Mentre la guerra terrestre si stava
profondamente modificando, che cosa accadeva sul mare? Fino ad oggi, per
ragioni di spazio e di sintesi, abbiamo parlato poco o nulla della guerra
navale. Colpevole trascuratezza, non priva, tuttavia, di una sua intima logica,
dal momento che, per secoli, il conflitto sul mare venne concepito come una
semplice estensione di quello terrestre. Il punto più alto di tale concezione
venne rappresentato dalla battaglia di Lepanto (1571). A soli 17 anni di
distanza, la distruzione dell’Armada spagnola da parte inglese (1588) dimostrò
invece che era possibile elaborare una concezione interamente nuova della
guerra navale e questo grazie al progressivo affermarsi di un diverso tipo di
vascello, il veliero a tre alberi, entrato in uso all’inizio del Quattrocento e
largamente impiegato da spagnoli e portoghesi, nel corso del Cinquecento, per i
loro grandi viaggi di scoperta.
Non si trattò di un improvviso
salto di qualità, ma di una lunga evoluzione, che ebbe protagonisti diversi.
Furono per primi gli spagnoli, nella seconda metà del XVI secolo, a creare, con
il galeone, una nave che fece proprie una serie di innovazioni introdotte in
precedenza, tra cui un sistema di velatura in grado di sfruttare meglio il
vento, e dunque garantire una superiore velocità; il miglioramento dello scafo,
grazie alla disponibilità di un fasciame più solido e dunque alla maggiore
lunghezza rispetto alla larghezza, al basso centro di gravità e alla diminuita
superficie di esposizione al vento; l’introduzione del timone a ruota, che
conferì alle navi una capacità di manovra fino ad allora sconosciuta.
L’aspetto più rivoluzionario
della nuova tecnologia navale fu tuttavia rappresentato dall’estrema efficacia
di battelli di questo tipo come piattaforma per le artiglierie. Sotto questo
profilo, furono gli inglesi a sistemare i cannoni nella parte delle navi
abitualmente dedicata al carico, sviluppando prototipi di vascelli sempre più
sofisticati. Nel 1588, la “Revenge” di sir Francis Drake disponeva di un solo
ponte per le artiglierie, ma già nel 1610 la “Prince Royal” poteva contare su
due ponti completi, mentre nel 1637 venne varata la “Sovereign of the Seas”,
che aveva le artiglierie di bordo distribuite su tre ponti e poteva contare su
un centinaio di cannoni. Com’è ovvio, navi del genere potevano sviluppare una
potenza di fuoco impressionante e naturalmente, per ospitare tanti cannoni a
bordo, crebbe in parallelo anche il tonnellaggio.
Con il passare del tempo, le
navi a tre ponti furono abitualmente usate come ammiraglie e, insieme alle navi
a due ponti, dotate di 74 cannoni, formavano la linea da battaglia di una
flotta. Navi a un solo ponte, armate di 24 o 36 cannoni, divennero note come
fregate e furono utilizzate essenzialmente per compiti di ricognizione e
scorta, aiutate nell’assolvimento di questa funzione dalle corvette, che erano
navi più piccole, prive di ponte e armate di una sola batteria di cannoni
collocata direttamente in coperta.
L’insieme di queste
caratteristiche contribuì in breve a fare della guerra navale qualcosa di
profondamente diverso da quello che era stata fino a pochi anni prima: grazie
alla potenza di fuoco delle artiglierie di bordo, infatti, sarebbero state
quest’ultime a decidere il combattimento, non lo scontro a distanza
ravvicinata, culminante in un abbordaggio, che aveva sempre connotato le
battaglie navali come un prolungamento di quelli terrestri.
Per ragioni legate alla sua
posizione insulare, la Gran Bretagna
fu il primo Paese europeo a comprendere che la disponibilità di una forte
marina da guerra avrebbe potuto costituire una protezione inviolabile alla sua
integrità territoriale: tutti i principali eserciti europei, in effetti,
potevano essere considerati superiori, quanto meno sotto il profilo quantitativo,
rispetto a quello inglese, ma quest’ultimo, sia pur minuscolo a paragone di
altri, era molto ben addestrato e soprattutto protetto da una grande Marina,
decisamente superiore alle flotte delle maggiori potenze rivali.
La condizione insulare e la disponibilità
di una forte marina, sia mercantile sia da guerra, nonché l’impegno profuso
dalla sue classi dirigenti per la creazione di una potenza commerciale diffusa
su scala internazionale, fecero ben presto della Gran Bretagna una potenza del
tutto diversa dalle altre, interessata, molto più che al dominio terrestre, a
quello del mare. Questo spiega perché Londra dedicò tanta cura, denaro e fatica
all’edificazione della sua “Royal Navy”, ben consapevole del fatto che essa
rappresentava la più solida garanzia della crescita della sua potenza su scala
planetaria. Se la protezione delle rotte commerciali britanniche era una
priorità assoluta, non da meno lo era la garanzia di un costante
approvvigionamento delle materie prime indispensabili all’edificazione e al
mantenimento di una grande flotta: non sorprende dunque che i boschi di querce
diventassero monopolio statale, che fossero mantenute buone relazioni con Paesi
come la Svezia ,
che potevano garantire costanti forniture di legname, che fossero mantenuti efficienti
e dotati di manodopera di qualità i cantieri navali.
Malgrado tutti questi sforzi,
era convinzione diffusa, quanto meno in una parte della classe dirigente
inglese, che il governo di Londra dedicasse alla potenza commerciale molta più
attenzione di quanta ne riservava a quella navale. Nel 1701, ad esempio, la Marina di Sua Maestà poteva
contare su 130 navi da guerra, di cui però solo la metà era realmente pronta a
prendere il mare. Un grave problema era inoltre rappresentato dal reclutamento
degli equipaggi, poiché, a fianco di un solido corpo ufficiali e di un buon
livello di nostromi, non era possibile sottrarre troppe risorse alla marina
mercantile, dalla quale dipendeva buona parte della ricchezza del Paese, per
cui era necessario ricorrere a volontari (in genere pochi) e al reclutamento
forzoso, che tuttavia, per la sua stessa natura, assicurava più che altro un
gettito di elementi eufemisticamente definibili come poco raccomandabili.
Con il passare del tempo, anche
altre potenze europee animate da ambizioni imperiali si accorsero
dell’importanza di seguire l’esempio inglese nel dotarsi di una grande marina,
ma la Spagna
era ormai in declino irreversibile, mentre l’espansione della Francia durante
il lungo regno di Luigi XIV pose a Londra problemi di ben altra portata. La Francia , infatti, era già
una grande potenza terrestre, anzi la più importante del continente e, se fosse
riuscita anche a diventare una potenza navale, avrebbe potuto risultare una
minaccia mortale per la Gran Bretagna
non solo in Europa ma a livello planetario. Fu in particolare tra il 1661 e il
1683, quando Colbert ebbe l’incarico di controllore generale delle finanze, che
la Francia
perseguì una politica mercantilistica in grande scala, frutto della
constatazione – che la Gran Bretagna
aveva fatto propria già da molto tempo – che potere commerciale e potere navale
procedevano di pari passo. Venne costruita una consistente marina da guerra e
il predominio commerciale inglese cominciò ad essere sfidato in tutti i mari
del mondo.
Tuttavia, l’ampliarsi degli
interessi economici di alcune tra le più importanti potenze europee alle
maggiori aree geografiche del globo stava conferendo all’evoluzione del
conflitto, anche di quello navale, una dimensione in precedenza sconosciuta,
dove il dominio del mare non era più il prolungamento di quello conseguito in
terra, ma stava acquisendo un’ autonomia e una dinamica sue proprie, che
richiedevano lo sviluppo di logiche e filosofie operative completamente nuove e
diverse, e che avrebbero avuto significative conseguenze anche sui
combattimenti terrestri. Era alle porte il primo conflitto su scala geografica
globale: la guerra dei Sette Anni (1757-1763).