sabato 28 maggio 2016

Una questione di stile: Giorgio Albertazzi


Non ho mai seguito più di tanto Giorgio Albertazzi come attore, semplicemente perché non me ne intendo. Nei lavori in cui lo vidi - teatrali, cinematografici o televisivi - mi parve un professionista eccellente.
Neppure mi piacquero granché le sue prese di posizione, a volte un po' confuse, in campo politico. Quello che mi è sempre piaciuto di lui è che ha sempre fatto della sua scelta in favore della RSI una questione di stile, più che ideologica. Nelle orribili giornate dell'8-9 settembre 1943, di fronte a una fuoriuscita dal conflitto che NON ERA INCONCEPIBILE in sé, viste le condizioni generali dell'Italia, ma che lo era nella ORRIBILE FORMA scelta da Vittorio Emanuele III, tutti gli italiani furono costretti a ricordarsi, in modo anche confuso e tragico, che l'estetica è una forma di etica e che l'etica, a sua volta, è una forma di estetica.
La guerra era palesemente perduta e non intendo rimproverare alla monarchia di averne preso atto (ben più grave, volendo essere chiari e netti, fu che il fascismo non si fosse sbarazzato della palla al piede monarchica e non avesse mai affrontato seriamente la questione dell'altra - e più terribile - palla al piede, quella cristiano-vaticana...), ma la strada scelta per uscirne fu un'AUTENTICA VERGOGNA. Non pochi italiani furono sacrificati freddamente: tra essi, uno zio di mia moglie, ucciso mentre tentava di non consegnare le radio del suo reparto di alpini in Jugoslavia ai tedeschi.
Quella via d'uscita non ha nulla a che vedere con la ormai insopportabile polemica tra fascismo e antifascismo. Era una questione principalmente estetica: bisognava uscirne meglio, molto meglio, evitando l'ennesimo "giro di valzer" savoiardo, lo squagliamento dell'Esercito, l'intollerabile "tutti a casa", la vergognosa resa della Marina a Malta, i tradimenti e le complicità di una guerra mai davvero combattuta in tutto e per tutto dalla parte dell'Asse (come forse avrebbe dovuto, o no?).
A posteriori, abbiamo appreso che la RESA vergognosa è un concetto ben radicato nel Dna nazionale, ma quanto ha contribuito, al formarsi di questo mito collettivo, la vergogna dell'8 settembre?
Su questo sfondo, un giovane italiano quale era all'epoca Giorgio Albertazzi (aveva vent'anni, nel 1943), fece una scelta che avrebbe semplicemente potuto essere estetica, prima che politica, come la fecero centinaia di migliaia di giovani come lui. Non era necessario essere fascisti, era solo necessario provare vergogna per un atto inaudito, che pesa ancora oggi sulla storia nazionale (ammesso e non concesso che ne abbiamo ancora una...). Chiunque, come chi scrive, abbia frequentato un certo numero di ambienti e consessi internazionali di tipo politico e militare, sa bene che, ogni qual volta occorre lamentare qualcosa delle nostre Forze Armate, sulle bocche degli stranieri, e in particolare degli angloamericani, compare l'epiteto di "Italian Army...", accompagnato da un sorrisetto sprezzante.
Come molti altri - penso ad esempio ai prigionieri di guerra "non cooperatori" - Giorgio Albertazzi aveva il senso dell'onore. Lo difese per come credeva giusto lo si dovesse fare. Nel frattempo, le classi dirigenti italiche si coprirono di vergogna, come sono abituate a fare da sempre. Ci sono Stati senza popoli e popoli senza Stato e senza élites. Le nostre classi dirigenti hanno come sport preferito la fuga, sempre e comunque. Quanto al popolo, che se la cavi da solo, se ci riesce. Di fronte a orrori di tale portata, a vent'anni, nel 1943, un giovane italiano come Albertazzi, e tanti altri come lui, ebbero un moto di ribellione, condivisibile o meno che fosse. Oggi nemmeno più un moto del genere è pensabile.

Piero Visani