Il lunghissimo regno di Luigi XIV in Francia
(1643-1715) segnò l’avvento in Europa del primo esempio di esercito moderno,
così come lo si intende ancora oggi. Questo sviluppo rappresentò la più
importante conseguenza del grande rafforzamento del potere statale, frutto
dell’amministrazione centralizzata instaurata da Richelieu e potenziata da
Colbert. Grazie alla solidità del potere statale, infatti, fu possibile mettere
a disposizione del sovrano un vero e proprio ministero della Guerra: sotto
l’abile direzione di Michel Le Tellier e successivamente di suo figlio, il
marchese di Louvois, la
Francia fu la prima potenza europea a dotarsi di
un’organizzazione militare moderna, a tutti i livelli, in cui lo Stato si
preoccupava non solo di reclutare grandi eserciti, ma di organizzarli,
vestirli, sfamarli e armarli. Nel 1695, ad esempio, l’esercito del “Re Sole”
aveva alle armi poco meno di 400.000 uomini, una cifra pari al 2% della
popolazione francese dell’epoca. La spesa militare assorbiva addirittura il 76%
dell’intero bilancio dello Stato e, nell’ambito di quest’ultima, il 17% era
dedicato alla realizzazione di un complesso sistema di piazzeforti e
fortificazioni permanenti che doveva costituire un solido baluardo a protezione
dei confini della Francia.
Fu soprattutto il Louvois a
integrare le unità dell’esercito in reggimenti e brigate permanenti, a rendere
standard l’uniforme bianca tipica delle armate francesi pre-rivoluzionarie, a
creare un’amministrazione responsabile del funzionamento della complessa
macchina militare (l’“intendance”), a sviluppare la cooperazione tra funzionari
civili e militari, orientando questi ultimi essenzialmente sugli aspetti
tecnico-operativi, e ad allestire strutture assolutamente nuove come un
sofisticato servizio cartografico e un embrionale ma già efficiente servizio di
informazioni.
Basato su reggimenti permanenti,
alcuni dei quali intesi alla diretta protezione del sovrano (come i
“moschettieri” resi celebri da Alexandre Dumas) e gli altri – i più –
organizzati in forma reggimentale su base territoriale, il nuovo esercito
francese è una realtà profondamente moderna, animata da un’assoluta devozione
al sovrano (il quale, a sua volta, è molto attento a dimostrare la propria
attenzione e il proprio favore nei riguardi dell’esercito, che, in ultima
analisi, costituisce il più solido fondamento del suo potere). Come in tutte le
monarchie, l’esercito resta il più tradizionale sbocco professionale della nobiltà, che in
tal modo può dare concretamente prova della propria fedeltà al monarca, ma si
fa sempre più forte, in questo periodo, l’afflusso sotto le armi di figli della
borghesia, specialmente nelle armi tecniche, cioè l’artiglieria e il genio,
anche se resta loro preclusa la possibilità di andare oltre il grado di
colonnello, visto che gli alti gradi sono riservati ai nobili.
La natura stessa dell’esercito,
tuttavia, sta cambiando e, insieme ad essa, si sta modificando profondamente il
ruolo sociale del soldato: dopo un lungo periodo in cui quest’ultimo era un
soggetto socialmente marginale, una figura a cavallo tra il predatore e il
delinquente (neppure sempre nobilitato dal fatto di agire in nome di un
interesse superiore), la fusione tra la nuova organizzazione della macchina
militare e i residui dello spirito cavalleresco porta alla nascita di una nuova
etica militare, in base alla quale si serve il sovrano in virtù della fedeltà
al giuramento a questi prestato, della solidarietà con i propri commilitoni, dell’esigenza
– intimamente condivisa – di compiere sempre e comunque il proprio dovere. È
proprio questo profondo mutamento sul piano etico a cambiare il ruolo del
militare nella società, a trasformarlo da soggetto marginale ed emarginato a
fulcro dei valori etici di uno Stato, a persona che è in grado di incarnare in
sé forme di attaccamento al dovere che possono spesso e facilmente arrivare
fino al sacrificio supremo: la morte. Dunque un esempio positivo per tutta la
popolazione.
Come si è in precedenza
accennato, questo è il periodo della nascita, in Francia, di un massiccio sistema
di fortificazioni, realizzato da Sébastien Le Prestre de Vauban, forse il più
grande architetto militare della storia. Egli convinse infatti Luigi XIV della
possibilità di costruire una “Fortezza Francia”, edificando una complessa
catena di fortificazioni lungo i confini orientali del Paese, modificando 83
città e creando 8 nuovi centri strategici. Tale sistema avrebbe costituito un
baluardo insormontabile per qualsiasi nemico. La soluzione ideata da Vauban non
era casuale, bensì conforme alla natura assunta dall’arte della guerra in quel
periodo. Le piazzeforti, infatti, oltre a coprire le frontiere, servivano ad
incanalare lungo direttrici precise potenziali armate di invasori, offrivano
rifugio in caso di sconfitta, disturbavano le comunicazioni e le linee di
rifornimento del nemico, e consentivano di mantenere basso il ritmo degli
eventi bellici, ciò che offriva molto spazio all’attività diplomatica e ai
rovesciamenti di alleanze. In una parola, la grande intuizione di Vauban fu
quella di comprendere che le fortificazioni non erano fini a se stesse, ma
potevano essere agevolmente utilizzate come fattore strategico e anche
politico.
Questo sviluppo non era casuale
ma frutto del fatto che, dopo il crescendo di fanatismi, violenze e distruzioni
della Guerra dei Trent’Anni, tutti gli Stati europei erano interessati a
moderare gli eccessi dei conflitti: emendata dei suoi contenuti religiosi e
ideologici, la guerra poteva più facilmente rientrare all’interno della
politica se veniva universalmente riconosciuta e accettata la sua funzione di
prosecuzione della politica stessa “con altri mezzi” e con alcune finalità ben
precise, come dirimere le controversie tra gli Stati e far conseguire all’uno o
all’altro una serie di vantaggi – in genere territoriali – assolutamente
tangibili. Appare perciò abbastanza paradossale che questo tipo di guerra, dal
limitato carico di violenza e dai costi contenuti, sia passata allo storia con
la denominazione (invero non priva di una valutazione spregiativa neppure
troppo larvata) di “guerra in merletti” (“guerre en dentelles”), senza tenere
conto che la sua natura regolamentata e quasi rituale era frutto del fatto che
i contendenti erano pienamente consapevoli che un conflitto del genere avrebbe
dovuto concludersi con vantaggi concreti per il vincitore, rifiutando
programmaticamente qualsiasi eccesso di violenza e distruzioni, che non sarebbe
stato utile per alcuno.
Sul piano tattico, infine, per
quanto possa sembrare sorprendente la seconda metà del XVI secolo fu caratterizzata
da una certa nostalgia per il ritorno dell’arma bianca. Non si trattava,
tuttavia, di una scelta dettata da misoneismo, ma da precise esigenze tattiche.
Troppo spesso, infatti, i moschetti erano soliti creare problemi sul campo di
battaglia, specie quando la pioggia o l’umidità ne rendevano realmente
complicato l’impiego. In circostanze del genere, il fatto che la fanteria
disponesse soltanto di moschetti poteva rendere molti reparti inermi di fronte
a un nemico che non fosse afflitto in egual misura dagli stessi problemi o
adottasse soluzioni tattiche diverse (il ricorso all’arma bianca, appunto). Fu
così che verso il 1670 si ebbe (pare in Gran Bretagna, ma la paternità è
incerta) un’intuizione geniale in termini di principio, anche se non subito funzionale
sotto il profilo dell’utilizzazione pratica: la trasformazione del moschetto in
arma bianca mediante l’inserimento a forza, all’interno della sua canna, di un
pugnale speciale, la cui impugnatura, progettata in modo da fornire prestazioni
modulari, si adattasse alla luce dell’arma da fuoco. Grazie a tale intuizione,
l’arma da fuoco si poteva trasformare, al momento opportuno, in arma bianca e
il moschettiere poteva a sua volta diventare un picchiere e sfruttare la
potenza dell’urto invece che quella del fuoco. Poiché i primi esemplari sperimentali
di questa nuova arma furono prodotti a Bayonne, in Francia, essa prese il nome
di “baionetta”, destinato a ritagliarsi un posto di primo piano nella storia
militare.
Una volta risolto il problema
dell’interscambiabilità tra arma da fuoco e arma bianca, il che consentiva ai
comandanti sul campo di alternare a piacimento l’azione distruttiva fornita
dalla potenza del fuoco con quella risolutiva affidata all’arma bianca, restava
da risolvere quello dello schieramento della fanteria. Poiché, per
quest’ultima, la chiave di tutto restava la celerità del tiro, era chiaro che,
quanto più l’addestramento la rendeva veloce, tanto minori erano le linee su
cui i suoi reparti si potevano schierare. Non a caso, già all’inizio del
Settecento le “giacche rosse” della fanteria inglese, molto ben addestrate al
tiro, avevano necessità di schierarsi su non più di tre righe, perché tale
profondità era più che sufficiente per mantenere una cadenza di fuoco molto
rapida.
Tra la seconda metà del Seicento
e i primi decenni del Settecento, dunque, gli eserciti di alcune tra le
principali potenze europee assunsero caratteri standardizzati e molto moderni,
assai simili a quelli che avrebbero conservato per almeno due secoli. I conflitti
a livello continentale erano sempre alquanto numerosi, ma si stava avvicinando
a grandi passi un’epoca nuova, che avrebbe ampliato a dismisura le dimensioni
geografiche e anche quelle politico-culturali della guerra.