I luoghi della Storia parlano: forse non a tutti, forse solo a chi la
Storia un po’ la conosce e la ama, ma parlano. Chiaro e forte. E ancora più
forte parlano i luoghi della storia militare, dove alla memoria degli eventi si
mescola il ricordo del sangue, del sacrificio, degli atti di valore. Ho
cominciato a sentirne la voce un quarto di secolo fa, visitando il campo di
battaglia di Waterloo. La giornata era di un caldo infernale, come quella
fatale domenica del 18 giugno 1815 e, di giorno, le frotte in calzoncini corti
del turismo di massa erano in grado di sottrarre poesia e drammaticità a
qualsiasi cosa. Sciamare caotico di stracciate locuste. Con il passare delle
ore, tuttavia, il sole africano imponeva i suoi pedaggi ai visitatori
superficiali, rarefacendone la fastidiosa presenza man mano che la giornata si
avviava verso il suo epilogo. Proprio in quelle ore, ho avuto la ventura di
approdare alla chiesetta di Plancenoit, un paesino sito all’epoca all’estrema
destra dello schieramento dell’armata francese e oggi meta delle visite solo
degli appassionati. Là, in un silenzio irreale dopo una giornata di noioso
vociare, ho potuto girare per le strade deserte di un luogo rimasto come fermo
nel tempo. È bastato un attimo per risultare immerso nell’atmosfera di uno
scontro feroce durato ore, con i Tirailleurs
ed i Voltigeurs della Giovane Guardia
(non della Vecchia, ai cui Cacciatori e Granatieri toccarono quel giorno altri
compiti, ancora più decisivi) impegnati a contenere, in una condizione di
disperante inferiorità numerica, l’armata prussiana del maresciallo Blücher.
Una mischia paurosa, la chiesa perduta e riconquistata decine di volte, al
grido – sempre più flebile ma al tempo stesso sempre più orgoglioso – di Vive l’Empereur!
Da quel giorno, da quelle
emozioni, la visita dei campi di battaglia è una mia personale forma di turismo
(in verità ampiamente condivisa, specie nel mondo anglosassone, dove esistono
addirittura agenzie specializzate, con un significativo giro di affari) che si
è dipanata a varie latitudini e che ha trovato il suo momento (per ora) più
alto a Gettysburg, con una lunga camminata che ha ripercorso, passo dopo passo,
l’intero itinerario della cosiddetta “Pickett’s Charge”, l’”alta marea” del Sud
confederato. E lì mi sono venute in mente – come non avrebbero potuto? – le
parole che Raimondo Luraghi, nel suo capolavoro sulla Guerra civile americana,
attribuisce ad uno dei tre comandanti di brigata della divisione Pickett, il
generale Lewis Armistead, rivolto all’alfiere del 53° Virginia: «Sergente,
pianterete oggi quella bandiera sulle trincee nemiche?» «Io tenterò, signore» -
replicò l’alfiere - «e se mai uomo mortale può farlo, sarà fatto!»
Come la Storia ci insegna, non
fu fatto, ma una visita a Gettysburg è uno straordinario esempio di come si
possano perdere le guerre ed entrare vittoriosi nel mito: tripudio di bandiere
confederate e una folla silente, commossa, partecipe, che si reca davanti ai
monumenti ai reggimenti e agli Stati del Sud per depositare la propria
bandierina in omaggio ad una causa ed ai suoi caduti, facendosi fotografare
composta mentre compie questo gesto di tributo e rispetto, e ricordando al
visitatore straniero che nessuna sconfitta è veramente tale se si salvano
l’onore, la dignità, la memoria.
Se si è cultori della Guerra
civile americana – come chi scrive – la Virginia è una sorta di museo a cielo
aperto, dove le non indifferenti bellezze naturali si mescolano ad un contesto
in cui quasi ogni luogo trasuda memorie del conflitto tra Nord e Sud. E c’è il
rischio di perdersi tante sono le cose da vedere, oppure occorrerebbe disporre
di mesi e non solo di pochi giorni per ammirare anche il lavoro di
valorizzazione storica che è stato compiuto dalle autorità locali e da una
nutrita serie di associazioni di appassionati che, profondendo energie e denaro
individuali, affiancano e spesso surrogano i pubblici poteri nella salvaguardia
di luoghi e memorie, impegnandosi altresì in complessi interventi di restauro.
A volte, poiché la mentalità
americana è assai diversa da quella europea, il sacro e il profano si mescolano
in forme assai singolari. A Lake George, nella parte alta dello Stato di New
York, Fort William Henry – quello del celebre (ma in realtà storicamente assai
controverso) “massacro” evocato ne L’ultimo
dei Mohicani di James Fenimore Cooper – è stato ricostruito in forma non
propriamente filologica sul sito di quello autentico e può capitare di vedere
da una parte lavorare gli storici impegnati nel recupero di qualche reperto
emerso da uno scavo e, a meno di venti metri da essi, un gruppo di figuranti in
uniforme che, per la gioia dei turisti, ricostruisce (molto alla buona) uno
scontro tra inglesi, francesi e pellerossa ai tempi della Guerra dei Sette Anni
in Nordamerica. Per un europeo, è una visione ai limiti dell’iconoclastia, ma
occorre riconoscere che, grazie a soluzioni pur discutibili, questi luoghi
vivono, destano emozioni, evocano memorie, non suscitano l’agghiacciante
freddezza che coglie se si visita un campo di battaglia italiano pur di grande
importanza storica come quello di Marengo. Per non parlare della presenza di
centri per accogliere i visitatori, talvolta organizzati a livello museale e
talatra più semplici, ma sempre capaci di fondere storia e comunicazione
contemporanea, riflessione e utilizzo spregiudicato delle risorse mediatiche,
commercializzazione di oggettistica di puro consumo e vendita di editoria
tematica altamente specializzata.
Impressioni analoghe si ricavano
visitando Fort Ticonderoga, restaurato con grande impegno, lungo la direttrice
che da New York conduce a Montréal passando per Albany, o la magnifica fortezza
di Louisbourg, in Nuova Scozia, frutto di un grandioso progetto di restauro
avviato dalle autorità canadesi nel 1961. Dovunque i luoghi della Storia vengono
fatti parlare e, se al visitatore lasciano appena una superficiale patina di
conoscenza, destinata ben presto ad essere cancellata, diverso è l’effetto che
esercitano sull’appassionato, che forse non apprezzerà certe ricostruzioni di
taglio cinetelevisivo o l’eccessivo ricorso a figuranti per dare “il senso del
passato”, ma non potrà fare a meno di riconoscere l’impegno profuso nel cercare
di “fare vivere la Storia”, capace addirittura di organizzare escursioni per
ripercorrere il raid dei ranger del maggiore Rogers da Crown Point a
Saint-François (1759), noto anche da noi per il film Passaggio a Nord Ovest, con Spencer Tracy.
È una forma di turismo che, in
tutte le sue varie sfumature, non può che essere consigliata agli appassionati,
perché è frutto di incredibili emozioni e ciascuno può vantare la propria,
senza essere obbligato a condividerla con altri, ma seguendo solo il proprio
personalissimo interesse: ero solo quando ho portato un fiore sul cippo che
ricorda il punto in cui, a Yellow Tavern, non distante da Richmond, venne
colpito a morte il carismatico leader della cavalleria confederata “Jeb” Stuart.
Ma non mi sentivo tale: un po’ presuntuosamente, mi sentivo in compagnia della
Storia.
Piero Visani
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