lunedì 28 ottobre 2013

Storia della Guerra - 18: La Rivoluzione Francese


   La guerre de la liberté doit être faite avec colère: queste parole, attribuite a un noto esponente giacobino come Louis-Antoine de Saint Just, vengono in genere utilizzate per riassumere il grande sconvolgimento che la Rivoluzione francese introdusse nell’evoluzione del conflitto. L’approccio è corretto, perché se non si guarda al versante politico-ideologico, non si riesce a comprendere l’estrema novità dell’innovazione rivoluzionaria. Al tempo stesso, tuttavia, è un approccio troppo unilaterale, che rischia di far perdere di vista altri fattori, non meno importanti.

   Sotto il profilo militare, così come su altri importanti versanti, la Rivoluzione del 1789 non si innestò sul niente, ma su un retroterra ben preciso, che era quello di un Paese che aveva digerito a fatica la dura sconfitta subita contro la Gran Bretagna durante la Guerra dei Sette Anni e che, dopo i primi segni di ripresa evidenziatisi in seguito alla vittoriosa partecipazione alla Rivoluzione americana, anelava a consolidare lo sforzo di riacquisire potenza e prestigio. In quest’ottica, non è sorprendente che il suo impegno fosse rivolto a rafforzare la sua potenza militare, tanto sul piano tecnico quanto su quello teorico. Nel primo caso, l’ispettore generale Jean-Baptiste Gribeauval stava lavorando da tempo al perfezionamento dell’artiglieria, arma tecnica per eccellenza, creando un sistema assai ben strutturato, dove i cannoni, anche di calibro diverso, erano costruiti con parti intercambiabili, mentre i carriaggi erano standardizzati, la mobilità era garantita e il miglioramento tecnico dei pezzi risultava costante. Nel secondo caso, un brillante teorico militare, il conte de Guibert, aveva provveduto a riformulare i principi dell’arte della guerra con lo sguardo rivolto al futuro: non più conflitti statici, bloccati intorno a piazzeforti, ma eserciti in rapido movimento, costantemente tesi a ricercare l’annientamento del nemico in una sola battaglia decisiva. Anticipando lucidamente i tempi, egli scrisse: «L’egemonia dell’Europa andrà alla nazione… che sarà più risoluta e creerà un esercito nazionale».

   Fu su questo sfondo che, nel luglio 1789, scoppiò la Rivoluzione francese e l’esercito, in quanto parte della società, ne fu subito coinvolto: come il resto dell’organizzazione sociale transalpina, anche l’esercito era una realtà bloccata, dove non solo i ruoli di comando ma in pratica l’intero corpo ufficiali era riservato ai membri della nobiltà, dalla grande alla piccola, e dove le possibilità di promozione erano estremamente limitate, per non dire inesistenti, se non si possedeva il “sangue giusto”. La Rivoluzione cambiò tutto non solo perché si fece portatrice di mentalità, spirito e valori nuovi, ma anche perché creò, nelle file dell’esercito, una mobilità gerarchica fino a quel momento sconosciuta: basti pensare che, solo nel 1792, ben 5.500 dei 9.500 membri del corpo ufficiali avevano cercato riparo all’estero e, poiché i nemici si addensavano sulle frontiere della Francia, fu necessario promuovere rapidamente ai gradi superiori quei membri della piccola nobiltà di provincia (a cominciare da Napoleone Buonaparte) che avevano frequentato le scuole militari del regno, ricavandone una buona preparazione di base, ma parevano destinati a languire a vita nei gradi subalterni.

   Si determinò così una singolare convergenza tra lo slancio rivoluzionario, con la sua volontà di modificare radicalmente gli assetti politici, economici e sociali, e le esigenze di carriera di una piccola ufficialità che, fino a quella data, aveva vissuto sostanzialmente di frustrazioni e rinunce. Si realizzò così un binomio in cui componente volontaria e componente regolare, slancio rivoluzionario e competenza professionale si fusero perfettamente insieme, dando vita ai famosi eserciti dei “sans culottes”. Quando poi, come nei primi mesi del 1793, l’alleanza tra i nemici della vampata rivoluzionaria fece comparire minacciosamente alle frontiere della Francia grandi eserciti nemici, la Convenzione non esitò a ricorrere (24 febbraio) ad un provvedimento innovativo come la coscrizione obbligatoria per tutti i cittadini di sesso maschile, di età compresa fra i 18 e i 40, celibi o vedovi senza figli. Ne scaturì una “leva in massa” che diede vita a una “Nazione armata” la quale non solo era figlia primogenita della Rivoluzione, ma ne rifletteva alla perfezione lo spirito.

   La musica e le parole de “La Marsigliese” ci consentono ancora oggi di capire, a più di due secoli di distanza, l’entusiasmo che animava queste armate rivoluzionarie, dove forme di collaudato professionismo, spesso provenienti non solo e non tanto dagli ufficiali subalterni, ma addirittura dalla bassa forza, dai soldati semplici (non a caso, tra i marescialli di Napoleone abbonderanno, durante l’Impero, personaggi che avevano cominciato la loro carriere militari dal gradino più basso), si fondevano con la volontà di radicale rinnovamento politico e sociale che animava i volontari.

   Furono costoro a dimostrare al mondo come doveva essere condotta la guerra per la libertà, e lo fecero, oltre che sulla base di una solida motivazione politica e ideologica, anche su quella di novità tattiche e operative che erano inestricabilmente legate a questi nuovi assetti: un esercito del genere – di fatto vettore di un’idea – non poteva che basare le sue tattiche sull’aggressività, sull’assalto frontale, sullo sfruttamento del principio della massa, anche se il lavoro di preparazione pratica svolto da Gribeauval e quello di elaborazione teorica condotto da Guibert forniva preziosi supporti a vari livelli. Sotto la regia di Lazare Carnot, poi, il ministero della Guerra raggiunse vertici insuperati di efficienza, quanto meno in termini di reclutamento e mobilitazione degli uomini. Non si dimostrò altrettanto efficiente, per contro, nella capacità di sostenerne lo sforzo sul piano logistico, ma qui subentrò nuovamente lo spirito rivoluzionario, poiché questi autentici “soldati politici” erano soliti vivere approfittando a man bassa di quanto offrivano loro i territori su cui operavano, per cui le loro formazioni – organizzate su base divisionale – erano sempre più veloci di quelle del nemico a causa della loro totale indipendenza da una catena di rifornimenti.

   Come tale, dunque, la Rivoluzione francese elaborò un sistema di guerra totalmente nuovo, basato a livello strategico sulla grande mobilità degli spostamenti delle truppe, capaci di percorrere in pochi giorni distanze che, solo qualche decennio prima, sarebbero state coperte da un esercito nel corso di mesi. A livello tattico, poiché l’addestramento dei reparti disponibili era assolutamente deficitario e non avrebbe consentito di condurre le complesse manovre in linea tipiche dei principali eserciti professionistici dell’epoca, venne trovata una soluzione – l’impiego dei reparti in colonna – che favoriva il ruolo della massa e che, grazie all’impiego spregiudicato (anche se costoso in termini di vite umane) di quest’ultima, consentiva di far leva sullo slancio rivoluzionario per mettere in fuga le armate di mestiere nemiche, non abituate ad avere a che fare con queste orde indiavolate. L’attacco in colonna, in realtà, era assai rischioso, dato che metteva gli attaccanti alla mercé della potenza di fuoco avversaria, ma, all’epoca, i moschetti non erano efficaci a più di 100 metri di distanza, per cui il tratto che le armate rivoluzionarie dovevano compiere allo scoperto era assai breve, senza contare che la loro avanzata era in genere coperta da nugoli di fanteria leggera (i “tirailleurs”) e che i comandanti più avveduti avevano la possibilità, se riuscivano a controllare adeguatamente i loro reparti sul campo, di ricorrere all’ “ordre mixte”, che combinava lo slancio dell’attacco in colonna con il fuoco di una parte delle truppe attaccanti schierate in linea. Questo sistema – lo vedremo – sarà portato a perfezione da Napoleone, ma dimostrò di funzionare egregiamente anche con altri generali rivoluzionari, come Moreau o Hoche.

   Quanto infine alla tanto dibattuta questione se la Rivoluzione francese introdusse elementi di novità – di “ascesa verso gli estremi”, per dirla con Carl von Clausewitz – nella natura del conflitto, non c’è dubbio che tale componente ci fu (e non avrebbe potuto essere altrimenti, visto il modo con cui i rivoluzionari interpretarono il loro ruolo) e talvolta produsse crudeltà inaccettabili. Al tempo stesso, però, appare una forzatura sostenere che sia stata solo la Rivoluzione ad innescare tali dinamiche. Queste ultime, infatti, non solo erano già presenti, ma tendevano ad accendersi, per così dire, a corrente alternata, poiché non pare possibile sostenere che le guerre religiose dei secoli precedenti (a cominciare dalla Guerra dei Trent’Anni) fossero state prive di terribili eccessi. In questo senso, riesce difficile ritenere che la Rivoluzione francese abbia apportato straordinari elementi di novità sulla natura del conflitto: quest’ultimo, infatti, non divenne più crudele per ragioni di carattere ideologico e/o religioso (infatti, quando queste entravano in gioco, lo era già); semmai, lo divenne per una serie di fattori connessi alle dinamiche stesse della modernità e per il fatto che, quanto più si ampliava la partecipazione individuale alla vita politica, più difficile diventava limitare la guerra a un semplice scontro tra sovrani, retto da regole condivise. Il fatto che ci fossero di mezzo i popoli, mutava radicalmente lo scenario.

                                                                     Piero Visani