Le età di transizione, per loro stessa natura,
sono spesso caratterizzate dalla contemporanea presenza di fenomeni diversi,
alcuni sicuramente da ascrivere al “nuovo che avanza”, altri di più incerta
tipologia, magari ricchi di colore e anche di insegnamenti validi ancor oggi, ma
più legati al passato. Inoltre una storia della guerra, per quanto sintetica,
si vedrebbe privata di un capitolo importante se non parlasse pure, essendo per
di più scritta in Italia, dei “condottieri”.
Per farlo, è necessario
accennare, nel passaggio dal Medioevo all’età moderna, alla comparsa, durante
la guerra dei Cento Anni (1337-1453), di bande di combattenti che, agendo in
nome e per conto di sé medesimi, giravano per la Francia spargendo violenza
e mettendosi al servizio del miglior offerente. La maggior parte di queste
bande era guidata da gentiluomini decaduti, i quali, privati dei loro
possedimenti feudali, cercavano di trovare una qualche forma di riscatto
individuale e sociale immettendo sul mercato – come si direbbe oggi – il loro
più tipico patrimonio di competenze, cioè le capacità militari. A partire dal
1360, sempre in Francia, queste bande diventano molto potenti e assumono la
denominazione di “grandi compagnie”, riuscendo persino ad affrontare, sovente
con successo, l’esercito regio. Sarà appunto un sovrano, Carlo VII, a prendere
atto di non essere in grado di sconfiggerle e a decidere di
“istituzionalizzarle”, se così si può dire, con la creazione delle “compagnie
di ordinanza”, dalle quali sorgerà l’esercito regolare francese.
Un fenomeno non troppo diverso
si verifica in Italia a cavallo tra la fine del XIV e l’inizio del XV secolo: all’epoca,
il nostro è un Paese ricco, ma politicamente molto frammentato e tormentato da
rivalità reciproche. Le classi dirigenti dei vari Stati e staterelli in cui si
divide la penisola sono troppo interessate a fare affari per potersi occupare
della guerra, senza contare che esse conducono un’esistenza molto agiata, alla
quale è assai difficile rinunciare a favore della scomoda pratica delle armi.
Oltre a ciò, l’eventuale ricorso a milizie popolari è guardato con
comprensibile diffidenza, poiché sussiste il non infondato timore che, se
addestrato all’uso delle armi, il popolo avrebbe potuto alla lunga rivoltarsi
contro i suoi dominatori. Tuttavia, poiché il livello di conflittualità
reciproca tra i vari soggetti politici della Penisola è particolarmente elevato
e una sconfitta sul campo può rappresentare la differenza che intercorre tra il
mantenimento del potere e la sua definitiva perdita, si fa urgente il ricorso a
soldati di mestiere che, con le loro “compagnie di ventura”, apportano gli
uomini, le armi e le competenze operative utili a condurre con successo una
guerra.
In una fase iniziale, le prime
compagnie di ventura assoldate furono composte prevalentemente da stranieri
(francesi, tedeschi, inglesi): si trattava di soldati di professione rimasti
senza occupazione nei rispettivi Paesi di provenienza a seguito di periodi di
pace più o meno lunghi e alla ricerca, quindi, di nuovi committenti. Poiché la
guerra era l’unico mestiere che essi conoscessero, non era sorprendente che
andassero a cercare lavoro là dove sapevano di poterlo trovare, e ben
remunerato, per di più. Tra i primi soldati di ventura a trovare fortuna in Italia
si ricordano il tedesco Werner von Urslingen – noto nel nostro Paese come “il
duca Guarnieri” – il quale, autoproclamandosi «capo della grande compagnia,
nemico di Dio, della pietà e della misericordia», combatté per diversi padroni
e – evidentemente poco (o fin troppo) coerente con i suoi proclami – passò infine
al servizio del Papa…
Molto noto fu pure l’inglese
John Hawkwood – detto “Giovanni Acuto”, per assonanza, nel linguaggio dei suoi
contemporanei italiani – al quale va riconosciuto il merito di una grande
franchezza personale: si narra infatti che, quando incontrava dei frati
francescani che lo salutavano con il loro tradizionale e benaugurante “Dio vi
dia pace!”, egli non esitasse a rispondere, evidentemente poco avvezzo alle
sottigliezze del “politicamente corretto”: “Ma non sapete che io vivo della
guerra e la pace sarebbe la mia rovina?”.
Fu Alberico da Barbiano,
discepolo dell’Acuto, a formare, nel 1379, la prima compagnia di ventura
italiana e a dimostrare che, sul campo di battaglia, essa non era minimamente
inferiore a quelle straniere, anzi. Proprio questo fenomeno di crescente
“italianizzazione” delle compagnie fa sì, in quegli stessi anni, che i servizi
da esse forniti vengano definiti e stabilizzati in base alle regole formulate
dalla cosiddetta “condotta”, vale a dire da una sorta di contratto, sancito da
un solenne giuramento, stabilito tra un capitano di ventura e uno Stato, una
città, un principato o una Lega. Tale “condotta” – da cui deriverà ovviamente
la definizione di “condottieri” per coloro che la stipulano essendo a capo
delle compagnie di ventura – è regolata da obiettivi e ambiti specifici, ha una
durata precisa ed elenca dettagliatamente quali effettivi, armi e mezzi il
condottiero debba mettere a disposizione del committente, per l’assolvimento di
quali obblighi e naturalmente in cambio di quale remunerazione.
Padrone assoluto della propria
truppa, spesso proprietario di una parte significativa dei cavalli e delle armi
di cui essa è dotata, il condottiero – alla scadenza della “condotta” – è
libero di cambiare campo, se qualcuno gli offre di più o se le circostanze lo
richiedono. E non si pone grandi scrupoli nel farlo.
L’epopea dei condottieri (tra
cui si possono citare, tra i tanti, il
Gattamelata, Bartolomeo Colleoni, il conte di Carmagnola) è molto interessante
non solo e non tanto dal punto di vista storico, anche perché la loro incidenza
sull’evoluzione dell’arte della guerra fu scarsa o nulla, quanto soprattutto
per la luce che essa getta sulla natura immutabile del mercenariato, un
fenomeno che la recente crescita esponenziale dei cosiddetti contractors ha reso di grande attualità.
Il soldato di ventura, allora come ora, non è granché interessato alla pace,
poiché quest’ultima segna la messa in crisi della sua funzione e la fine della
possibilità di arricchirsi. Al tempo stesso, il suo impiego operativo è
caratterizzato da una grande prudenza, dal momento che chi fa la guerra per
vivere è l’antitesi della figura del guerriero e ha come precipuo obiettivo quello
di uscire vivo, più che vincitore, dai combattimenti. Ciò crea una sostanziale
coincidenza d’interessi con il nemico, specie se quest’ultimo è rappresentato
anch’esso da mercenari, visto che l’obiettivo di entrambi i contendenti è
quello di massimizzare il bottino e minimizzare le perdite. Molto meno sicure
si possono sentire, per contro, le popolazioni civili, dal momento che il
rispetto nei confronti delle medesime, da parte dei soldati di ventura, è
prossimo allo zero, visto che ai suoi occhi esse hanno un ruolo puramente
passivo, e non molto tranquillo si deve sentire pure il potere politico, dal
momento che chi detiene il monopolio delle armi, all’interno di uno Stato, può
farsi cogliere dalla tentazione di farlo pesare a proprio personale vantaggio,
liberandosi di scomodi padroni. Non è un caso, del resto, che molti
condottieri, magari di umili origini, abbiano fatto una straordinaria carriera
proprio grazie alla forza che potenzialmente erano in grado di esercitare a
carico di chi concedeva loro lauti contratti.
Non è sorprendente, sulla base
delle premesse precedentemente citate, che le guerre svolte dai condottieri e
dalle compagnie di ventura siano state conflitti limitati, con un ridotto
livello di violenza reciproca (anche se non era raro che ben superiore fosse il
livello di violenza esercitato a carico delle popolazioni civili) e un
frequente ricorso ad espedienti e astuzie di ogni genere, tali da consentire il
raggiungimento di decisivi vantaggi con il minimo spargimento di sangue. Un conflitto
di questo tipo, tuttavia, proprio per la sua intrinseca natura tendeva a
diventare cronico, a trasformarsi in una “festa crudele” di cui le vittime,
spesso e volentieri, non erano i combattenti (che giustamente Franco Cardini ha
paragonato a membri di moderne compagnie commerciali in competizione reciproca,
ma non in urto inconciliabile), bensì le popolazioni inermi e le loro terre,
sottoposte a pesanti distruzioni e spoliazioni.
Da questo come da altri punti di
vista, a cominciare dalla scarsa o nulla attenzione all’evoluzione dell’arte
militare, i condottieri rappresentarono il “canto del cigno” del Medioevo e
della relativa concezione della guerra. Il mondo stava cambiando e ormai era
sempre più vicina la definitiva affermazione delle armi da fuoco, di quell’ «o
maledetto, o abominoso ordigno» bollato dall’Ariosto come strumento di origine
palesemente diabolica. La guerra si stava avvicinando ad una svolta di portata
epocale ed era sempre più prossimo l’avvento degli eserciti regolari.