venerdì 25 ottobre 2013

Storia della guerra - 17: La Rivoluzione Americana


   Nella storia della guerra moderna, la Rivoluzione Americana (1776-1783) occupa un posto di rilievo perché segna il classico punto di passaggio tra i conflitti di tipo settecentesco e la ricomparsa di quelli a carattere ideologico. Nella crescente insofferenza dei coloni americani contro il dominio britannico e le sue pressanti esigenze fiscali, erano già presenti, del resto, tutti gli elementi di una fase politica nuova, nella quale la rivendicazione dei diritti di cittadinanza poteva arrivare fino alla scelta di impugnare le armi per farli rispettare.

   Lo “sparo che risuonò nel mondo intero” venne esploso a Lexington, cittadina a poche miglia da Boston, nelle prime ore del mattino del 19 aprile 1775, quando una colonna di truppe inglesi mandate in ricognizione per controllare e disturbare l’attività delle milizie locali, venne affrontata dai “minute men” (uomini mobilitabili con un preavviso brevissimo) che costituivano la punta di lancia delle medesime. Lo scontro che ne seguì fu paradigmatico di tutto quanto avvenne nei successivi anni di guerra: in una prima fase, i miliziani tentarono di affrontare i soldati britannici in un’azione regolare, combattuta in ordine chiuso, ed ebbero ovviamente la peggio. Tuttavia, non appena decisero di cambiare tattica e di tempestare la colonna britannica con il fuoco esploso a distanza ravvicinata da gruppi di tiratori in ordine sparso che cercavano di sfruttare ogni riparo offerto dal terreno, presero rapidamente il sopravvento e costrinsero le truppe inglesi a una precipitosa ritirata in direzione di Boston, infliggendo loro gravi perdite. Se si visita il “Battle Road Trail”, compreso in parte all’interno del “Minute Man National Historical Park” di Concord, è possibile ripercorrere ancora oggi la strada imboccata dai soldati inglesi in ritirata e non è difficile comprendere come, bersagliati da tre lati, si siano trovati in grave difficoltà.

   Anche il cinema ci può aiutare: nel film “Revolution” di Hugh Hudson, Donald Sutherland impersona un sergente maggiore inglese che guida con successo un classico attacco in ordine chiuso del suo reggimento contro la fanteria americana, e la travolge, mentre “Il patriota” di Roland Emmerich ci mostra uno spiritato Mel Gibson condurre azioni di guerriglia contro gli occupanti britannici, poi tutte le asprezze della guerra civile tra rivoluzionari e “lealisti” come Banastre Tarleton, e infine la crescente capacità dell’esercito regolare statunitense di affrontare con successo le “giacche rosse” anche in campo aperto.

   È in America, dunque, che nasce la moderna figura del “cittadino-soldato”, dell’uomo che impugna le armi per difendere un ideale, una causa, una visione del mondo e uno stile di vita. Abituato ad un’esistenza a contatto con la natura, passata a coltivare la terra, spesso ricco di un’esperienza militare fatta combattendo i francesi e/o i pellerossa, il miliziano statunitense è un uomo che ha dimestichezza sia con le armi da fuoco sia con le armi bianche. Ottimo tiratore, perché la caccia costituisce una delle sue principali forme di sostentamento, conosce bene anche il terreno su cui opera e ha appreso dagli indigeni forme di mimetizzazione e di combattimento in ordine sparso che diventano, ancora una volta, componenti essenziali – quali moltiplicatori di forza - di una guerra asimmetrica combattuta dal più debole contro il più forte.

   Queste punture di spillo, in apparenza pressoché ininfluenti, si dimostrarono alla lunga molto debilitanti per un esercito come quello britannico, numericamente scarso e costretto ad operare a migliaia di chilometri dalla madrepatria, con linee di rifornimento lunghissime. La debolezza numerica, infatti, impediva ai generali di Sua Maestà di esercitare un adeguato controllo del territorio e tale mancato controllo consentì a George Washington di disporre del tempo necessario a trasformare un eterogeneo aggregato di milizie in un esercito regolare, istruito alle tattiche convenzionali dai preziosi consigli di un esperto straniero come il generale prussiano von Steuben.

   Proprio questa flessibilità nel passare con disinvoltura dalla guerra di guerriglia al conflitto convenzionale, e viceversa, costituì una delle cause della vittoria finale statunitense: la capacità di combattere una guerra regolare, infatti, e di ottenere vittorie importanti come quella di Saratoga (ottobre 1777), quando un intero esercito inglese venne costretto alla resa, consentì ai rivoltosi di legittimare la nascita di un nuovo Stato e di ottenerne non solo il riconoscimento sul piano internazionale ma di stipulare anche alleanze, a cominciare da quella con la Francia, desiderosa di prendersi una rivincita dopo le sconfitte subite nella Guerra dei Sette Anni e pronta a scendere in campo contro la Gran Bretagna (giugno 1778). Al tempo stesso, nelle non poche occasioni in cui le truppe regolari statunitensi vennero sconfitte sul campo dagli inglesi, trovarono sempre una via di fuga nel passaggio dalla guerra convenzionale a quella irregolare: gli stessi uomini che erano stati battuti dai britannici, infatti, potevano spogliarsi delle divise e trasformarsi in cittadini apparentemente neutrali, ma pronti a colpire con azioni improvvise le lunghe e fragili linee di rifornimento delle forze di Sua Maestà.

   In questo modo, la Gran Bretagna si trovò a combattere più conflitti contemporaneamente, e in tutti risultò soccombente: sul piano delle operazioni non convenzionali, non aveva forze a sufficienza per garantirsi il controllo del territorio, anche se, grazie all’appoggio dei “lealisti”, cioè dei coloni americani fedeli alla corona britannica, poté con il tempo sviluppare forme abbastanza sofisticate di controguerriglia. In queste ultime, divenne evidente che la guerra ideologica non aveva nulla a che fare con quella degli eserciti tradizionali, ancora animata da spirito e tradizioni cavalleresche: i due contendenti, infatti, si abbandonarono a violenze e atrocità molto gravi, dato che l’essere portatori ciascuno di visioni del mondo antitetiche faceva sì che nessuno fosse disposto a riconoscere all’altro una qualche forma di legittimità. Sul versante delle operazioni di tipo convenzionale, per contro, George Washington si rese conto rapidamente che la vittoria finale poteva essere ottenuta solo se l’accolita di miliziani al suo comando fosse riuscita a diventare, nel più breve tempo possibile, un esercito regolare in grado di affrontare con successo gli inglesi in campo aperto. L’essere riuscito a conseguire, in tempi relativamente brevi, questo decisivo obiettivo, benché i suoi uomini fossero pochi, male armati, privi di munizioni e di un adeguato sostegno logistico e sanitario, fu certamente un suo grande merito.

   Il nuovo esercito americano non era probabilmente all’altezza di quello nemico, ma rappresentava la più valida testimonianza che gli USA stavano diventando uno Stato e – come tali – potevano legittimamente aspirare a contrarre alleanze internazionali, a cominciare da quella con la Francia. L’appoggio di Parigi – inutile dirlo – rappresentò un fattore determinante del successo finale della rivoluzione americana, non tanto per il piccolo contingente terrestre (circa 7.000 uomini) che sbarcò nel luglio 1780 sul continente americano per aiutare l’esercito statunitense, quanto perché la flotta francese rese ancora più difficili le attività operative della “Royal Navy”, già costretta ad uno sforzo notevole per il controllo di alcuni porti da utilizzare come base di supporto logistico per le truppe di Sua Maestà. L’entrata in campo della Francia, del resto, stava a significare che la rivoluzione americana aveva ormai assunto una dimensione internazionale e aveva perso le caratteristiche di un conflitto intestino.

   Sottoposti alla convergente pressione del nuovo esercito statunitense e della poderosa flotta francese, gli inglesi, preoccupati del fatto che anche la Spagna e i Paesi Bassi avevano tratto vantaggio delle loro difficoltà per entrare in guerra, nell’evidente intento di recuperare i territori coloniali perduti nel corso dei conflitti precedenti, si trovarono sempre più in difficoltà ad alimentare il loro sforzo bellico in America settentrionale e persero progressivamente interesse per una guerra che appariva ormai perduta. Già nell’ottobre 1781, con la resa delle truppe britanniche a Yorktown, in Virginia, le sorti del conflitto apparvero segnate, ma ci vollero ancora quasi due anni prima che venisse firmata la pace di Parigi (settembre 1783), con la quale la Gran Bretagna riconobbe l’indipendenza delle sue 13 ex-colonie d’oltreoceano.

   Mancavano meno di sei anni allo scoppio della Rivoluzione francese, ma il vento di un’epoca nuova aveva cominciato a spirare con forza, tanto in campo politico quanto militare: nel momento in cui la guerra cessava di essere una sorta di gioco convenzionale tra sovrani con interessi e appetiti diversi, ma che si riconoscevano una reciproca legittimità, e si trasformava in una lotta tra visioni politiche alquanto diverse, quando non radicalmente antitetiche, in cui cresceva il ruolo riservato ai singoli cittadini e alle loro forme di manifestazione politica, l’intera natura del conflitto si apprestava a sperimentare una radicale trasformazione. La Rivoluzione Americana ne aveva fornito qualche indizio, ma il 1789 avrebbe apportato grandissime novità.

                                    Piero Visani