Nella storia della guerra moderna, la Rivoluzione Americana
(1776-1783) occupa un posto di rilievo perché segna il classico punto di
passaggio tra i conflitti di tipo settecentesco e la ricomparsa di quelli a
carattere ideologico. Nella crescente insofferenza dei coloni americani contro
il dominio britannico e le sue pressanti esigenze fiscali, erano già presenti,
del resto, tutti gli elementi di una fase politica nuova, nella quale la
rivendicazione dei diritti di cittadinanza poteva arrivare fino alla scelta di
impugnare le armi per farli rispettare.
Lo “sparo che risuonò nel mondo
intero” venne esploso a Lexington, cittadina a poche miglia da Boston, nelle
prime ore del mattino del 19 aprile 1775, quando una colonna di truppe inglesi
mandate in ricognizione per controllare e disturbare l’attività delle milizie
locali, venne affrontata dai “minute men” (uomini mobilitabili con un preavviso
brevissimo) che costituivano la punta di lancia delle medesime. Lo scontro che
ne seguì fu paradigmatico di tutto quanto avvenne nei successivi anni di
guerra: in una prima fase, i miliziani tentarono di affrontare i soldati
britannici in un’azione regolare, combattuta in ordine chiuso, ed ebbero ovviamente
la peggio. Tuttavia, non appena decisero di cambiare tattica e di tempestare la
colonna britannica con il fuoco esploso a distanza ravvicinata da gruppi di
tiratori in ordine sparso che cercavano di sfruttare ogni riparo offerto dal
terreno, presero rapidamente il sopravvento e costrinsero le truppe inglesi a
una precipitosa ritirata in direzione di Boston, infliggendo loro gravi
perdite. Se si visita il “Battle Road Trail”, compreso in parte all’interno del
“Minute Man National Historical Park” di Concord, è possibile ripercorrere
ancora oggi la strada imboccata dai soldati inglesi in ritirata e non è
difficile comprendere come, bersagliati da tre lati, si siano trovati in grave
difficoltà.
Anche il cinema ci può aiutare:
nel film “Revolution” di Hugh Hudson, Donald Sutherland impersona un sergente
maggiore inglese che guida con successo un classico attacco in ordine chiuso del
suo reggimento contro la fanteria americana, e la travolge, mentre “Il
patriota” di Roland Emmerich ci mostra uno spiritato Mel Gibson condurre azioni
di guerriglia contro gli occupanti britannici, poi tutte le asprezze della
guerra civile tra rivoluzionari e “lealisti” come Banastre Tarleton, e infine
la crescente capacità dell’esercito regolare statunitense di affrontare con
successo le “giacche rosse” anche in campo aperto.
È in America, dunque, che nasce
la moderna figura del “cittadino-soldato”, dell’uomo che impugna le armi per
difendere un ideale, una causa, una visione del mondo e uno stile di vita.
Abituato ad un’esistenza a contatto con la natura, passata a coltivare la
terra, spesso ricco di un’esperienza militare fatta combattendo i francesi e/o
i pellerossa, il miliziano statunitense è un uomo che ha dimestichezza sia con
le armi da fuoco sia con le armi bianche. Ottimo tiratore, perché la caccia
costituisce una delle sue principali forme di sostentamento, conosce bene anche
il terreno su cui opera e ha appreso dagli indigeni forme di mimetizzazione e
di combattimento in ordine sparso che diventano, ancora una volta, componenti
essenziali – quali moltiplicatori di forza - di una guerra asimmetrica
combattuta dal più debole contro il più forte.
Queste punture di spillo, in
apparenza pressoché ininfluenti, si dimostrarono alla lunga molto debilitanti
per un esercito come quello britannico, numericamente scarso e costretto ad operare
a migliaia di chilometri dalla madrepatria, con linee di rifornimento
lunghissime. La debolezza numerica, infatti, impediva ai generali di Sua Maestà
di esercitare un adeguato controllo del territorio e tale mancato controllo
consentì a George Washington di disporre del tempo necessario a trasformare un
eterogeneo aggregato di milizie in un esercito regolare, istruito alle tattiche
convenzionali dai preziosi consigli di un esperto straniero come il generale
prussiano von Steuben.
Proprio questa flessibilità nel
passare con disinvoltura dalla guerra di guerriglia al conflitto convenzionale,
e viceversa, costituì una delle cause della vittoria finale statunitense: la
capacità di combattere una guerra regolare, infatti, e di ottenere vittorie
importanti come quella di Saratoga (ottobre 1777), quando un intero esercito
inglese venne costretto alla resa, consentì ai rivoltosi di legittimare la
nascita di un nuovo Stato e di ottenerne non solo il riconoscimento sul piano
internazionale ma di stipulare anche alleanze, a cominciare da quella con la Francia , desiderosa di
prendersi una rivincita dopo le sconfitte subite nella Guerra dei Sette Anni e
pronta a scendere in campo contro la Gran
Bretagna (giugno 1778). Al tempo stesso, nelle non poche
occasioni in cui le truppe regolari statunitensi vennero sconfitte sul campo
dagli inglesi, trovarono sempre una via di fuga nel passaggio dalla guerra
convenzionale a quella irregolare: gli stessi uomini che erano stati battuti
dai britannici, infatti, potevano spogliarsi delle divise e trasformarsi in
cittadini apparentemente neutrali, ma pronti a colpire con azioni improvvise le
lunghe e fragili linee di rifornimento delle forze di Sua Maestà.
In questo modo, la Gran Bretagna si trovò a
combattere più conflitti contemporaneamente, e in tutti risultò soccombente:
sul piano delle operazioni non convenzionali, non aveva forze a sufficienza per
garantirsi il controllo del territorio, anche se, grazie all’appoggio dei
“lealisti”, cioè dei coloni americani fedeli alla corona britannica, poté con
il tempo sviluppare forme abbastanza sofisticate di controguerriglia. In queste
ultime, divenne evidente che la guerra ideologica non aveva nulla a che fare
con quella degli eserciti tradizionali, ancora animata da spirito e tradizioni
cavalleresche: i due contendenti, infatti, si abbandonarono a violenze e
atrocità molto gravi, dato che l’essere portatori ciascuno di visioni del mondo
antitetiche faceva sì che nessuno fosse disposto a riconoscere all’altro una
qualche forma di legittimità. Sul versante delle operazioni di tipo
convenzionale, per contro, George Washington si rese conto rapidamente che la
vittoria finale poteva essere ottenuta solo se l’accolita di miliziani al suo
comando fosse riuscita a diventare, nel più breve tempo possibile, un esercito
regolare in grado di affrontare con successo gli inglesi in campo aperto.
L’essere riuscito a conseguire, in tempi relativamente brevi, questo decisivo
obiettivo, benché i suoi uomini fossero pochi, male armati, privi di munizioni
e di un adeguato sostegno logistico e sanitario, fu certamente un suo grande
merito.
Il nuovo esercito americano non
era probabilmente all’altezza di quello nemico, ma rappresentava la più valida
testimonianza che gli USA stavano diventando uno Stato e – come tali – potevano
legittimamente aspirare a contrarre alleanze internazionali, a cominciare da
quella con la Francia. L ’appoggio
di Parigi – inutile dirlo – rappresentò un fattore determinante del successo
finale della rivoluzione americana, non tanto per il piccolo contingente
terrestre (circa 7.000 uomini) che sbarcò nel luglio 1780 sul continente
americano per aiutare l’esercito statunitense, quanto perché la flotta francese
rese ancora più difficili le attività operative della “Royal Navy”, già costretta
ad uno sforzo notevole per il controllo di alcuni porti da utilizzare come base
di supporto logistico per le truppe di Sua Maestà. L’entrata in campo della
Francia, del resto, stava a significare che la rivoluzione americana aveva
ormai assunto una dimensione internazionale e aveva perso le caratteristiche di
un conflitto intestino.
Sottoposti alla convergente
pressione del nuovo esercito statunitense e della poderosa flotta francese, gli
inglesi, preoccupati del fatto che anche la Spagna e i Paesi Bassi avevano tratto vantaggio
delle loro difficoltà per entrare in guerra, nell’evidente intento di
recuperare i territori coloniali perduti nel corso dei conflitti precedenti, si
trovarono sempre più in difficoltà ad alimentare il loro sforzo bellico in
America settentrionale e persero progressivamente interesse per una guerra che
appariva ormai perduta. Già nell’ottobre 1781, con la resa delle truppe
britanniche a Yorktown, in Virginia, le sorti del conflitto apparvero segnate,
ma ci vollero ancora quasi due anni prima che venisse firmata la pace di Parigi
(settembre 1783), con la quale la Gran
Bretagna riconobbe l’indipendenza delle sue 13 ex-colonie
d’oltreoceano.
Mancavano meno di sei anni allo
scoppio della Rivoluzione francese, ma il vento di un’epoca nuova aveva
cominciato a spirare con forza, tanto in campo politico quanto militare: nel
momento in cui la guerra cessava di essere una sorta di gioco convenzionale tra
sovrani con interessi e appetiti diversi, ma che si riconoscevano una reciproca
legittimità, e si trasformava in una lotta tra visioni politiche alquanto
diverse, quando non radicalmente antitetiche, in cui cresceva il ruolo
riservato ai singoli cittadini e alle loro forme di manifestazione politica,
l’intera natura del conflitto si apprestava a sperimentare una radicale
trasformazione. La Rivoluzione Americana
ne aveva fornito qualche indizio, ma il 1789 avrebbe apportato grandissime
novità.