sabato 18 aprile 2015

Reviviscenze e reminiscenze

       Non è sorprendente il risalto che è stato conferito, quest'anno, alle celebrazioni del 25 aprile, nettamente superiore a quello degli anni precedenti.
       E' vero che questo è il settantesimo anniversario di quella data, ma l'insistenza con cui lo si è festeggiato autorizza legittimamente a pensare come sia tipico, di regimi in difficoltà, fare affidamento a qualsiasi "mito di fondazione" possa contribuire a legittimarli nel momento in cui le loro fondamenta risultano maggiormente scosse.
       Qualunque italiano in buona fede - comunque si collochi politicamente - credo sia pienamente consapevole del fatto che tanta insistenza è frutto del tentativo di mascherare il più possibile l'assoluta fragilità dello Stato repubblicano, che oggi è privo di qualsiasi credibilità, legittimità e consenso, al punto che basterebbe una piccola spinta - proveniente dall'esterno o anche dall'interno - per farlo crollare come un castello di carte, in mezzo alle urla e agli insulti liberatori di coloro che, fino al giorno prima, erano rimasti rigorosamente in silenzio. In Italia, del resto, i regimi crollano così: devono implodere, prima ancora che esplodere e, se ciò dovesse succedere, già ci immaginiamo quanto potrebbero essere folte le fila dei fautori dei nuovi assetti politici, tutti pronti a trasformarsi in "antemarcia" del "nuovo che avanza".
       La vicenda storica italica è stata sempre così e non credo proprio che muterà questa volta. Tutti si scopriranno accesi oppositori della Prima e della Seconda Repubblica, e faranno a gomitate per farsi belli agli occhi dei nuovi padroni, quali che siano.
       Tuttavia, il fatto che l'attuale regime politico si senta palesemente al capolinea non mi rincuora più di tanto. Mi fa solo capire che ha paura, che non si sente stabilmente in sella e che sa che sul futuro si gioca la sua stessa sopravvivenza, e non uso il termine a caso, perché le "cattedrali di dolore" che esso ha scientemente ma irresponsabilmente creato, potrebbero dare il via alle più diverse forme di "collera dei buoni", spesso anche sapientemente eterodirette.
       Condivido l'esigenza di cambiare tutto, per quanto possibile, il più presto possibile, in tutti i modi possibili. Non sono affatto convinto, però, che un eventuale desiderio che tutto cambi non possa trasformarsi, in breve, nell'ennesima deriva a che "tutto cambi affinché nulla possa cambiare". Scettico come sono sul carattere nazionale, non mi sorprenderei se l'ormai ineludibile cambiamento non finisse per trasformarsi, in breve tempo, nella solita iterazione della "commedia degli e(o)rrori" di cui è piena la nostra vicenda storica. Perché - se si guarda con un minimo di attenzione - l'attuale collasso della Repubblica ha di più grave (rispetto alle Custoza, alle Lissa, alle Adua, alle Caporetto e agli 8 settembre che l'hanno preceduta) il fatto che tale crollo verticale è stato ottenuto in tempo di pace, e non di guerra. Un giorno si parlerà di questa piccola differenza e non sarà un discorso lusinghiero per chi se ne è reso protagonista: portarono alla deriva un popolo (peraltro complice) e lo abbandonarono nel guano dopo essersi portati via non la cassa, ma TUTTE le casse possibili immaginabili. Se questo è il vento che fischiò nell'aprile 1945, ormai occorre constatare che ha portato schiavitù, povertà e tempesta. Ovviamente occultabili, per ora, ma non in eterno.

                                   Piero Visani