Dopo il lungo periodo di predominio spagnolo
in Europa, la riforma luterana diede l’avvio ad una fase di guerre religiose (o
comunque nell’ambito delle quali la componente religiosa era assai rilevante),
di cui la più importante fu senza dubbio la Guerra dei Trent’Anni (1618-1648), che nacque
come uno scontro tra confessioni diverse ma presto si trasformò in un ennesimo
episodio della lotta tra le grandi potenze europee per il predominio a livello
continentale.
Sotto il profilo militare,
questo conflitto segna l’affermarsi di re Gustavo Adolfo di Svezia e del suo
esercito. Quando fa la sua comparsa in Germania, nel 1630, la Svezia è una potenza
emergente, che si è liberata dal dominio danese e ha da poco acquisito una
posizione di egemonia nell’area baltica. Quello al comando di Gustavo Adolfo è
un esercito nazionale: come gli svizzeri, i contadini svedesi non sono mai
stati privati del diritto di portare le armi; per di più, le lotte condotte per
liberarsi dal dominio danese e per professare la religione luterana hanno
esaltato e cementato il loro sentimento religioso, monarchico e nazionale.
Sotto l’impulso del sovrano, che
ha studiato l’arte della guerra e vuol trasformare il suo Paese in una potenza
in grado di far sentire la propria voce nel consesso europeo, la Svezia devolve alle forze
militari ben il 70% del bilancio statale e l’esercito è organizzato sulla base
di un sistema di coscrizione obbligatoria che coinvolge tutti i cittadini
maschi dai 15 ai 60 anni, di cui 1 su 10 è tenuto a prestare servizio. Il
reclutamento ha luogo su base regionale e, poiché la popolazione svedese è
notoriamente sparsa su un territorio molto ampio, assai forti risultano i
vincoli tra le comunità locali e piuttosto solidi, di conseguenza, i reparti
militari, i cui componenti si conoscono bene e sanno che, una volta tornati a
casa, saranno giudicati dai loro compaesani sulla base del comportamento tenuto
in servizio.
L’esercito svedese del periodo
della Guerra dei Trent’Anni è quanto di più simile possa esistere a un esercito
moderno: il corpo ufficiali è riservato prevalentemente alla nobiltà, ma non è
disconosciuto il merito di chi proviene dalla bassa forza; la disciplina è
severa, la paga è regolare e dunque non è ammessa alcuna forma di saccheggio.
Anche il vestiario dei soldati tende ad avvicinarsi vieppiù a un’uniforme, pur
non essendo ancora definibile come tale.
Gustavo Adolfo, tuttavia, non è
soltanto un organizzatore, ma anche e soprattutto un innovatore in campo
tattico e un grande capitano. Non gli è sfuggito, ad esempio, che, se i
moschetti stanno diventando sempre più leggeri, maneggevoli, di calibro unico e
utilizzabili grazie ad una cartuccia di carta - che si rende pronta all’uso
strappandone l’involucro con la bocca e che accelera al massimo i movimenti e i
tempi necessari per la ricarica, aumentando in proporzione la celerità del
fuoco –, si rende necessario apportare notevoli mutamenti alla tattica della
fanteria. Le grandi masse di picchieri, ad esempio, non sono più possibili,
perché il fuoco preciso dei moschetti rischia di falcidiarle in breve tempo,
specialmente se i moschettieri non vengono schierati a massa, ma in lunghe
linee che consentano l’uso, per di più rigidamente cadenzato, di tutta la
potenza di fuoco disponibile. Per ottenere questo risultato, il sovrano svedese
decide di schierare i suoi reparti in linea, in genere su sei righe, di cui la
prima spara e le altre le subentrano a turno da dietro sulla base di un
processo di caricamento e sparo del moschetto che consente di mantenere una
cadenza di tiro molto continua, che può essere ulteriormente accelerata se le
righe vengono ridotte da 6 a
3.
E non è tutto, perché questi
miglioramenti non potevano riguardare soltanto la tattica, ma dovevano
necessariamente interessare anche l’organica: l’intera struttura della fanteria
svedese viene alleggerita, per cui 4 compagnie formano un battaglione, 2
battaglioni un reggimento, da 2
a 4 reggimenti una brigata. Quest’ultima ha la
consistenza numerica del “tercio” spagnolo, ma è molto più flessibile sul piano
tattico: può infatti schierarsi in linea, in quadrato, a cuneo, e sviluppa una
ragguardevole potenza di fuoco, sostenuta dai primi esempi di artiglieria
campale, leggera, molto mobile, distaccata presso i battaglioni di fanteria e
impiegata per il supporto dei medesimi, anche in questo caso sulla base di una
concezione estremamente moderna dell’atto tattico. Le vittoriose battaglie di
Breitenfeld (1631) e di Lützen (1632, dove peraltro Gustavo Adolfo trova la
morte) dimostrano che il sistema, sul campo, funziona molto bene.
In definitiva, Gustavo Adolfo si
dimostrò in grado di realizzare un modello di esercito molto avanzato rispetto
al suo tempo, ma soprattutto seppe comprendere che i perfezionamenti intervenuti
nel campo delle armi da fuoco avevano determinato una svolta epocale a livello
tattico, vale a dire il prevalere dell’azione distruttiva – frutto della
potenza del fuoco - su quella risolutiva, riservata all’urto delle fanterie,
che fino a quel momento, essenzialmente per ragioni tecniche, aveva
egemonizzato lo scontro sul campo di battaglia. Ancora, egli fu il primo
comandante ad adottare sul terreno quello schieramento lineare delle fanterie
che durerà per oltre due secoli, cioè fino a ben dopo la metà dell’Ottocento.
Non so può tuttavia parlare
della Guerra dei Trent’Anni limitandosi ai suoi aspetti di tecnica militare,
poiché quel conflitto fu, quanto meno in relazione ai livelli di violenza che
toccò, la prima guerra moderna. Essa provocò 4 milioni di morti in Europa (soprattutto
in Germania e Boemia) e molti storici sono inclini a ritenere che si tratti di
una cifra largamente sottostimata, che probabilmente andrebbe raddoppiata. Come
nelle guerre moderne, inoltre, le perdite militari furono largamente inferiori
alle vittime civili e al crescendo di devastazioni, saccheggi, uccisioni,
carestie ed epidemie innescato da un conflitto che fu permeato dalla terribile
violenza tipica di una guerra di religione (descritta con grande efficacia nel
romanzo picaresco “L’avventuroso Simplicissimus” di Hans von Grimmelshausen).
Fino a quel momento, del resto, la guerra era sempre stata un fenomeno che, in
un modo o nell’altro, era riuscito a convivere con la pace, ciascuna
all’interno del proprio ambito di riferimento. Per contro, con la Guerra dei Trent’Anni essa
tese a diventare un fatto esclusivo e onnicomprensivo, che pervadeva
completamente la vita degli Stati e delle popolazioni che vi erano coinvolte.
Non sorprende dunque che, mentre essa era solo agli inizi e il suo carico di
devastazioni non ancora pienamente evidente, molti contemporanei abbiano
cominciato a interrogarsi sulla necessità di dare al conflitto delle regole, un
quadro giuridico e normativo riconosciuto che mettesse per quanto possibile le
popolazioni civili al riparo da qualsiasi forma di violenza. A questo
proposito, nel 1625, il giurista olandese Hugh van Groot (1583-1645), meglio
noto come Ugo Grozio, pubblico l’opera “De iure belli ac pacis”, nella quale,
basandosi sulle esperienze vissute in prima persona nell’Europa devastata dalla
Guerra dei Trent’Anni, formulò la teoria che gli Stati fossero collegati tra
loro non già dalla subordinazione a un’autorità superiore, ma dalla più banale
e concreta esigenza della convivenza sociale, quindi da una legge delle nazioni
derivata dalla legge naturale e non meno vincolante di quest’ultima. Questa
legge era l’unica che poteva determinare se i fattori scatenanti di una guerra
fossero sufficienti o meno a dichiararla e, nell’ambito di uno scontro armato,
quali fossero i comportamenti permessi e quali no.
Grozio riprese anche la
questione della guerra giusta, problema che era sul tappeto fin
dall’affermazione del cristianesimo in Europa, per arrivare a considerare come
tale quella che seguiva un certo rituale; spogliò il concetto di guerra della
sua valenza morale per arrivare a definire giusta qualsiasi guerra, purché
combattuta seguendo le norme del diritto bellico. Palese, dunque, fu il suo
sforzo di creare un contesto giuridico per l’attività bellica, di modo che
quest’ultima, sottoposta a regole chiare, potesse vedere limitato il suo carico
di violenza
La pace di Westfalia (1648), che
pose termine a una lotta trentennale, trasse certamente ispirazione dal
fermento culturale di cui Grozio era stata la maggiore espressione e gettò le
basi di un diritto internazionale che cercasse di eliminare, per quanto
possibile, le passioni ideologiche e religiose dai conflitti tra gli Stati,
stabilendo il primato della politica sulla religione, il principio
dell’eguaglianza politica degli Stati, quello del non intervento negli affari
interni di un altro Stato, e avviando la regolamentazione dei conflitti e delle
relazioni diplomatiche interstatali. Si trattò di un notevolissimo passo
avanti, che ebbe una decisiva importanza nel fare sì che, per almeno alcuni
secoli, le guerre venissero combattute sulla base di una serie di regole di
comportamento che, per quanto non formalizzate e non sempre pienamente
rispettate, cercarono di riportare i conflitti all’interno di un contesto di
violenza rituale.