Si è già avuto modo di notare, in un
precedente articolo, come gli Svizzeri, con le loro armi e le loro tattiche,
abbiano riportato la fanteria al centro delle operazioni militari. Ciò è
avvenuto in parte per ragioni tecniche (si ricorderà la loro maestria nell’uso
dell’alabarda), in parte per ragioni tattiche, ma soprattutto per il fatto che
la loro natura di cittadini soldati consentiva agli svizzeri di schierare
eserciti piuttosto numerosi, rispetto alla media del periodo.
L’eredità degli Svizzeri venne
raccolta dagli Spagnoli alla fine del XV secolo, quando la Spagna uscì vittoriosa
dalle lunghe guerre contro i Mori. Le lezioni che potevano essere tratte dai
conflitti precedenti vennero attentamente meditate e raccolte da Gonzalo de
Cordoba, “el Gran Capitan”, una delle figure centrali della storia della guerra
nel passaggio dal Medioevo all’età moderna. Egli riorganizzò la fanteria
adottando, per metà dei suoi reparti, la picca degli Svizzeri, mentre i due
sesti dei medesimi conservavano un armamento di tipo tradizionale (spada,
etc.). Il sesto residuo, infine, venne armato di archibugio.
Nel 1534 nasce il “tercio”, vale
a dire la soluzione organizzativa che, a livello tattico, ha consentito agli
eserciti spagnoli di conseguire una lunga serie di vittorie durante il periodo
di predominio del loro Paese su una parte significativa del continente europeo.
La formazione del “tercio” trae diretta ispirazione dalla flessibile
organizzazione della legione romana e il suo nome pare derivare sia dagli effettivi
iniziali (3.000 uomini, successivamente saliti fino a 6.000) sia dal fatto che
esso riunisce al proprio interno tre diverse specialità (picchieri, uomini
armati di spada e scudo, archibugieri).
Sotto il profilo organizzativo,
uno degli elementi che maggiormente caratterizzarono gli eserciti spagnoli all’inizio
del Cinquecento fu il metodo di arruolamento, basato su un sistema non troppo
dissimile dalla moderna coscrizione obbligatoria. L’ordinanza di Valladolid
(1494) decretava a tale proposito che un uomo su dodici, in età compresa tra i
20 e i 45 anni, era tenuto a prestare servizio militare a pagamento, in patria
o all’estero. Ai coscritti, tuttavia, si aggiungeva una cospicua componente di
volontari, destinata in breve a diventare la struttura portante – quella
professionale – dei reparti che, circa un quarantennio più tardi, assumeranno
la denominazione di “tercios”, un nome destinato a entrare con fama imperitura
nella storia militare.
Molto importante, per
l’organizzazione militare spagnola, fu il fatto che in Spagna non esistesse la
tradizione cavalleresca, così come si era consolidata in molti altri Paesi
europei; di conseguenza, non era socialmente inaccettabile, anzi era piuttosto
normale che un nobile (non necessariamente un nobile decaduto) prestasse
servizio come ufficiale nella fanteria, insieme a elementi provenienti dal ceto
medio. Ciò portò ad una rivalutazione anche sociale della fanteria,
riportandola gradualmente alla sua tradizionale funzione di “regina delle
battaglie”.
Sotto il profilo dell’organica,
il “tercio” fu il naturale antenato della moderna organizzazione reggimentale.
Ogni “tercio” comprendeva 12 compagine di 250 uomini ciascuna, al comando di un
capitano. Al vertice del “tercio” stava invece un “maestre de campo”, grado
vagamente assimilabile a quello moderno di colonnello. Molto curata era
l’identità di ogni singolo reparto, spesso costituito su basi geografiche, anche
se l’uniforme rimaneva ancora a scelta dei comandanti. Tra il 1580 e il 1590,
un “tercio”, i cui membri erano tutti rigorosamente vestiti di nero, si
guadagnò l’appellativo di “tercio dei becchini”, mentre un altro, i cui
componenti erano abbigliati con colori sgargianti e ostentavano cappelli ornati
di piume, venne soprannominato il “tercio dei damerini”.
Il “tercio” è alla base delle
grandi vittorie riportate dagli eserciti spagnoli dell’epoca di Carlo V e dei
suoi successori, come pure della straordinaria capacità di questi reparti di
combattere con feroce accanimento anche conflitti terribili, come quello contro
le Province Unite olandesi, a cavallo tra la fine del XVI e l’inizio del XVII
secolo. Una guerra assolutamente non convenzionale, fatta di attacchi
improvvisi da parte degli olandesi e di altrettanto rapide ritirate, in cui
molte fanterie di tipo tradizionale sarebbero uscite esauste, e sconfitte, in
tempi molto brevi, mentre gli uomini dei “tercios” riuscirono a resistere per
moltissimo tempo, ricambiando colpo su colpo.
Combattenti per mestiere ma
anche per vocazione, i membri dei “tercios” – così ben rappresentati da Diego
Alatriste e dai suoi uomini nei romanzi di Arturo Pérez-Reverte – erano soldati
valorosi, ma anche difficili da gestire. La loro innegabile vocazione guerriera
li rendeva poco disponibili alle sottigliezze della politica, indisciplinati,
nonché bramosi di bottino. L’impero spagnolo, in effetti, avrebbe dovuto
garantire loro la continuità della paga, ma, nonostante i quantitativi enormi
di oro e argento che provenivano dalle Americhe, non vi era mai denaro a
sufficienza per pagare i combattenti, per cui essi cercavano di “rimediare”
dedicandosi al saccheggio.
Sul piano tattico, il “tercio”
era una formazione flessibile, ma molto ordinata e organizzata, capace di
compiere manovre assai complesse. In un primo tempo, l’azione d’urto della
picca venne combinata con la potenza di fuoco degli archibugi, poi, mano mano
che i progressi tecnici resero l’archibugio sempre più affidabile sul campo di
battaglia, l’impiego di questi ultimi si diffuse e naturalmente aumentò, all’interno
del “tercio”, il numero di soldati che ne erano dotati. Se il tiro si faceva
più rapido e la potenza del fuoco cresceva, era infatti normale che l’utilizzo
dell’archibugio si diffondesse. Al tempo stesso, il progresso tecnico aveva
consentito, intorno al 1550, l’introduzione in servizio nell’esercito spagnolo
del moschetto, che aveva la canna più lunga e il calcio più dritto
dell’archibugio. Si trattava di un’arma più pesante di quella che l’aveva
preceduto e, di conseguenza, era in grado di sparare proiettili più pesanti, i
quali, quanto meno in linea teorica, avevano la capacità di trapassare
l’armatura di un soldato nemico fino a una distanza di 180 metri . I moschetti,
tuttavia, erano molto costosi, per cui gli spagnoli continuarono ad usare gli archibugi
fino al 1600; ciò era pure dovuto al fatto che sia gli archibugi sia i
moschetti risultavano comunque assai imprecisi nel tiro a distanze superiori ai
50 metri ,
il che li rendeva utili solo in un combattimento ravvicinato, che in genere si
cercava di evitare, poiché – e in questo la tradizione medioevale continuava a
far sentire il suo peso – le grandi battaglie erano considerate troppo onerose
sia sotto il profilo umano sia sotto quello materiale.
Sul campo di battaglia, la
soluzione tattica più diffusa era il ricorso alle formazioni “a istrice”,
massicci quadrati o rettangoli di uomini in cui ciascun combattente aveva un
posto e un compito ben definiti, nell’ambito di formazioni rigidamente
regolamentate ma flessibili, in grado cioè di cambiare rapidamente assetto, di
scindersi – se necessario – in unità minori e, all’inverso, di ricomporsi con
altrettanta naturalezza.
Una trasformazione di tale
portata non fu naturalmente frutto del caso, ma di una riorganizzazione che
conferì nuovamente un ruolo di rilievo alla funzione di comando. Come si è
visto, quest’ultima, nel passaggio dal mondo antico a quello medievale, aveva
perso progressivamente rilievo, tanto che gran parte dei conflitti del periodo
medievale era stata combattuta sulla base di un’impostazione rituale della
guerra, in cui le novità – se novità c’erano – erano prevalentemente di
carattere tecnico e, come tali, potevano avere anche positivi effetti tattici,
mentre la funzione di comando appariva del tutto eclissata. Per contro, tra la
fine del Cinquecento e l’inizio del Seicento fa nuovamente la propria comparsa
la figura del “grande capitano”, che non è un semplice “condottiero”, ma è
persona che ha studiato strategia e tattica, conosce i grandi maestri del
pensiero militare, ed è in grado di non limitare il proprio ruolo al comando
degli eserciti sul campo, ma di delineare strategie e di renderle operative,
sviluppando le proprie mosse, contrastando quelle del nemico e adattandosi alle
nuove situazioni. Una delle prime grandi figure di questo tipo fu Maurizio di
Nassau, “stadhouder e capitano
generale degli eserciti delle Province Unite”, il quale, dal 1589 al 1605,
dimostrò di essere, nello stesso tempo, un ottimo stratega e un valido tattico,
capofila di una serie di maestri dell’arte della guerra che si imporranno
all’attenzione del mondo nel corso del XVII secolo.
Nei primi decenni del Seicento,
dunque, la storia della guerra appare avviata ad entrare decisamente nella
modernità: per gradi, ma irrefrenabilmente, l’arte del comando si perfeziona;
le tecniche operative si consolidano in base a schemi collaudati, dove
fanteria, cavalleria e artiglieria occupano posti ben precisi; gli eserciti
diventano permanenti, a costante disposizione dei sovrani e degli Stati
nazionali, nonostante i notevolissimi oneri imposti dal loro mantenimento;
l’organica, infine, si perfeziona e la genesi di uniformi e reggimenti appare
sempre più prossima.