove forme di vita e rinnovate possibilità di applicazione. E' una "Krieg mit Hass", una "guerra con odio". Null'altro conta, solo l'eliminazione totale dell'avversario, cui non è risconosciuta alcuna legittimità, se non quella di defunto o di schiavo sconfitto. Poi, ovvio, ci sono varie forme di distrazione di massa, come la scoperta del nemico "esterno", del "terrorista", del "lunatico". Grande silenzio, per contro (et pour cause...), sul fatto che l'unico nemico vero è rappresentato da quelli che stanno SOPRA rispetto agli underdog che stanno SOTTO, verità vagamente contraddittoria per delle democrazie (o presunte tali...). E se per caso circolano notizie e forme di solidarietà attiva tra gli "ultimi", che in qualche modo cercano di organizzarsi e di darsi voce utilizzando strumenti come Internet, allora sono notoriamente "fake news", mentre i falsi di Stato sono, al più, gestione degli arcana imperii, fatta - ça va sans dire - per il bene del popolo e del genere umano...
       Com'è noto, l'era della democrazia totalitaria è il "migliore dei mondi possibili" ed essa fa ogni giorno notevoli sforzi per dimostrarcelo. Se io per primo non dovessi preoccuparmi, giorno dopo giorno, di difendermi dalle sue aggressioni fiscali, lavorative, predatrici e liberticide, mi piacerebbe ancora scrivere un bel libro su questo tema, prima di chiudere la mia orribile esperienza in questo mondo di maleodorante guano. Un modo per tentare di regolare i conti, prima di scomparire per sempre, con quella "Grande Meretrice". In pura perdita, ma dando a Taide (confido nelle vostre conoscenze dantesche...), quello che le spetta: e si sa che, come meretrice, costa carissima...

                                Piero Visani





       

lunedì 27 novembre 2017

I "marchesi del Grillo"

      Mi è capitato per caso, ieri sera, di guardare un quarto d'ora di "Non è l'arena", la trasmissione di Massimo Giletti su La7. Tra i vari presenti in studio, c'era l'onorevole Gianfranco Rotondi, una delle pregevoli "perle" che la Democrazia cristiana e il berlusconismo ci hanno regalato in politica.
       Interpellato da un fornaio collegato via video sulla diversità di trattamento tra un autonomo (in pensione dopo 42 anni di lavoro piuttosto usurante a 900 euro/mese, per la nota questione per cui il centrodestra è sempre vicino agli autonomi...) e un parlamentare, non ha trovato meglio che rispondergli che tale differenza era frutto dei casi della vita, di mera casualità: lui (Rotondi) si era trovato "casualmente" sopra e l'artigiano altrettanto "casualmente" sotto, ma non aveva che da farsene una ragione, semplice frutto delle circostanze, e ovviamente accettare la sua sorte, meno felice di quella di un parlamentare...
       Moto di stupore in studio, mentre il fornaio, con molta classe, vistasi restituire la parola, paragonava l'on. Rotondi a un guitto, un emerito imitatore (privo però dell'immensa classe dell'archetipo) di Totò. Con un po' meno classe, avrebbe potuto paragonarlo ad Alberto Sordi, nella sua celeberrima interpretazione de "Il Marchese del Grillo" e nella ancora più nota frase: "io so' io e voi non siete un cazzo!".
       Questo è il livello della democrazia italiana: "cari sudditi, se non prenderete nulla (o quasi) di pensione, non è un problema mio; è palesemente un problema vostro. Io al massimo posso ricordarvi la nota favola di Fedro: 'Superior stabat lupus; longeque inferior agnus'".
       Ciò è quanto si guadagna a fare gli agnelli con i lupi: non solo a farsi sbranare dai secondi, il che ci potrebbe anche stare, ma a farsi prendere pubblicamente per le terga, con sovrano disprezzo per la propria evidente inferiorità. Viva la libertà! Viva la democrazia!

                             Piero Visani





domenica 26 novembre 2017

I "volonterosi carnefici"

       Il "Corriere della Sera" di oggi dedica una pagina intera alle follie della burocrazia fiscale italiana, con provvedimenti che escono a raffica e complicano all'infinito la vita di quei quattro fessi che, nel nostro Paese, avrebbero ancora il coraggio di lavorare...
       Il quotidiano milanese deplora e stigmatizza il comportamento dei burocrati, nota come costituiscano una palla al piede per questo Paese, ne impediscano ogni possibile ripresa e lo massacrino per il solo gusto di farlo, come è tipo di ogni soggetto con mentalità burocratica, che vede e costruisce il mondo nelle dimensioni da pigmeo - umano e intellettuale - che gli sono proprie.
       Tutti deplorano - compreso il principale quotidiano italiano - e nessuno naturalmente fa niente, perché la stessa politica, ormai, non è più in grado di controllare la burocrazia, nell'applicazione come nella disapplicazione delle leggi.
       Visto che ormai le "giornate contro la violenza a carico di questa o di quell'altra categoria" sono diventate un "must", mi permetto sommessamente di proporre il varo di una "Giornata nazionale contro le vessazioni della burocrazia italiana". Avrebbe adesioni plenarie e, se non servirebbe a salvare un Paese ormai più che morto, potrebbe almeno rendere qualcuno consapevole del fatto che i burocrati, in Italia, sono talmente folli e persecutori che ci verrebbero a cercare persino nell'Aldilà. I "volonterosi carnefici" hanno infatti ucciso un Paese, ma mica gli basta. Sognano già nuove vittime e vogliono duplici e triplici morti, quelle che li fanno sentire "utili", utili alla vita...                                

                   Piero Visani







    

mercoledì 22 novembre 2017

Sport e guerra


        Nell'agosto 1942, mentre si accentua l'offensiva tedesca in direzione del Caucaso, la vista del Monte Elbrus, con i suoi 5.642 metri di altezza, posto in buona parte nel territorio dell'odierna Georgia, si trasforma in breve in una tentazione irresistibile per gli alpini germanici della 1a e 4a Divisione da Montagna. Nelle loro file, del resto, sono presenti provetti scalatori, i quali ritengono che portare la bandiera del Reich a garrire in cima alla vetta più alta del Caucaso potrebbe costituire un successo propagandistico non indifferente, in un momento in cui le sorti della guerra appaiono ancora favorevoli.
Il comandante della 1a Divisione da Montagna, la celeberrima "Edelweiss", il generale Hubert Lanz, da tempo stava pensando di poter compiere un exploit alpinistico-sportivo, tant'è vero che, già il 9 agosto 1942, aveva ordinato ad un suo subordinato, il capitano Heinz Groth, di costituire una speciale compagnia d'alta montagna, composta dai migliori alpinisti della Divisione e da qualche altro sperimentato elemento della 4a Divisione da Montagna.
       Dopo due tentativi falliti a causa delle pessime condizioni meteorologiche, il 21 agosto 1942, intorno alle ore 11, i 23 membri della compagnia speciale raggiunsero la vetta dell'Elbrus. Spirava un vento fortissimo, per cui fu possibile soltanto piantare una bandiera ma non scattare fotografie.
Per sopperire alla mancanza di foto, l'impresa venne ripetuta due giorni dopo, il 23 agosto, dal tenente Herbert Leupold e da altri otto alpini, i quali tra l'altro si accorsero che Groth ed i suoi non erano arrivati propriamente sulla vetta.
       Anche in questo caso, però, le foto scattate non si dimostrarono soddisfacenti, per cui l'Alto Comando della Wehrmacht decise di affidare a Hans Ertl, alpinista di fama ed eccellente cameraman, il compito di salire nuovamente in vetta e di farlo quando le condizioni del tempo potessero consentire le migliori riprese. Fu quanto Ertl riuscì a fare il successivo 7 settembre, favorito da un sole splendido. Egli girò immagini e scattò fotografie professionali, e arrivò davvero in cima all'Elbrus, come era già riuscito a fare Leupold, ma purtroppo senza riuscire a documentarlo adeguatamente. Le immagini di Ertl furono invece diffuse da tutti i cinegiornali germanici e fecero il giro del mondo, e sono quelle che sono arrivate fino ad oggi.
        Informato dell'exploit delle truppe da montagna, Hitler ebbe un formidabile accesso di collera, se la prese con degli uomini che non avevano compreso il senso della guerra rivoluzionaria che il Reich stava combattendo e arrivò addirittura a proporre il deferimento alla corte marziale "di borghesucci che erano ben decisi a mantenere le loro stupide abitudini da civili anche nel bel mezzo di una tempesta planetaria".
Il successo propagandistico ottenuto dal Reich fu però di entità tale, a livello di opinione pubblica, da indurre i consiglieri del Fuehrer a persuaderlo a desistere da una decisione tanto drastica, che non sarebbe stato compresa dai tedeschi.
       Hitler continuò comunque ad ironizzare sull'impresa ancora per parecchi mesi e ad indicarla come un'assurda distrazione di forze dall'obiettivo principale, che era quello di sfondare oltre il Caucaso.
Sotto il profilo strettamente alpinistico, l'impresa degli Alpenjaeger germanici resta di assoluto rilievo, in quanto essi riuscirono ad arrivare in vetta al monte più alto del Caucaso non disponendo altro che della loro sensibilità di alpinisti, senza alcuna indicazione o mappa di avvicinamento precisa.

                                 Piero Visani




martedì 21 novembre 2017

Gaetano Mosca, "Il Principe di Machiavelli" - Recensione

       Scrivere qualcosa di sensato intorno a un libro come quello di Gaetano Mosca, Il Principe di Machiavelli. Quattro secoli dopo la morte del suo autore, con un saggio introduttivo di Carlo Gambescia (Edizioni Il Foglio, Piombino 2017, pp. 105, 12 euro), non è facile per chi - come il sottoscritto - ha una conoscenza della scienza politica assolutamente modesta e per nulla specialistica. Si tratta infatti di mettersi a confronto con maestri, e da un confronto del genere si esce inevitabilmente - e giustamente! - schiacciati, per manifesta incompetenza.
       Di Mosca, Machiavelli e della scienza politica, Gambescia ci fornisce un'interpretazione da par suo, nella ricca e dotta introduzione all'opera, e francamente non so che cosa il sottoscritto potrebbe aggiungere. Posso al limite sottolineare quello che mi ha colpito, vale a dire l'accentuazione - nell'interpretazione moschiana - del fatto che Machiavelli pone soverchio rilievo all'enfatizzazione dell'opera del singolo (il "Principe") in politica, mentre per lo studioso siciliano non esiste il potere di uno solo, così come non esiste un potere basato esclusivamente sulla forza e sull'inganno (pur se questa affermazione - a guardarmi intorno anche e soprattutto nel mondo contemporaneo - mi lascia maggiormente perplesso). Mi trova invece pienamente concorde la conclusione di Gambescia, per il quale "il punto fondamentale sollevato da Mosca,..., è che ogni forma di regime, anche quello che si dichiari ultrademocratico, il potere continua ad essere esercitato da una minoranza e trasmesso da una minoranza all'altra". Cresciuto negli anni Sessanta del Novecento, alla disperata ricerca - nei miei aneliti giovanili - di credibili alternative politico-morali alle sozzure e ai conformismi che mi vedevo quotidianamente scorrere sotto gli occhi nell'Italia catto-comunista di quegli anni, ho creduto di trovarle in un "altrove" che esisteva solo nella mia immaginazione, che spregiava allora - come spregia oggi - "l'umano, troppo umano". Me lo hanno fatto scoprire non pochi dei miei presunti compagni di strada (ma per fortuna non di merende, semplicemente perché io non ho mai fatto merenda in vita mia...) quanto quell'"umano, troppo umano" fosse clamorosamente diffuso anche là ove io pensavo (speravo...) che non ci fosse. E invece c'era, eccome se c'era. Così ho scelto in piena coscienza di diventare anarchico e alieno, nell'ordine.
       Quanto al saggio vero e proprio di Mosca, credo di poter parlare con cognizione di causa solo dei non molti accenni che egli fa alle concezioni militari di Machiavelli e, in particolare, alla netta preferenza di quest'ultimo per le forze nazionali - espressione di un Paese e di un popolo, in quanto in essi obbligatoriamente reclutate - a scapito di quelle mercenarie, talvolta formate da autentici professionisti di alto livello ma, proprio perché questi ultimi vivono "della guerra e per la guerra", attenti a farne una scelta di vita (piuttosto che di morte...), comunque sottoposta alle loro personali fortune e non certo a quella di coloro per cui combattono o dovrebbero combattere. Preferenza comprensibile, in linea di massima, ma alla quale ci si può accostare correttamente solo tenendo a mente la situazione dell'epoca in cui l'opera machiavelliana fu scritta, un'epoca in cui il modello militare di riferimento era per lui quello di Roma repubblicana, ma difficilmente esso avrebbe potuto essere trasposto in forma credibile nella realtà politica del suo tempo. Ben più lucida, per contro, appariva l'intuizione del nesso indissolubile esistente tra guerra e politica, e della subordinazione del potere militare a quello civile.
       In definitiva un libro ricco di spunti di riflessione, tanto nel saggio introduttivo di Gambescia quanto nella riflessione di Mosca sul Machiavelli, e come tale consigliabile anche al lettore non specialistico.
                 
                                                                                                      Piero Visani




lunedì 20 novembre 2017

Il cerchio si chiude

       Parecchi decenni fa, ancora in periodo di "Guerra Fredda" tra Usa e Urss, la partecipazione alle elezioni era promossa, sulla stampa delle opposte fazioni, come modalità per "combattere il nemico". Si votava per scongiurare il "pericolo rosso" o per rompere le uova nel paniere agli "amerikani". Non a caso, la partecipazione degli italiani alle varie tornate elettorali era sempre molto elevata.
       Dopo il 1989, venuta meno la dimensione della politica, è rimasta quella della cleptocrazia, cui con il tempo ci si è resi conto che partecipano un po' tutti i soggetti politici, per cui - visto che pagare tasse, assistere al costante incremento del debito pubblico e sperimentare la perdita di qualsiasi concreto diritto di cittadinanza era questione quotidiana, per nulla connessa a una forza politica piuttosto che ad un'altra  - la totale inutilità del voto si è resa progressivamente più evidente. I partiti, infatti, sono assolutamente intercambiabili, fanno tutti le medesime nefandezze e dei cittadini e delle loro esigenze non interessa loro alcunché. Così, come ieri ad Ostia, ha votato ormai solo un elettore su tre.
       Si sta dunque verificando un interessante fenomeno, quello delle tornate elettorali come esperimenti familiar-parental-clientelari. In una parola, votano ormai solo coloro che sono legati ai partiti da una qualche forma di interesse, diretto o mediato. Tutti gli altri si astengono, in quanto sanno bene che è perfettamente inutile partecipare a quelli che un tempo furono denominati "ludi cartacei" e  che oggi sono semmai simpatiche competizioni "intra moenia" tra appartenenti a club diversi, apparentemente ostili ma in realtà formidabilmente solidali.
       Il cerchio quindi si è chiuso: gli appuntamenti elettorali non più come manifestazioni di orientamento delle scelte di pubblico interesse (ammesso e per nulla concesso che siano davvero mai stati tali...) ma come competizioni riservate e in fondo oligarchiche tra membri di gruppi d'interesse a volte anche molto ristretti. 
       Il processo "democratico" ha completato il suo corso e si è portato talmente vicino al popolo che ormai il numero di coloro che votano si sta riducendo vieppiù. "Le magnifiche sorti e progressive"...

                          Piero Visani



domenica 19 novembre 2017

L'incendio di Washington D.C., 24 agosto 1814

       Quando gli Stati Uniti, nel 1812, dichiararono guerra alla Gran Bretagna, il governo di Londra, costretto a fare i conti con l'impero napoleonico al culmine della sua potenza, preferì mantenere un'attitudine strettamente difensiva e basarsi solo sulle forze disponibili a livello locale, non volendo distogliere truppe né dalla difesa della madrepatria né dal conflitto che stavano conducendo in Spagna contro i francesi, sotto il comando del duca di Wellington.
       Tuttavia, dopo la sconfitta e l'abdicazione di Napoleone nell'aprile 1814, il governo britannico poté finalmente inviare rinforzi in Nordamerica, onde passare all'offensiva anche contro gli Stati Uniti. Intorno alla metà di luglio di quello stesso anno, dopo una ponderata valutazione degli obiettivi da privilegiare per lanciare un'offensiva, lo Stato Maggiore inglese scelse come massima priorità un attacco alla capitale Washington, considerandolo un'offensiva relativamente agevole per chi - come la Royal Navy - poteva contare sul controllo del mare e organizzare un corpo di spedizione ad hoc, visto che colpire la capitale degli USA avrebbe avuto anche un poderoso effetto a livello di immagine.
       Oltre all'ostilità politica, per di più, c'era una precisa volontà britannica di colpire per rappresaglia le proprietà di cittadini statunitensi, dal momento che, durante i due anni di guerra precedenti, le truppe statunitensi si erano abbandonate a violenze e saccheggi di ogni genere a carico delle proprietà britanniche poste lungo i confini con il Canada.
       Venne così organizzato un corpo di spedizione al comando del maggior generale Robert Ross - composto dal 4° Rgt. Leggero, dal 21° Rgt. Royal North British Fusiliers, e dal 44° e 85° Rgt. di fanteria, oltre a un distaccamento di circa 200 Royal Marines - per un totale di circa 4.500 uomini.
       Dopo lo sbarco nella baia di Chesapeake, questo piccolo esercito ebbe facilmente ragione delle forze statunitensi nella battaglia di Bladensburg, una località del Maryland situata a soli 14 km da Washington. Appresa la notizia della sconfitta, il presidente Madison e tutta la dirigenza politica USA furono costretti ad abbandonare frettolosamente la capitale e, la stessa sera del 24 agosto 1814, il piccolo esercito britannico fece il suo ingresso a Washington senza incontrare alcuna opposizione.
       I soldati britannici vennero subito diretti verso il Campidoglio, all'epoca considerato l'edificio di maggior rilievo della capitale, che venne ampiamente saccheggiato. Poi i genieri a disposizione del generale Ross si preoccuparono di dare fuoco all'edificio, anche se incontrarono non poche difficoltà nel farlo, considerata la solidità della struttura in pietra del Campidoglio stesso. I loro sforzi tuttavia ebbero successo quando riuscirono a dare fuoco a una grande massa di mobilio e ad alimentare l'incendio con polvere da sparo.
       Dopo aver colpito il Campidoglio, i soldati britannici si diressero lungo la Pennsylvania Avenue verso la Casa Bianca e appiccarono il fuoco anche alla dimora presidenziale, badando bene ad alimentare l'incendio di modo che potesse durare a lungo e rivelarsi totalmente distruttivo.
       Altri edifici pubblici furono messi a fuoco, a cominciare dal Dipartimento del Tesoro per proseguire con quello della Guerra. Tuttavia, non erano ancora passate ventiquattr'ore dallo scoppio del primo incendio che un improvviso e violentissimo temporale - con tutta probabilità un uragano - si abbatté su Washington e di fatto spense tutti i focolai. La forza dell'uragano risultò talmente distruttiva da indurre le truppe inglesi a ritirarsi frettolosamente dalla capitale degli Stati Uniti ed esso è passato alla storia - nella memoria collettiva USA - come "la tempesta che salvò Washington", anche se in realtà non salvò granché, dal momento che il corpo di spedizione inglese riuscì a compire nel migliore dei modi l'azione di rappresaglia che si era prefissato fin dall'inizio, quella di danneggiare proprietà americane. Dando fuoco nientemeno che alla Casa Bianca e al Campidoglio, tale obiettivo poté dirsi pienamente raggiunto.

                      Piero Visani