È singolare che, nel tracciare una sintetica
storia della guerra, ad un certo punto l’autore finisca per fare capolino
all’interno della medesima. In verità, era già ben presente, dal momento che
ogni cosa che si scrive è inevitabilmente frutto di un’interpretazione
personale. E tuttavia ci sono, in una storia, figure, momenti ed eventi che
interessano all’autore più di altri e che probabilmente hanno inciso in maniera
notevole sulla sua formazione.
Bambino nell’Italia degli anni
Cinquanta, grazie ad uno zio cinefilo credo di avere visto una quantità
industriale di film di guerra, americani e anche italiani. Forse stanco del
tripudio di pellicole sulla seconda guerra mondiale, la mia attenzione venne
colpita fortemente da un film, Passaggio
a Nord-Ovest, girato a colori nel 1940 da King Vidor e interpretato da
Spencer Tracy. Tutto mi colpì di quel film: le rutilanti giacche rosse della
fanteria inglese, il verde mimetico delle uniformi dei ranger e il paesaggio
delle grandi foreste e dei laghi del Nordamerica (anche se il film non venne
girato nell’Upper New York State, dove la storia si svolge, ma nell’Idaho e
nell’Oregon).
Tratto da un romanzo di un
autore statunitense, Kenneth Roberts, poco conosciuto in Italia ma tradotto da
una grande scrittore come Elio Vittorini, il film narra un episodio di una
certa importanza della guerra tra francesi e inglesi per il controllo del
Nordamerica (1754-1763) e illustra piuttosto bene – pur con tutte le
concessioni del caso allo spettacolo e all’enfasi retorica – uno dei problemi
fondamentali del conflitto in quelle lande lontane. La vicenda si svolge
infatti poco dopo la metà del XVIII secolo e illustra i problemi tattici che le
formazioni di fanteria europee, abituate a combattere in ordine chiuso, si
trovano ad affrontare in un terreno rotto – la wilderness – caratterizzato da fitte foreste, laghi, montagne e
colline, dove è facile perdere l’orientamento e dove i reparti di fanteria
tradizionali sono praticamente inermi di fronte agli attacchi dei pellerossa,
alla loro straordinaria conoscenza dei luoghi, alla loro capacità di adattare
le forme di combattimento alla natura del terreno.
Su questo sfondo nasce – per
dirla in termini moderni – una forma di “guerra asimmetrica”, in cui le truppe
inglesi sono più numerose di quelle francesi e dei loro alleati pellerossa, ma
non possiedono una tattica adatta ad affrontarli in quel contesto geografico e
subiscono in tal modo sconfitte brucianti e dolorose perdite. L’essenza del
problema non sfugge ai comandanti britannici più avveduti, i quali, sfruttando
la presenza e l’esperienza di elementi delle milizie locali, cominciano ad
arruolare compagnie di “ranger”, vale a dire di soldati che combattono in modo
del tutto diverso da un esercito europeo: non conoscono le formazioni in ordine
chiuso; danno grande importanza alla ricognizione, anche a lungo raggio; amano
imitare le tecniche di combattimento degli indiani, come il tiro individuale di
precisione da posizioni protette e lo scontro corpo a corpo.
Nel film, come nel libro di
Roberts e nella realtà della presenza inglese in Nordamerica, il comandante dei
Ranger è il maggiore Robert Rogers (1731-1795), un giovane ufficiale delle
milizie locali dal passato non propriamente adamantino, il quale ha lucidamente
compreso che – nel teatro di operazioni che va da Albany (in quello che oggi è
lo Stato di New York) a Montréal (in Canada) – l’unico modo possibile per
acquisire una superiorità militare permanente consiste nell’affiancare alla
presenza delle truppe regolari contingenti sostanzialmente irregolari come i
“ranger” al suo comando, che conducono un tipo di conflitto non convenzionale e
che colpiscono i francesi e soprattutto i loro alleati indiani con le loro
stesse armi.
Il film illustra, in
particolare, l’incursione in profondità compiuta dai “ranger” – tra la metà di
settembre e l’inizio di ottobre del 1759 – contro il villaggio degli Abenaki
(una tribù locale) di St. François, oggi Odanak (Canada), situato a oltre 150 miglia dal punto di
partenza degli uomini di Rogers, la località di Crown Point, sul lago
Champlain, ai confini tra Stati Uniti e Canada. Condotto da soli 200 uomini, il
raid – un’autentica anticipazione delle moderne missioni delle forze speciali –
si conclude in un completo successo, ma il ritorno verso le linee britanniche,
inseguiti da indiani e francesi, si rivela per gli uomini di Rogers un’impresa
difficilissima, che costa loro la perdita di circa la metà degli effettivi.
Ho avuto la fortuna, nel 2000,
di visitare personalmente i luoghi della Guerra dei Sette Anni in Nordamerica:
partendo da Albany, sono risalito in auto fino a Fort William Henry (quello che
occupa un ruolo di rilievo nella vicenda de L’ultimo
dei Mohicani di James, Fenimore Cooper, visto che è difeso dal colonnello
Munro contro gli assedianti francesi al comando del marchese di Montcalm),
all’estremità meridionale del Lake George. Ricostruito – con gusto tipicamente
statunitense, cioè con una non sempre comprensibile mescolanza di passato parzialmente
alterato e presente inequivocabilmente kitsch – in prossimità del sito
originale, rende vagamente l’idea di come dovesse una fortificazione di
frontiera dell’epoca. Tuttavia, qualche decina di chilometri più a nord, sempre
sulle rive del Lake George, la ricostruzione, storicamente molto più accurata,
del Forte Ticonderoga, sede nel 1758 di una grande vittoria francese, è di
grande soddisfazione per il visitatore. Il paesaggio, inoltre, è molto bello e,
anche se oggi la zona è sostanzialmente un’area di vacanze, rende molto bene l’idea
della natura dei luoghi in cui si svolse quel difficile conflitto.
Come si è già avuto modo di
accennare, la “guerra asimmetrica” avviata dai francesi – i quali, molto meno
numerosi degli inglesi, dovevano cercare forme alternative di conflittualità se
volevano difendere con successo i loro possedimenti in Nordamerica – e dai loro
alleati pellerossa venne contrastata con successo dai britannici solo quando i
loro comandanti si resero conto che il conflitto doveva essere combattuto
impedendo a questi ultimi di valorizzare i loro fattori di superiorità. Di
conseguenza, non solo vennero creati i “ranger”, ma presto molti reparti della
fanteria britannica cominciarono a vedersi impartire un addestramento che li
trasformò in fanteria leggera: le uniformi vennero semplificate, rese pratiche
e adatte ai luoghi, anche se, a differenza di quelle degli uomini di Rogers,
rimasero sempre di un bel rosso vivo, dunque di un colore non propriamente
adatto a fini di mimetizzazione; la formazione in ordine chiuso venne lasciata
completamente da parte in favore dell’impiego individuale degli uomini, di cui
vennero fortemente potenziate le prestazioni nella precisione del tiro, la
capacità di movimento, l’abilità nell’esplorazione e nella raccolta di
informazioni.
Solo qualche anno prima, nelle
colonie britanniche dell’America settentrionale, era diffusa la convinzione che
sarebbe stato sempre difficile sconfiggere i pellerossa sul loro terreno e gli
stessi francesi, se fossero stati in grado di adottare con successo le tattiche
degli indiani. L’esperienza dei “ranger” del maggiore Rogers, tuttavia, stava a
dimostrare che le tattiche di guerriglia, così efficaci contro gli eserciti
regolari, potevano essere battute, se chi intendeva farlo si fosse dimostrato
sufficientemente flessibile, sul piano tattico, da non lasciarsi condizionare
dall’immobilismo e dai preconcetti vigenti per cercare soluzioni operative
nuove ed efficaci. Non è un caso, del resto, che le “Rogers’ Rules for Ranging”
facciano ancora oggi parte del patrimonio culturale delle Forze Speciali USA.
Per quanto concerne infine
l’esito finale dello scontro tra Francia e Gran Bretagna in Nordamerica, non
c’è dubbio che esso fu pesantemente condizionato dalla capacità della “Royal
Navy” di controllare le rotte atlantiche e, all’inverso, dall’incapacità della
flotta francese di impedirglielo. Privi di un flusso costante di rifornimenti e
a corto di uomini, i francesi avrebbero potuto sperare di resistere più a lungo
se fossero stati in grado di cogliere dei successi sul campo, come si era
dimostrato capace di fare il marchese di Montcalm nel 1757-58. Quando questi
vennero a mancare e l’offensiva inglese si fece più massiccia, i francesi si
trovarono in difficoltà a sostenere l’urto della potenza britannica, che si
esprimeva anche e soprattutto nella capacità di condurre operazioni combinate
tra marina ed esercito, e assalti anfibi là – come a Louisbourg (1758) – dove
il nemico poteva essere colto in condizioni di inferiorità e vulnerabilità.
Con queste premesse, la vittoria
conseguita dal generale Wolfe a Québec nel 1759 – decisiva, anche se non
conclusiva per la presenza francese in America settentrionale – rappresentò
l’attestazione più evidente che la guerra, con il passare del tempo, stava
sempre più diventando un fenomeno complesso e articolato, in cui fattori
politici, economici, strategici, tattici e tecnici convergevano a formare un
insieme di ardua gestibilità, in cui era destinato a risultare vincente chi
avesse dato prova dell’onestà e della flessibilità intellettuali indispensabili
a comprendere che non esistevano certezze assolute e immutabili, ma
acquisizioni frammentarie e temporanee, da rinnovare di continuo e da
sottoporre altrettanto continuamente alla prova dei fatti. Va reso merito alla
mentalità pragmatica inglese di esservi, nella circostanza, riuscita.