La guerre de la liberté doit
être faite avec colère:
queste parole, attribuite a un noto esponente giacobino come Louis-Antoine de
Saint Just, vengono in genere utilizzate per riassumere il grande
sconvolgimento che la
Rivoluzione francese introdusse nell’evoluzione del
conflitto. L’approccio è corretto, perché se non si guarda al versante
politico-ideologico, non si riesce a comprendere l’estrema novità
dell’innovazione rivoluzionaria. Al tempo stesso, tuttavia, è un approccio
troppo unilaterale, che rischia di far perdere di vista altri fattori, non meno
importanti.
Sotto il profilo militare, così
come su altri importanti versanti, la Rivoluzione del 1789 non si innestò sul niente,
ma su un retroterra ben preciso, che era quello di un Paese che aveva digerito
a fatica la dura sconfitta subita contro la Gran Bretagna durante la Guerra dei Sette Anni e
che, dopo i primi segni di ripresa evidenziatisi in seguito alla vittoriosa
partecipazione alla Rivoluzione americana, anelava a consolidare lo sforzo di
riacquisire potenza e prestigio. In quest’ottica, non è sorprendente che il suo
impegno fosse rivolto a rafforzare la sua potenza militare, tanto sul piano
tecnico quanto su quello teorico. Nel primo caso, l’ispettore generale
Jean-Baptiste Gribeauval stava lavorando da tempo al perfezionamento
dell’artiglieria, arma tecnica per eccellenza, creando un sistema assai ben
strutturato, dove i cannoni, anche di calibro diverso, erano costruiti con
parti intercambiabili, mentre i carriaggi erano standardizzati, la mobilità era
garantita e il miglioramento tecnico dei pezzi risultava costante. Nel secondo
caso, un brillante teorico militare, il conte de Guibert, aveva provveduto a
riformulare i principi dell’arte della guerra con lo sguardo rivolto al futuro:
non più conflitti statici, bloccati intorno a piazzeforti, ma eserciti in
rapido movimento, costantemente tesi a ricercare l’annientamento del nemico in
una sola battaglia decisiva. Anticipando lucidamente i tempi, egli scrisse: «L’egemonia
dell’Europa andrà alla nazione… che sarà più risoluta e creerà un esercito
nazionale».
Fu su questo sfondo che, nel
luglio 1789, scoppiò la
Rivoluzione francese e l’esercito, in quanto parte della
società, ne fu subito coinvolto: come il resto dell’organizzazione sociale transalpina,
anche l’esercito era una realtà bloccata, dove non solo i ruoli di comando ma
in pratica l’intero corpo ufficiali era riservato ai membri della nobiltà,
dalla grande alla piccola, e dove le possibilità di promozione erano
estremamente limitate, per non dire inesistenti, se non si possedeva il “sangue
giusto”. La Rivoluzione
cambiò tutto non solo perché si fece portatrice di mentalità, spirito e valori
nuovi, ma anche perché creò, nelle file dell’esercito, una mobilità gerarchica
fino a quel momento sconosciuta: basti pensare che, solo nel 1792, ben 5.500
dei 9.500 membri del corpo ufficiali avevano cercato riparo all’estero e, poiché
i nemici si addensavano sulle frontiere della Francia, fu necessario promuovere
rapidamente ai gradi superiori quei membri della piccola nobiltà di provincia
(a cominciare da Napoleone Buonaparte) che avevano frequentato le scuole
militari del regno, ricavandone una buona preparazione di base, ma parevano
destinati a languire a vita nei gradi subalterni.
Si determinò così una singolare
convergenza tra lo slancio rivoluzionario, con la sua volontà di modificare
radicalmente gli assetti politici, economici e sociali, e le esigenze di
carriera di una piccola ufficialità che, fino a quella data, aveva vissuto
sostanzialmente di frustrazioni e rinunce. Si realizzò così un binomio in cui
componente volontaria e componente regolare, slancio rivoluzionario e
competenza professionale si fusero perfettamente insieme, dando vita ai famosi
eserciti dei “sans culottes”. Quando poi, come nei primi mesi del 1793,
l’alleanza tra i nemici della vampata rivoluzionaria fece comparire
minacciosamente alle frontiere della Francia grandi eserciti nemici, la Convenzione non esitò
a ricorrere (24 febbraio) ad un provvedimento innovativo come la coscrizione
obbligatoria per tutti i cittadini di sesso maschile, di età compresa fra i 18
e i 40, celibi o vedovi senza figli. Ne scaturì una “leva in massa” che diede
vita a una “Nazione armata” la quale non solo era figlia primogenita della Rivoluzione,
ma ne rifletteva alla perfezione lo spirito.
La musica e le parole de “La Marsigliese ” ci
consentono ancora oggi di capire, a più di due secoli di distanza, l’entusiasmo
che animava queste armate rivoluzionarie, dove forme di collaudato professionismo,
spesso provenienti non solo e non tanto dagli ufficiali subalterni, ma
addirittura dalla bassa forza, dai soldati semplici (non a caso, tra i
marescialli di Napoleone abbonderanno, durante l’Impero, personaggi che avevano
cominciato la loro carriere militari dal gradino più basso), si fondevano con
la volontà di radicale rinnovamento politico e sociale che animava i volontari.
Furono costoro a dimostrare al
mondo come doveva essere condotta la guerra per la libertà, e lo fecero, oltre
che sulla base di una solida motivazione politica e ideologica, anche su quella
di novità tattiche e operative che erano inestricabilmente legate a questi
nuovi assetti: un esercito del genere – di fatto vettore di un’idea – non
poteva che basare le sue tattiche sull’aggressività, sull’assalto frontale,
sullo sfruttamento del principio della massa, anche se il lavoro di
preparazione pratica svolto da Gribeauval e quello di elaborazione teorica
condotto da Guibert forniva preziosi supporti a vari livelli. Sotto la regia di
Lazare Carnot, poi, il ministero della Guerra raggiunse vertici insuperati di
efficienza, quanto meno in termini di reclutamento e mobilitazione degli
uomini. Non si dimostrò altrettanto efficiente, per contro, nella capacità di
sostenerne lo sforzo sul piano logistico, ma qui subentrò nuovamente lo spirito
rivoluzionario, poiché questi autentici “soldati politici” erano soliti vivere
approfittando a man bassa di quanto offrivano loro i territori su cui
operavano, per cui le loro formazioni – organizzate su base divisionale – erano
sempre più veloci di quelle del nemico a causa della loro totale indipendenza da una catena di
rifornimenti.
Come tale, dunque, la Rivoluzione francese
elaborò un sistema di guerra totalmente nuovo, basato a livello strategico
sulla grande mobilità degli spostamenti delle truppe, capaci di percorrere in
pochi giorni distanze che, solo qualche decennio prima, sarebbero state coperte
da un esercito nel corso di mesi. A livello tattico, poiché l’addestramento dei
reparti disponibili era assolutamente deficitario e non avrebbe consentito di
condurre le complesse manovre in linea tipiche dei principali eserciti
professionistici dell’epoca, venne trovata una soluzione – l’impiego dei
reparti in colonna – che favoriva il ruolo della massa e che, grazie all’impiego
spregiudicato (anche se costoso in termini di vite umane) di quest’ultima,
consentiva di far leva sullo slancio rivoluzionario per mettere in fuga le
armate di mestiere nemiche, non abituate ad avere a che fare con queste orde
indiavolate. L’attacco in colonna, in realtà, era assai rischioso, dato che
metteva gli attaccanti alla mercé della potenza di fuoco avversaria, ma,
all’epoca, i moschetti non erano efficaci a più di 100 metri di distanza,
per cui il tratto che le armate rivoluzionarie dovevano compiere allo scoperto
era assai breve, senza contare che la loro avanzata era in genere coperta da
nugoli di fanteria leggera (i “tirailleurs”) e che i comandanti più avveduti
avevano la possibilità, se riuscivano a controllare adeguatamente i loro reparti
sul campo, di ricorrere all’ “ordre mixte”, che combinava lo slancio
dell’attacco in colonna con il fuoco di una parte delle truppe attaccanti
schierate in linea. Questo sistema – lo vedremo – sarà portato a perfezione da
Napoleone, ma dimostrò di funzionare egregiamente anche con altri generali
rivoluzionari, come Moreau o Hoche.
Quanto infine alla tanto
dibattuta questione se la
Rivoluzione francese introdusse elementi di novità – di
“ascesa verso gli estremi”, per dirla con Carl von Clausewitz – nella natura
del conflitto, non c’è dubbio che tale componente ci fu (e non avrebbe potuto
essere altrimenti, visto il modo con cui i rivoluzionari interpretarono il loro
ruolo) e talvolta produsse crudeltà inaccettabili. Al tempo stesso, però,
appare una forzatura sostenere che sia stata solo la Rivoluzione ad
innescare tali dinamiche. Queste ultime, infatti, non solo erano già presenti,
ma tendevano ad accendersi, per così dire, a corrente alternata, poiché non
pare possibile sostenere che le guerre religiose dei secoli precedenti (a
cominciare dalla Guerra dei Trent’Anni) fossero state prive di terribili
eccessi. In questo senso, riesce difficile ritenere che la Rivoluzione francese
abbia apportato straordinari elementi di novità sulla natura del conflitto:
quest’ultimo, infatti, non divenne più crudele per ragioni di carattere
ideologico e/o religioso (infatti, quando queste entravano in gioco, lo era
già); semmai, lo divenne per una serie di fattori connessi alle dinamiche
stesse della modernità e per il fatto che, quanto più si ampliava la
partecipazione individuale alla vita politica, più difficile diventava limitare
la guerra a un semplice scontro tra sovrani, retto da regole condivise. Il
fatto che ci fossero di mezzo i popoli, mutava radicalmente lo scenario.