Nella primavera del 1796, quando Napoleone
Buonaparte – un oscuro generale di origine corsa, noto al più per essere il
fresco sposo di Giuseppina Beauharnais, amante del membro più autorevole del
Direttorio al potere a Parigi, Paul Barras – assunse il comando dell’Armata
d’Italia, nulla lasciava presagire l’inizio di una straordinaria avventura che
ha impresso un marchio indelebile sulla storia della guerra. L’esercito
destinato ad attaccare gli austro-piemontesi nella pianura Padana era la classica armata
rivoluzionaria formata da elementi di mestiere e volontari animati da furore
ideologico, ma nessuna vittoria sarebbe stata colta se, alla testa di quegli
uomini, non ci fosse stato uno dei massimi geni militari di tutti i tempi.
Tutti i fattori necessari ad un
radicale salto di qualità nell’evoluzione del conflitto erano già presenti – e
ne abbiamo parlato nell’articolo dedicato alla Rivoluzione francese – ma ancora
mancava colui che li mescolasse, li amalgamasse e producesse una nuova sintesi.
Napoleone fu l’artefice di questa straordinaria trasformazione, che risultò
molto più grande dal punto di vista strategico e operativo di quanto non lo fu,
per contro, sul piano tattico.
Accanito lettore della migliore
produzione dottrinale del suo tempo, a cominciare dagli scritti del Guibert,
nonché attento esegeta di tutte le principali opere di arte bellica della
storia, il generale Buonaparte aveva sicuramente sviluppato, quanto meno a
livello teorico, un proprio sistema di guerra. La sua grande dote fu quella di
riuscire a metterlo concretamente in pratica. Figlio della Rivoluzione, aveva
una concezione del tempo e della rapidità di movimento decisamente diversa da
quella dei suoi nemici, abituati alle mollezze dell’Ancien Régime. Fin dai suoi esordi come comandante di eserciti,
quindi, egli si preoccupò di colpire duro, in fretta e in profondità, gli
eserciti nemici. Fin dall’inizio ebbe chiaro che la guerra – qualunque guerra –
poteva essere vinta solo se si riusciva ad abbattere, nel più breve tempo
possibile, la volontà di combattimento del nemico e, per ottenere un risultato
del genere, l’unica concreta possibilità disponibile era data
dall’annientamento delle forze avversarie: non l’assedio di una o più
piazzeforti, non l’occupazione di taluni territori, non la conquista della
capitale, ma solo ed esclusivamente la distruzione dell’esercito nemico.
Questo fu l’obiettivo
costantemente perseguito negli anni dell’ascesa e della stabilizzazione del
potere napoleonico, che possono essere collocati tra il 1796 e il 1806 (dunque
fino alla battaglia di Jena) per la fase ascendente, e tra il 1807 e il 1809
per quella di stabilizzazione (dunque fino alla battaglia di Wagram). In tale
periodo, le componenti essenziali dei suoi straordinari successi furono, in
primo luogo, la disponibilità di uno strumento militare eccellente, animato da
un professionismo, uno spirito di corpo e uno slancio rivoluzionario che non
vennero mai meno neppure quando la proclamazione dell’impero (2 dicembre 1804)
riportò la Francia
nel novero delle monarchie europee, sia pure con una struttura assai diversa da
tutte le altre; in secondo luogo, l’organizzazione modulare conferita a tale
strumento, dapprima con la nascita – avvenuta già prima del 1796 – del sistema
divisionale e poi con quella – questa sì tipicamente napoleonica – dei corpi
d’armata, piccoli eserciti assolutamente autonomi, formati da reparti di tutte
le armi, che in genere venivano fatti muovere divisi e poi concentrati per
arrivare a combattere uniti sul campo di battaglia. Fu questa organizzazione
modulare a consentire l’allestimento di una fitta e complessa trama di
operazioni coordinate, costantemente intese a sconfiggere il nemico per mezzo
della sorpresa strategica, da ottenere con il continuo ricorso alla manovra e
anche ad espedienti per dissimulare i reali intenti della Grande Armée. Una rigida pianificazione centralizzata, al cui
vertice c’era solo Buonaparte, sia pure assistito da uno Stato Maggiore molto
efficiente, si concretizzava sul campo in un’esecuzione operativa fortemente decentrata,
affidata ai migliori marescialli dell’Impero.
Nei primi dieci anni di guerre
napoleoniche, il ricorso a queste procedure consentì a Napoleone di acquisire
un notevolissimo vantaggio sui suoi avversari, quasi che si stessero
affrontando – e di fatto era così – uomini appartenenti a universi culturali e
temporali diversi. Era la modernità che irrompeva, con i suoi ritmi pulsanti,
là dove c’erano soltanto conservazione e immobilismo. Per non parlare del fatto
che i soldati francesi si sentivano portatori di un grande rinnovamento
politico e che, con il tempo, svilupparono un professionismo militare di
altissimo livello. Il loro numero, poi, venne mantenuto costantemente elevato
da una macchina di reclutamento perfettamente oliata, in grado di mettere a
disposizione dell’imperatore grandi masse di uomini.
Sul piano tattico, per contro,
le innovazioni del sistema di guerra napoleonico furono decisamente inferiori a
quelle prodotte sul piano strategico, ma la superiorità conseguita dal genio di
Buonaparte a quest’ultimo livello fu, per un lungo periodo, più che sufficiente
a occultare il fatto che, sul campo di battaglia, le differenze con il nemico
fossero inferiori a quelle che si registravano in ambito strategico o di
gestione di operazioni combinate.
Il capolavoro strategico di
Napoleone è probabilmente la manovra di Ulm, condotta contro il generale
austriaco Mack nel 1805: come nei casi più brillanti del genio militare del
Grande Corso, essa si compone di una manovra diversiva per disorientare il
nemico e di una classica “manoeuvre sur les derrières”, tesa ad intercettare le
linee di rifornimento dell’avversario e ad isolarlo dalle proprie basi per
renderlo totalmente vulnerabile. Nel caso di Ulm, si trattò di una grande
vittoria conseguita non con i fucili sul campo di battaglia ma con le gambe dei
soldati in una serie di marce di aggiramento strategico e di accerchiamento.
che consentirono di costringere il nemico alla capitolazione senza che si fosse
mai reso necessario combattere uno scontro frontale. Tuttavia, anche nel caso
in cui – come ad Austerlitz nel 1805,
a Jena nel 1806 od a Friedland nel 1807 – si rese
necessaria una grande battaglia, la vittoria fu sempre dei francesi a causa
della superiorità del sistema molto aggressivo che avevano sviluppato sul piano
tattico, con l’impiego della fanteria a massa, il forte supporto
dell’artiglieria, il ricorso alle cariche di gigantesche unità di cavalleria in
funzione di sfondamento, alla ricerca di un punto di gravità su cui concentrare
lo sforzo offensivo, ottenere la rottura del fronte nemico e dilagare
successivamente nelle sue retrovie.
Il sistema napoleonico non era
privo di imperfezioni, come venne evidenziato a Marengo (14 giugno 1800), dove
gli austriaci si dimostrarono ben guidati ed efficaci nel combattimento; oppure
ad Eylau (7-8 febbraio 1807), dove le difficili condizioni climatiche
costrinsero l’imperatore a rinunciare alla manovra per puntare essenzialmente
sulla massa d’urto al fine di aver ragione dell’avversario. Egli riuscì nella
circostanza a prevalere, ma pagando un prezzo carissimo (circa 15.000 perdite),
una situazione che prefigurava l’avvio di una fase nuova, quella della
stabilizzazione del suo potere, che lo vide vittorioso in Spagna, nel 1808,
contro gli eserciti locali e l’elusivo avversario inglese, che si sottrasse
sempre a uno scontro decisivo, puntando su una strategia di logoramento, e
anche in Austria nel 1809, con la vittoria di Wagram, ottenuta però nuovamente
a un costo umano altissimo (circa 35.000 perdite).
Con il passare del tempo e le
continue guerre, del resto, la Grande Armée stava progressivamente esaurendo il
proprio slancio, anche in considerazione del fatto che i grandi scontri di cui
era stata protagonista avevano inciso pesantemente sul numero dei suoi
effettivi e soprattutto sulla qualità dei medesimi e dei quadri. C’erano sempre
nuove reclute, infatti, poiché il sistema di reclutamento francese funzionava a
pieno ritmo, ma erano sempre più giovani e inesperte. I molti nemici di
Napoleone, inoltre, avevano attentamente studiato il suo sistema di
combattimento e stavano prendendo le opportune contromisure, per non parlare
del fatto che la costante dilatazione territoriale dell’impero francese creava
nuove ostilità contro di esso e sottoponeva gli eserciti dell’imperatore a un
logoramento senza fine. Con una logica fin troppo nota alle vicende dell’umano
divenire, i liberatori, i portatori dello spirito della Rivoluzione, erano
diventati forze d’occupazione e, al tempo stesso, la costruzione imperiale
aveva portato ad un risveglio delle identità nazionali, per cui i singoli
popoli sopportavano con sempre maggiore difficoltà quello che percepivano come
un giogo straniero.
Abbigliati nelle loro rutilanti
divise, esponenti di una tradizione militare che stava toccando vertici
difficilmente eguagliabili, gli uomini della Grande Arméé avevano scritto con il sangue pagine di storia
imperiture e parevano invincibili, ma le componenti fondamentali del sistema di
guerra napoleonico stavano entrando in crisi, perché avevano raggiunto il loro
apogeo. La stessa arte di comando dell’imperatore, del resto, stava perdendo
flessibilità, in parallelo con il passare degli anni: sempre minore elasticità
di manovra e sempre maggiore ricorso ad un impiego a massa che consumava
risorse umane e materiali in termini e con un ritmo che l’impero francese non
era in grado di reggere. Presto sarebbe iniziato l’inevitabile declino.