giovedì 31 ottobre 2013

Storia della guerra - 19: L'ascesa dell'impero napoleonico


   Nella primavera del 1796, quando Napoleone Buonaparte – un oscuro generale di origine corsa, noto al più per essere il fresco sposo di Giuseppina Beauharnais, amante del membro più autorevole del Direttorio al potere a Parigi, Paul Barras – assunse il comando dell’Armata d’Italia, nulla lasciava presagire l’inizio di una straordinaria avventura che ha impresso un marchio indelebile sulla storia della guerra. L’esercito destinato ad attaccare gli austro-piemontesi nella pianura Padana era la classica armata rivoluzionaria formata da elementi di mestiere e volontari animati da furore ideologico, ma nessuna vittoria sarebbe stata colta se, alla testa di quegli uomini, non ci fosse stato uno dei massimi geni militari di tutti i tempi.

   Tutti i fattori necessari ad un radicale salto di qualità nell’evoluzione del conflitto erano già presenti – e ne abbiamo parlato nell’articolo dedicato alla Rivoluzione francese – ma ancora mancava colui che li mescolasse, li amalgamasse e producesse una nuova sintesi. Napoleone fu l’artefice di questa straordinaria trasformazione, che risultò molto più grande dal punto di vista strategico e operativo di quanto non lo fu, per contro, sul piano tattico.

   Accanito lettore della migliore produzione dottrinale del suo tempo, a cominciare dagli scritti del Guibert, nonché attento esegeta di tutte le principali opere di arte bellica della storia, il generale Buonaparte aveva sicuramente sviluppato, quanto meno a livello teorico, un proprio sistema di guerra. La sua grande dote fu quella di riuscire a metterlo concretamente in pratica. Figlio della Rivoluzione, aveva una concezione del tempo e della rapidità di movimento decisamente diversa da quella dei suoi nemici, abituati alle mollezze dell’Ancien Régime. Fin dai suoi esordi come comandante di eserciti, quindi, egli si preoccupò di colpire duro, in fretta e in profondità, gli eserciti nemici. Fin dall’inizio ebbe chiaro che la guerra – qualunque guerra – poteva essere vinta solo se si riusciva ad abbattere, nel più breve tempo possibile, la volontà di combattimento del nemico e, per ottenere un risultato del genere, l’unica concreta possibilità disponibile era data dall’annientamento delle forze avversarie: non l’assedio di una o più piazzeforti, non l’occupazione di taluni territori, non la conquista della capitale, ma solo ed esclusivamente la distruzione dell’esercito nemico.

   Questo fu l’obiettivo costantemente perseguito negli anni dell’ascesa e della stabilizzazione del potere napoleonico, che possono essere collocati tra il 1796 e il 1806 (dunque fino alla battaglia di Jena) per la fase ascendente, e tra il 1807 e il 1809 per quella di stabilizzazione (dunque fino alla battaglia di Wagram). In tale periodo, le componenti essenziali dei suoi straordinari successi furono, in primo luogo, la disponibilità di uno strumento militare eccellente, animato da un professionismo, uno spirito di corpo e uno slancio rivoluzionario che non vennero mai meno neppure quando la proclamazione dell’impero (2 dicembre 1804) riportò la Francia nel novero delle monarchie europee, sia pure con una struttura assai diversa da tutte le altre; in secondo luogo, l’organizzazione modulare conferita a tale strumento, dapprima con la nascita – avvenuta già prima del 1796 – del sistema divisionale e poi con quella – questa sì tipicamente napoleonica – dei corpi d’armata, piccoli eserciti assolutamente autonomi, formati da reparti di tutte le armi, che in genere venivano fatti muovere divisi e poi concentrati per arrivare a combattere uniti sul campo di battaglia. Fu questa organizzazione modulare a consentire l’allestimento di una fitta e complessa trama di operazioni coordinate, costantemente intese a sconfiggere il nemico per mezzo della sorpresa strategica, da ottenere con il continuo ricorso alla manovra e anche ad espedienti per dissimulare i reali intenti della Grande Armée. Una rigida pianificazione centralizzata, al cui vertice c’era solo Buonaparte, sia pure assistito da uno Stato Maggiore molto efficiente, si concretizzava sul campo in un’esecuzione operativa fortemente decentrata, affidata ai migliori marescialli dell’Impero.

   Nei primi dieci anni di guerre napoleoniche, il ricorso a queste procedure consentì a Napoleone di acquisire un notevolissimo vantaggio sui suoi avversari, quasi che si stessero affrontando – e di fatto era così – uomini appartenenti a universi culturali e temporali diversi. Era la modernità che irrompeva, con i suoi ritmi pulsanti, là dove c’erano soltanto conservazione e immobilismo. Per non parlare del fatto che i soldati francesi si sentivano portatori di un grande rinnovamento politico e che, con il tempo, svilupparono un professionismo militare di altissimo livello. Il loro numero, poi, venne mantenuto costantemente elevato da una macchina di reclutamento perfettamente oliata, in grado di mettere a disposizione dell’imperatore grandi masse di uomini.

   Sul piano tattico, per contro, le innovazioni del sistema di guerra napoleonico furono decisamente inferiori a quelle prodotte sul piano strategico, ma la superiorità conseguita dal genio di Buonaparte a quest’ultimo livello fu, per un lungo periodo, più che sufficiente a occultare il fatto che, sul campo di battaglia, le differenze con il nemico fossero inferiori a quelle che si registravano in ambito strategico o di gestione di operazioni combinate.

   Il capolavoro strategico di Napoleone è probabilmente la manovra di Ulm, condotta contro il generale austriaco Mack nel 1805: come nei casi più brillanti del genio militare del Grande Corso, essa si compone di una manovra diversiva per disorientare il nemico e di una classica “manoeuvre sur les derrières”, tesa ad intercettare le linee di rifornimento dell’avversario e ad isolarlo dalle proprie basi per renderlo totalmente vulnerabile. Nel caso di Ulm, si trattò di una grande vittoria conseguita non con i fucili sul campo di battaglia ma con le gambe dei soldati in una serie di marce di aggiramento strategico e di accerchiamento. che consentirono di costringere il nemico alla capitolazione senza che si fosse mai reso necessario combattere uno scontro frontale. Tuttavia, anche nel caso in cui – come ad Austerlitz nel 1805, a Jena nel 1806 od a Friedland nel 1807 – si rese necessaria una grande battaglia, la vittoria fu sempre dei francesi a causa della superiorità del sistema molto aggressivo che avevano sviluppato sul piano tattico, con l’impiego della fanteria a massa, il forte supporto dell’artiglieria, il ricorso alle cariche di gigantesche unità di cavalleria in funzione di sfondamento, alla ricerca di un punto di gravità su cui concentrare lo sforzo offensivo, ottenere la rottura del fronte nemico e dilagare successivamente nelle sue retrovie.

   Il sistema napoleonico non era privo di imperfezioni, come venne evidenziato a Marengo (14 giugno 1800), dove gli austriaci si dimostrarono ben guidati ed efficaci nel combattimento; oppure ad Eylau (7-8 febbraio 1807), dove le difficili condizioni climatiche costrinsero l’imperatore a rinunciare alla manovra per puntare essenzialmente sulla massa d’urto al fine di aver ragione dell’avversario. Egli riuscì nella circostanza a prevalere, ma pagando un prezzo carissimo (circa 15.000 perdite), una situazione che prefigurava l’avvio di una fase nuova, quella della stabilizzazione del suo potere, che lo vide vittorioso in Spagna, nel 1808, contro gli eserciti locali e l’elusivo avversario inglese, che si sottrasse sempre a uno scontro decisivo, puntando su una strategia di logoramento, e anche in Austria nel 1809, con la vittoria di Wagram, ottenuta però nuovamente a un costo umano altissimo (circa 35.000 perdite).

   Con il passare del tempo e le continue guerre, del resto, la Grande Armée stava progressivamente esaurendo il proprio slancio, anche in considerazione del fatto che i grandi scontri di cui era stata protagonista avevano inciso pesantemente sul numero dei suoi effettivi e soprattutto sulla qualità dei medesimi e dei quadri. C’erano sempre nuove reclute, infatti, poiché il sistema di reclutamento francese funzionava a pieno ritmo, ma erano sempre più giovani e inesperte. I molti nemici di Napoleone, inoltre, avevano attentamente studiato il suo sistema di combattimento e stavano prendendo le opportune contromisure, per non parlare del fatto che la costante dilatazione territoriale dell’impero francese creava nuove ostilità contro di esso e sottoponeva gli eserciti dell’imperatore a un logoramento senza fine. Con una logica fin troppo nota alle vicende dell’umano divenire, i liberatori, i portatori dello spirito della Rivoluzione, erano diventati forze d’occupazione e, al tempo stesso, la costruzione imperiale aveva portato ad un risveglio delle identità nazionali, per cui i singoli popoli sopportavano con sempre maggiore difficoltà quello che percepivano come un giogo straniero.

   Abbigliati nelle loro rutilanti divise, esponenti di una tradizione militare che stava toccando vertici difficilmente eguagliabili, gli uomini della Grande Arméé avevano scritto con il sangue pagine di storia imperiture e parevano invincibili, ma le componenti fondamentali del sistema di guerra napoleonico stavano entrando in crisi, perché avevano raggiunto il loro apogeo. La stessa arte di comando dell’imperatore, del resto, stava perdendo flessibilità, in parallelo con il passare degli anni: sempre minore elasticità di manovra e sempre maggiore ricorso ad un impiego a massa che consumava risorse umane e materiali in termini e con un ritmo che l’impero francese non era in grado di reggere. Presto sarebbe iniziato l’inevitabile declino.

                                                                Piero Visani




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